Israele: se l’emergenza “salva” Bibi Netanyahu

Dopo diciassette mesi di governo di transizione e tre elezioni legislative, la più lunga crisi politica nella storia di Israele si è avviata a una conclusione, dopo il via libera della Corte Suprema, alla formazione dell’esecutivo di unità nazionale nato dall’accordo politico tra il primo ministro ad interim Benjamin Netanyahu e il leader del partito Kahol Lavan, Benny Gantz. L’accordo è giunto in piena emergenza Covid-19 e a quasi due mesi dalle elezioni del 2 marzo quando, di fronte al rischio di un nuovo fallimento, il presidente Reuven Rivlin ha chiesto a tutte le parti maggiore responsabilità per evitare una quarta consultazione elettorale. Sul piano esterno, l’emergenza coronavirus ha rallentato o ridisegnato le strategie di politica estera di Israele, che si concentrano su tre questioni: processo di pace con i palestinesi, contenimento dell’Iran e dei suoi proxies regionali e diplomazia africana.
Quadro interno
Le elezioni del 2 marzo 2020, avvenute agli inizi dello scoppio della pandemia da Covid-19, non hanno contribuito a risolvere lo stallo politico in cui Israele versa da novembre 2019. Infatti, nonostante il Likud sia risultato il maggior partito, i 59 seggi totali ottenuti dal blocco di Benjamin Netanyahu, non sono stati risolutivi nel decretare la vittoria netta di uno dei due schieramenti.[1] Il primo colpo di scena è arrivato quando la Joint List, la coalizione formata dai principali partiti arabo-israeliani, ha deciso di appoggiare nella totalità dei suoi membri la premiership di Benny Gantz, il rivale di Netanyahu; questa decisione storica ha permesso così a Gantz di ottenere i 61 voti necessari (provenienti da Kahol Lavan, Labor-Meretz-Gesher, Joint List e Yisrael Beitenu) per ricevere per primo l’incarico dal presidente Reuven Rivlin di formare il governo: le elezioni, che si erano chiuse con quello che sembrava un vantaggio per Netanyahu, si sono trasformate sul campo in una mezza-sconfitta.
Ciononostante, Gantz si è ritrovato molto presto bloccato e senza un percorso netto verso la formazione del governo; di fatto, l’opzione più fattibile, che consisteva nel formare una coalizione di minoranza appoggiata esternamente dalla Joint List, ha trovato opposizione proprio all’interno della corrente di destra del suo partito. Per l’appunto, Zvi Hauser e Yoaz Hendel hanno rifiutato di approvare un esecutivo anche solo supportato da partiti arabi; pertanto, la ridotta maggioranza di Gantz ha eliminato la possibilità di stabilire un governo ristretto, lasciando come unica strada percorribile l’apertura a un governo di più ampie intese. Nel bel mezzo dell’impasse politica, tramite la mediazione del presidente Rivlin, Netanyahu e Gantz hanno dichiarato di essere disposti ad avviare negoziati per formare un governo di unità di emergenza per combattere la pandemia.
Parallelamente, con l’intensificarsi dell’emergenza legata al diffondersi del coronavirus, Israele ha iniziato ad applicare regole per il distanziamento sociale per contenere il contagio; questo contesto ha posto le basi per una serie di azioni molto controverse, apparentemente intraprese per affrontare la pandemia, ma che indubbiamente hanno finito con il rafforzare la posizione di Netanyahu come primo ministro ad interim. Infatti, a sessanta ore dall’inizio del suo processo presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme (previsto il 17 marzo), il ministro della Giustizia Amir Ohana ha ordinato la chiusura immediata di tutti i tribunali, rimandando così anche le vicende legali di Netanyahu, ora posticipate al 24 maggio. Nello stesso giorno il governo israeliano ha autorizzato lo Shin Bet – l’agenzia di intelligence per gli affari interni – a tracciare i movimenti di persone positive al Covid-19 attraverso i loro smartphone. Sebbene queste misure molto rigide siano in sintonia con ciò che la maggior parte dei paesi occidentali intende attuare per contenere la pandemia, sono state altresì oggetto di forte discussione interna a causa della loro approvazione solo in sede di gabinetto di governo, invece che sottoposte al voto della Knesset.[2] Altro episodio controverso riguarda la decisione di Yuli Edelstein (speaker della Knesset e membro del Likud) che, nel giorno dell’inaugurazione del nuovo parlamento, ne ha ordinato la chiusura; tale iniziativa è sopraggiunta inserendosi nella serie di contromisure per il contenimento del virus, ma solo dopo che Kahol Lavan e Likud sono entrati in disaccordo sulla composizione dell’Arrangements Committee della Knesset (organo con il compito di supervisionare la formazione e le attività del parlamento). Si specifica che tale comitato, essendo addetto a indire l’elezione del nuovo speaker della Knesset, avrebbe permesso a Kahol Lavan di sostituire Edelstein in tempi brevi. Quindi, si può pensare che tra gli obiettivi di questa mossa vi sia stato, non solo il fatto di mantenere un membro del Likud nel ruolo di presidente del parlamento, ma anche di ritardare il subentro di Kahol Lavan nella sovraintendenza degli enti che regolano le attività della camera; condizione che avrebbe permesso al partito di Gantz di estromettere Netanyahu attraverso l’approvazione di alcune leggi (limite di due termini ai primi ministri, dimissioni di un premier incriminato e divieto per un parlamentare sotto processo di formare un governo).
Aggiungendo all’equazione che era Benny Gantz, e non Netanyahu, il candidato premier che aveva ricevuto il mandato per formare un nuovo governo e che, nella Knesset ci sono più seggi anti-Netanyahu che seggi pro-Netanyahu, il blocco delle attività del parlamento è apparso come un allontanamento dall’equilibrio del principio di base di separazione dei poteri e dalla loro capacità di mantenere un dialogo reciproco.
La decisione di chiudere il parlamento da parte di Edelstein ha provocato molte proteste che si sono manifestate nelle forme più svariate: dalla manifestazione virtuale, alla petizione di Kahol Lavan presentata alla Corte Suprema di Giustizia contro tale provvedimento. In relazione a quest’ultima, i giudici nella direttiva emessa hanno intimato a Edelstein di riaprire il parlamento e di riprendere le attività. Per tutta risposta, lo speaker ha annunciato le sue dimissioni piuttosto che sottostare al richiamo della Corte e di consentire al plenum della Knesset di riunirsi per votare il suo successore. Il consulente legale del parlamento, Eyal Yinon, si è pronunciato chiarendo a Edelstein che le sue dimissioni non lo avrebbero esentato dall’obbligo di convocare la sessione.
Così, una volta riaperta il 26 marzo, Benny Gantz è stato inaspettatamente eletto speaker della Knesset, come parte di un accordo per un governo di unità nazionale “d’emergenza” con il primo ministro Benjamin Netanyahu. Alcuni attimi dopo la proposta di Gantz per la nomina, Kahol Lavan ha reso ufficiale la sua divisione trovandosi spaccato in due fazioni. Nel suo primo discorso come speaker, Gantz ha spiegato che il suo sostegno a un governo di unità nazionale deriva dall’emergenza scaturita dalla pandemia: «Questi non sono tempi normali e chiedono decisioni insolite»,[3] ribadendo il suo impegno nel salvaguardare la democrazia israeliana. Tale decisione ha sollevato aspre critiche nei suoi confronti da parte degli ex alleati che lo hanno accusato di aver tradito la natura del mandato ricevuto dagli elettori.
Analizzando il contesto, sono tre i fattori che hanno contribuito a far prendere a Benny Gantz una decisione che, seppur partendo da valutazioni politiche, non è politica di natura. Prima di tutto, Gantz ha constatato l’impossibilità di realizzare un governo formato esclusivamente dal blocco anti-Netanyahu, in secondo luogo, ha escluso la prospettiva di un’altra elezione nel bel mezzo dell’epidemia di Covid-19 e terzo, ha considerato i sondaggi che mostravano come il 61% degli elettori avrebbe preferito un governo di unità di emergenza e come Kahol Lavan sarebbe andato incontro a una pesante sconfitta elettorale in caso di una quarta elezione. A fronte di questi elementi, si può interpretare la scelta di Gantz solo tenendo in considerazione il suo background militare e lo scopo per cui Kahol Lavan è nato, ovvero, concludere l’era del governo di Netanyahu. In questa prospettiva, si può considerare la sua mossa un cambiamento tattico estremo rispetto alla linea dello scontro aperto adottata finora, a favore di un’azione di arginamento che parta proprio dall’interno di un governo guidato da Netanyahu. Gantz ha scommesso sulla sua carriera politica, decidendo di agire nel modo più efficace e controverso per servire il suo obiettivo: visto che, politicamente parlando, è risultato impossibile escludere Netanyahu dal governo, il risultato che più si avvicina è impedirgli di formare un esecutivo praticabile. Inoltre, a fronte dell’infuriare dell’epidemia, Benny Gantz ha ritenuto che evitare una quarta elezione fosse più importante delle manovre politiche dei suoi ex alleati Yair Lapid e Moshe Ya’alon, così come di Netanyahu.[4]
L’accordo prevede un governo di emergenza di sei mesi incentrato innanzitutto sulla crisi Covid-19. Tuttavia, il fatto che ci siano volute più di tre settimane per arrivare a un compromesso, in qualche modo smentisce la designazione di “emergenza”. Mentre viene esclusa l’introduzione di importanti leggi in materie che esulano dal virus in quei primi sei mesi, l’accordo fa eccezione per l’annessione di parti della Cisgiordania; Netanyahu sarebbe libero di avanzare verso l’annessione unilaterale, previa approvazione del parlamento e appoggio da parte degli Stati Uniti.
Netanyahu inizierà come primo ministro, mentre Gantz fungerà da vice. I due ruoteranno dopo 18 mesi e, per annullare tale rotazione è richiesta l’approvazione di una legge con 75 voti favorevoli. Il governo sarà composto inizialmente da 32 ministri, che aumenteranno a 36, con un massimo di 16 vice ministri, rendendolo così il più grande nella storia di Israele. Gantz sarà nominato ministro della Difesa e vice primo ministro. Altri importanti portafogli, tra cui Affari Esteri e Giustizia, vanno a Kahol Lavan. Il Likud ottiene il dicastero delle Finanze, della Pubblica sicurezza e lo speaker della Knesset. Inoltre, il leader del Partito laburista, Amir Peretz, e il suo vice, Itzik Shmuli (che si sono aggiunti alla coalizione creando ulteriore scalpore), diventeranno rispettivamente ministro dell’Economia e del Welfare. Yakoov Litzman di United Torah Judaism, trovato positivo al Covid-19, manterrà il suo ruolo di ministro della Sanità, così Aryeh Deri di Shas rimarrà agli Interni.
Da un lato, questo nuovo governo ha un sistema di “check and balances” tale che le due parti si neutralizzano a vicenda così, se da una parte non viene realizzata in toto la visione fondante di Kahol Lavan e del blocco “anti-Bibi”, dall’altra impedisce a Netanyahu di attuare la rivoluzione costituzionale tanto agognata. A un primo impatto, il cambiamento non è drammatico, ma il primo ministro non deciderà più da solo: ogni nomina e ogni decisione politica richiederà d’ora in poi il consenso del vice premier Gantz. Naturalmente, questa parità potrebbe significare una paralisi senza fine. Anche l’influenza finora esercitata dai partiti ultra-ortodossi e nazionalisti risulta più contenuta per via dello spostamento dell’equilibrio intero sull’asse della coalizione di governo; infatti, il nuovo centro di potere si localizza tra Kahol Lavan e Likud. Vero è che Netanyahu non esce da questo accordo così svantaggiato: sarà in grado di servire come primo ministro mentre contemporaneamente è sotto processo per corruzione, frode e breach of trust.
Inoltre, l’accordo sul governo di unità ha riscontrato una consistente opposizione, tanto in politica quanto nelle piazze; infatti, malgrado le restrizioni dovute al coronavirus, domenica 19 aprile[5] e sabato 25 aprile, rispettivamente 5.000 e 2.000 persone si sono radunate in Piazza Rabin a Tel Aviv (aderendo alle norme sul distanziamento sociale) per manifestare contro una presunta erosione della democrazia israeliana sotto la guida del primo ministro Netanyahu e contro l’intesa di governo con Benny Gantz. Entrambe le proteste sono state organizzate dal movimento delle “bandiere nere”, chiamato così perché dall’inizio della pandemia in Israele si utilizza questo simbolo nel manifestare contro il deterioramento delle istituzioni e delle fondamenta democratiche dello stato. Inoltre, il 23 aprile, la massima istituzione giuridica in Israele ha accettato di esaminare le petizioni presentate dalle opposizioni contro l’accordo di coalizione firmato da Benjamin Netanyahu e Benny Gantz e di deliberare in merito all’eventuale possibilità di introdurre il divieto per un deputato ufficialmente incriminato di diventare primo ministro. Dopo alcuni giorni di profonde discussioni, la Corte Suprema ha dato il via libera[6] ritenendo legale l’accordo politico tra Netanyahu e Gantz per la formazione di un governo di emergenza nazionale, che ha prestato giuramento il 17 maggio, ponendo fine alla più lunga crisi politica del paese[7].
Nel frattempo, in questi mesi, le istituzioni sono sempre state impegnate nel tentativo di contenere e di far retrocedere l’epidemia di coronavirus che ha visto ammalarsi 16.643 persone, delle quali 276 sono decedute (dati aggiornati al 19 maggio[8]); con l’abbassamento della curva dei contagi, il governo ha approvato una serie di misure per allentare significativamente il lockdown imposto, che ha gravemente paralizzato l’economia israeliana. Le ripercussioni economiche e sociali avranno sicuramente gravi strascichi nel medio termine e diventeranno una questione catalizzante del dibattito pubblico. Inoltre, la combinazione tra emergenza istituzionale creata dal coronavirus e lo stallo creatosi dopo la terza elezione, ha accelerato le influenze dannose che le condizioni precedenti alla pandemia avevano già impresso sul regime democratico. Tuttavia, il 5 maggio, il ministro della Difesa Naftali Bennet ha annunciato che l’Israel Institute for Biological Research (Iibr) avrebbe terminato gli studi di sperimentazione di un vaccino al Covid-19 e che i suoi ricercatori sarebbero pronti a brevettare e a produrre in serie il potenziale trattamento. Se tale notizia venisse confermata, oltre al fatto di essere estremamente importante in termini medico-scientifici, potrebbe garantire un certo vantaggio competitivo a Israele nella gestione della crisi sanitaria e nel favorire una diffusione capillare del futuro vaccino[9].
Relazioni esterne
Come altre realtà mediorientali, anche Israele è stata fortemente esposta al contagio coronavirus e analogamente ad altri si è mossa sul piano esterno attivando un sistematico piano di aiuti diretto verso i paesi partner (e in particolar modo verso Stati Uniti, Italia, Cina) con lo scopo dichiarato di rafforzare, da un lato, le relazioni bilaterali, dall’altro, nell’ovvio tentativo di consolidare la posizione geopolitica israeliana nei rapporti molteplici che intrattiene con quegli attori su più dossier internazionali.[10]
Anche in quest’ottica rientrano due importanti situazioni strettamente collegabili: l’invio di aiuti sanitari dalla Turchia nel paese e in Cisgiordania (poi ricambiati anche da Israele) e l’emergenza (non solo sanitaria) a Gaza. Nel primo caso, è evidente come il gesto turco possa anche essere interpretato come un segnale distensivo, potenzialmente utile a rilanciare relazioni bilaterali che sono state storicamente molto strette (almeno fino all’incidente della Mavi Marmara a maggio 2010) e ritrovare un interlocutore privilegiato e interessato, come Israele, in più contesti condivisi nel Mediterraneo (dalla Siria alla questione cipriota, passando per le scoperte energetiche nel Mar del Levante[11] e nelle dinamiche palestinesi a Gaza e in Cisgiordania).[12] Di ben altro tenore invece è la tensione costante tra Israele e Hamas. Sul finire di febbraio si è assistito a una violenta escalation nella Striscia di Gaza, a seguito di alcuni attacchi reciproci, per mezzo di razzi e missili, ma il 25 febbraio, Israele e i gruppi di resistenza palestinese hanno annunciato un cessate-il-fuoco. La tregua è stata raggiunta anche grazie alla mediazione delle Nazioni Unite e dell’Egitto. Alla base delle violenze vi è stato l’attacco aereo lanciato da Israele contro alcune postazioni del Jihad islamico palestinese (Pij) in Siria, nei pressi di Damasco, causando l’uccisione di due militanti palestinesi (23 febbraio). Al di là del caso specifico, la tensione tra le parti sarebbe in verità direttamente collegabile alla situazione di sofferenza umanitaria vissuta dalla popolazione palestinese residente nella Striscia e alle difficili condizioni di vita, soprattutto, dopo l’esplosione del coronavirus a Gaza e nei principali centri del territorio. Hamas ha più volte intimato Israele di evitare nuovi scontri e a non usare il Covid-19 come pretesto per azioni militari contro le organizzazioni palestinesi. Una situazione di tensione che si alimenta da un lato delle difficoltà concernenti il contesto regionale vicino-orientale, dall’altro del tentativo di Hamas e Pij di cercare un coinvolgimento esterno da parte di un grande player internazionale. Va letto in tal senso il tentativo di Hamas e Pij di incontrare a Mosca e Damasco le controparti russe (entrambi i colloqui sono stati gestiti dal ministro degli Esteri, Sergej Lavrov). L’iniziativa si spiegherebbe infatti con una ricerca gazawi di uscire dall’isolamento diplomatico a cui il territorio è sottoposto, mentre in chiave russa come un’iniziativa per affermarsi sempre più come decisore politico indispensabile nelle aree di crisi mediorientali.[13] Altresì, le rinnovate tensioni tra Israele-Hamas e le annesse manovre regionali potrebbero essere interpretate come un tentativo da parte degli attori coinvolti per andare oltre lo strumento del cessate-il-fuoco e rilanciare colloqui indiretti finalizzati a favorire un accordo più ampio che rafforzerebbe le capacità di governance di Hamas e la sua legittimità a Gaza e in Cisgiordania, impegnando lo stesso movimento islamista a garantire un’intesa di sicurezza di lungo termine con Tel Aviv.[14]
Altre questioni regionali hanno avuto un peso importante nel processo decisionale israeliano. Tra queste, le tensioni lungo i confini condivisi con Siria e Libano hanno mantenuto un’alta attenzione nelle prospettive di politica estera di Tel Aviv. Tra marzo e aprile 2020, si sono verificati diversi incidenti o abbattimenti, da parte siriana e israeliana, di missili e droni che violavano, per lo più, gli spazi aerei siriani. I casi più eclatanti hanno interessato Palmira, Homs e il sud della Siria. Proprio in uno di questi eventi, si è verificato un’incidente molto rilevante a Hadr, un villaggio della provincia di Quneitra, sulle Alture del Golan, dove un drone israeliano ha colpito un blindato uccidendo Imad Tawil, un membro delle Forze di resistenza siriane per la liberazione del Golan (una milizia affiliata a Hezbollah), e creando numerose polemiche e tensioni sia a Damasco, sia a Beirut, che hanno denunciato l’accaduto come una violazione israeliana.[15] Benché non si tratti di un caso isolato, in quanto sin dal 2011 e poi con una certa costanza dal 2014, Israele ha condotto centinaia di attacchi aerei in Siria, prendendo di mira i suoi principali nemici nella regione mediorientale, che fossero gruppi palestinesi, soggetti legati al regime damasceno o soprattutto a Hezbollah e alle milizie sciite filo-iraniane presenti ai confini meridionali siriani. La scelta degli strikes mirati israeliani risiederebbe nella volontà di Tel Aviv di impedire a Teheran di costruire una propria base militare permanente in Siria. Pertanto gli attacchi aerei sarebbero estesi anche verso gli obiettivi strategici degli alleati iraniani, come i depositi di armi appartenenti a Hezbollah.
Altro tema, cruciale nella prospettiva israeliana di sicurezza domestica e di esteri riguarda le evoluzioni nel processo di pace con i palestinesi. Una situazione che potrebbe subire un’accelerata anche in relazione alla svolta sul nuovo governo, sempre retto da Netanyahu. Il premier ad interim potrebbe decidere dal prossimo luglio di dare luogo a un processo di annessione unilaterale dei territori sottoposti a occupazione militare e così riconosciuti dalla comunità internazionale. Nella fattispecie, entro il 1° luglio il nuovo governo potrebbe dare avvio all’annessione di gran parte delle colonie ebraiche disseminate in Cisgiordania, primo passo, secondo molti, per un processo rapido che sfocerà nel possibile inglobamento anche della Valle del Giordano, specie se venisse riconfermato in novembre Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, rischiando di aprire ulteriori tensioni regionali, anche con Amman. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha denunciato l’azione di Israele che starebbe sfruttando la pandemia per espandersi a Gerusalemme e in Cisgiordania, nonché gli episodi violenti (in crescita) che hanno coinvolto finora fasce marginali di popolazione civile, tanto israeliana quanto palestinese, nei villaggi arabofoni di al-Issawiya e Sylwan, vicini alla parte orientale di Gerusalemme.[16] A rendere le cose ancor più complesse è anche l’atteggiamento non più super-partes di Washington. Infatti, secondo il segretario di stato, Mike Pompeo, Israele potrà decidere in maniera autonoma se annettere o meno parti della Cisgiordania.[17] Una dichiarazione che ha suscitato inevitabilmente la rabbia dei rappresentanti palestinesi e la condanna inequivocabile del presidente Abu Mazen, che ha poi affermato che la sua amministrazione considererebbe gli accordi con Israele e gli Stati Uniti come annullati se Tel Aviv procedesse all’annessione unilaterale dei territori contesi in Cisgiordania.[18] A frenare le possibili iniziative unilaterali di Tel Aviv è stata la forte presa di posizione europea, a guida franco-tedesca, alle Nazioni Unite che ha messo in guardia l’alleato israeliano dall’intraprendere un’azione che potrebbe presentare ripercussioni, anche a livello di relazioni politiche ed economiche.[19] È sempre bene ricordare che a oggi i territori palestinesi sono regolati dagli Accordi di Oslo del 1993, secondo cui la Cisgiordania è divisa in tre settori amministrativi, denominati aree A, B e C. Nello specifico, l’area A (pari al 18% della Cisgiordania) è sotto il controllo civile dell’Anp. L’area B (circa il 22%) viene amministrata in modo congiunto da Israele e Palestina, mentre l’area C (pari al 61% della Cisgiordania) è controllata da Israele. Tuttavia questa condizione di confusione diplomatica potrebbe essere risolta dall’atteggiamento dei paesi arabi della regione mediorientale, i quali potrebbero trovar vantaggioso supportare il piano Trump e indirettamente dare il via libera all’annessione israeliana della Cisgiordania per non mettere in pericolo il patto di non belligeranza esistente con Israele e i capofila del gruppo guidati da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, per contenere le strategie geopolitiche antagoniste di Iran e dell’asse turco-qatarino nel Mediterraneo[20] e in Medio Oriente.[21]
Anche in questa prospettiva si incanalerebbe il lento e costante rapporto di appeasement di Israele nei confronti delle comunità musulmane in Africa, in un’ottica, appunto, di costante allineamento ai paesi del Golfo e in funzione anti-iraniana. Si spiegherebbero così le iniziative del premier Netanyahu nei confronti di Sudan, Nigeria e Repubblica Democratica del Congo. Se tra Khartoum e Tel Aviv si studiano piani di normalizzazione dei rapporti che troverebbero un primo impegno concreto con la concessione del diritto di sorvolo agli aerei commerciali israeliani sullo spazio aereo sudanese,[22] con Kinshasa il discorso pare decisamente più approfondito. Infatti, in occasione della conferenza annuale dell’Aipac (American Israel Public Affairs Committee) a Washington (2 marzo), il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Felix Tshisekedi, ha annunciato che nominerà a breve il suo ambasciatore in Israele, per la prima volta dopo vent’anni, e che intenderà studiare un piano di relazioni approfondite in ambito scientifico, tecnologico e di cooperazione in campo agricolo e ambientale.[23] Con la Nigeria, invece, il discorso rimane per lo più mirato a una forma di cooperazione rafforzata in ambito anti-terrorismo.[24] La campagna africana di Netanyahu vuole anche sensibilizzare maggiormente i paesi del continente a tenere una posizione nuova rispetto alla tradizione, più vicina alle istanze di Israele in funzione anti-palestinese, in modo tale da godere del loro appoggio in sede Onu e in altri consessi internazionali.
[1] Israel Policy Forum, https://israelpolicyforum.org/elections3/.
[2] J.A. Gross, “Knesset committee chair slams cabinet’s phone tracking decision as ‘power grab’”, The Times of Israel, 17 marzo 2020.
[3] B. Gantz, “I chose the only path possible at this time, a national emergency government”, The Times of Israel, 29 marzo 2020.
[4] A. Pfeffer, “Gantz, Exhausted, Has Given in to Netanyahu’s Relentless Campaigning”, Haaretz, 27 marzo 2020.
[5] “Protesting in a pandemic: Israelis demonstrate at a distance”, France 24, 20 aprile 2020.
[6] O. Holmes, “Israeli court rules Netanyahu can form government under criminal indictment”, The Guardian, 7 maggio 2020.
[7] A. Heller, “Israel finally swears in government after 3 elections”, Associated Press, 17 maggio 2020, https://apnews.com/152cc0b16c9a6c4dcbdeae3501b5be7a.
[8] State of Israel – Ministry of Health, https://govextra.gov.il/ministry-of-health/corona/corona-virus/spokesman messages-corona/.
[9] “Defense minister claims Israel’s biological institute developed virus antibody”, The Times of Israel, 5 maggio 2020.
[10] Una situazione che ha creato non poche polemiche anche all’interno dell’amministrazione Trump, che ha malvisto le strette relazioni tra Israele e Cina, intendendo in questa iniziativa una volontà non celata di Tel Aviv di stringere rapporti durevoli con Pechino su determinati temi strategici (soprattutto hi-tech, cyber e sicurezza). Per maggiori approfondimenti, si veda: Z. Chafets, “Israel, Too, Turns to China for Covid-19 Help”, Bloomberg, 8 aprile 2020.
[11] Specie in quest’ultimo contesto sono da monitorare con grande attenzione gli ultimi sviluppi occorsi nell’area dopo la mancata firma israeliana della dichiarazione congiunta adottata lo scorso 11 maggio da Grecia, Cipro, Egitto, Francia e Emirati Arabi Uniti nel condannare l’attivismo turco nelle acque contese cipriote. Per maggiori informazioni, si veda: Hellenic Republic – Ministry of Foreign Affairs, Joint Declaration adopted by the Ministers of Foreign Affairs of Cyprus, Egypt, France, Greece and the United Arab Emirates (11.05.2020), https://www.mfa.gr/en/current-affairs/statements-speeches/joint-declaration-adopted-by-the-ministers-of-foreign-affairs-of-cyprus-egypt-france-greece-and-the-united-arab-emirates-11052020.html
[12] R. Bassist, “Israel and Turkey, first signs of warming up?”, Al-Monitor, 13 aprile 2020.
[13] Si vedano: E. Teslova, “Russian foreign minister meets Hamas leader in Moscow”, Anadolu Agency, 2 marzo 2020; “Israel condemns Russia for hosting Islamic Jihad leader in Moscow”, The New Arab, 12 marzo 2020.
[14] Y. Tzoreff e K. Michael, “Israel and Hamas: From Corona to Prisoners and a Possible Arrangement”, The Institute for National Security Studies (INSS), INSS Insight no. 1309, 27 aprile 2020.
[15] N. Houssari, “Israeli drone strike targets top Hezbollah security official”, Arab News, 16 aprile 2020.
[16] “Israel settlers attack Palestinian farmers in Jordan Valley”, Middle East Monitor, 16 marzo 2020.
[17] H. Pamuk e A. Mohammed, “Pompeo says annexation of West Bank is Israeli decision to make”, Reuters, 22 aprile 2020.
[18] “Palestinians condemn new Israeli ‘annexation government’ and call it an ‘end to the two-state solution’”, The New Arab, 21 aprile 2020.
[19] “EU warns incoming Israeli government against West Bank annexation”, The New Arab, 23 aprile 2020.
[20] Una versione che verrebbe in parte rafforzata dall’atteggiamento volutamente ambiguo di Israele nei confronti del conflitto libico, dove Tel Aviv, in misura decisamente minore rispetto ad altri attori regionali, supporterebbe Khalifa Haftar, fornendo armi e addestramento all’esercito nazionale libico del generale sostenuto da Abu Dhabi. Nella fattispecie Tel Aviv fornirebbe sistemi avanzati di difesa aerea fabbricati da una società israeliana e trasferiti in Libia attraverso l’Egitto. Questi sistemi hanno lo scopo di contrastare i droni turchi. Per approfondire: Y. Melman, “Israel’s little-known support for Haftar’s war in Libya”, Middle East Eye, 15 aprile 2020.
[21] G. Stabile, “Dopo il piano Trump, patto di non aggressione fra Israele e i Paesi del Golfo”, La Stampa, 13 febbraio 2020. A dar maggior forza a questa ipotesi vi è anche la stretta cooperazione in ambito sanitario emersa dallo scorso marzo per combattere il coronavirus nella regione. Una strategia, secondo alcuni esperti, guidata dallo stesso presidente americano, Donald Trump. Per approfondire: J. Ferziger, “Israel-Gulf ties, boosted by COVID-19 research, may trip over annexation plans”, Atlantic Council, 24 aprile 2020.
[22] M. Amin, “Sudan general’s meeting with Netanyahu sparks row between military and civilians”, Middle East Eye, 6 febbraio 2020.
[23] “DR Congo leader to appoint Israel envoy within days, vows closer ties”, The Times of Israel, 2 marzo 2020.
[24] W. Odunsi, “Boko Haram: Details of Israel, Nigerian Army’s meeting emerge”, Daily Post Nigeria, 3 marzo 2020.