Kim Jong-un alla ricerca di un mito fondante
Nei giorni in cui la comunità internazionale si trova a fare i conti con le reiterate minacce da parte del giovane dittatore Kim Jong-un, tornano alla mente le immagini che hanno fatto da sfondo alla transizione di potere a Pyongyang, avviata nel dicembre 2011 in seguito all'improvvisa – almeno per gli osservatori esterni – morte del caro leader Kim Jong-il: piazze colme di cittadini nordcoreani visibilmente disperati che si battevano il petto in segno di cordoglio per la scomparsa del caro leader – nonché “padre del popolo”, “sole della nazione”, “stella della montagna Baitou” – Kim Jong-il. Liquidate – e parzialmente irrise – dalla stampa estera come manifestazioni imposte dalla potente macchina della propaganda governativa, esse sono invece rivelatrici di un fenomeno ben più profondo, la comprensione del quale può aiutare a scostare parzialmente il velo dall'oscura realtà nordcoreana.
Nata ufficialmente nel 1948 per volere dell'allora Unione Sovietica – che tre anni prima aveva installato a Pyongyang quel Kim Il-Sung ex combattente della guerriglia comunista anti-giapponese che sarebbe poi divenuto il padre della patria – la Corea del Nord si è svincolata ben presto dall'abbraccio sovietico, sviluppando un'ideologia che, pur mantenendosi ufficialmente nel solco dell'ideologia comunista, avrebbe finito con gli anni per rappresentare una vera e propria eresia rispetto ai canoni del marxismo-leninismo. Il distacco dall'Unione Sovietica prima e dalla Cina dopo – in un periodo storico in cui i rapporti tra le due potenze comuniste versavano al peggio – fu marcato dalla promulgazione di una particolare dottrina di governo, la dottrina del Juche, traducibile con “autosufficienza”. Tale dottrina si declinava in tre campi: autosufficienza politica, economica e militare. Se in campo economico e militare la Corea non riuscì mai nell'intento di soddisfare da sola il proprio fabbisogno interno, dovendo dunque ricorrere agli aiuti alimentari e militari di Unione Sovietica (fino ai primi anni '90, quando il crollo del colosso sovietico e il conseguente brusco stop dei flussi alimentari verso Pyongyang fu tra le cause della carestia che uccise migliaia di persone) e Cina, in campo politico i risultati furono nettamente migliori. Il non troppo splendido isolamento di cui gode Pyongyang – oltre a essere il risultato di una serie di politiche che gli hanno fatto guadagnare l'appellativo di stato paria del sistema internazionale – è qualche cosa di attentamente e volutamente costruito negli anni. Chiusa ogni sorta di comunicazione verso l'esterno, la Corea del Nord si è trincerata nel proprio fortino dedicandosi a un'opera di costruzione del consenso i cui cardini risiedono all’interno del palazzo presidenziale.
In un paese a larga maggioranza buddhista e confuciana, il culto della personalità del leader – cominciando da Kim Il Sung, passando attraverso Kim Jong-il e arrivando a Kim Jong-un – è diventato una sorta di religione alternativa che annovera tra i suoi adepti l'intera popolazione nordcoreana. L’obbedienza e la devozione nei confronti del Suryong (“Grande leader”) sono alla base dei Dieci principi – che ricordano, per rimanere nella metafora religiosa, i 10 comandamenti cristiani - promulgati nel 1974 allo scopo di fornire le linea guida per la vita quotidiana dei nordcoreani. Tra i principi, troviamo l’obbligo di combattere fino alla morte per diffondere “lo spirito rivoluzionario di Kim Il-Sung nella società”, l’obbligo di seguire “incondizionatamente” le istruzioni del leader e l'obbligo di considerare la sua autorità come assoluta. L’ultimo principio apre poi la strada alla trasmissione dinastica degli obblighi nei confronti del leader: “le grandi opere rivoluzionarie compiute da Kim Il-Sung devono essere passate alle generazioni future”, dunque l’obbligo di fedeltà nei confronti del leader si applica anche nei confronti di Kim Jong-il e, oggi, Kim Jong-un.
Ciò che però viene spontaneo domandarsi confrontando le immagini della disperazione per la morte di Kim Jong Il con i dati allarmanti sulla povertà nel paese è se sia prevedibile nel futuro prossimo la nascita di un movimento di ribellione popolare, sull'esempio di quanto accaduto nelle piazze arabe. La risposta sembrerebbe essere no. Secondo alcune fonti che riportano la testimonianza di cittadini nordcoreani che vivono in Corea del Sud, dunque non più ostaggio del regime, l'atteggiamento di devozione nei confronti del leader permane. Come è possibile? Ciò sarebbe frutto di una serie di politiche messe in atto dal regime per tenere lontano dal palazzo lo spettro del dissenso.
Una di queste tattiche consiste nell’attribuire la responsabilità dei problemi del paese ai funzionari di medio rango, che vengono spesso incolpati di negligenza e “comportamento egoista”. Allo stesso modo, un’altra delle tecniche utilizzate consiste nel far credere ai cittadini che le cause dei problemi del paese siano da ricercare non nel funzionamento del sistema nel complesso bensì al proprio livello. La dottrina dell’“armonia totale” impone che qualsiasi ambito della vita quotidiana venga rivisto dal singolo cittadino con un atteggiamento di autocritica, attraverso il quale egli è portato a domandarsi se e in che modo ha dato il proprio contributo al funzionamento della vita pubblica, e dove invece ha sbagliato. In questo modo, le cause delle tensioni politiche, economiche e sociali vengono ricercate nella dimensione individuale anziché in quella sistemica. Infine, il regime nordcoreano fa ricorso a un classico stratagemma: dare la colpa dei propri problemi a un nemico esterno, in questo caso gli Stati Uniti. Proprio in questi giorni la KCNA – agenzia di stampa nordcoreana allineata alle posizioni governative – diffonde nel paese comunicati nei quali si afferma che la responsabilità della tensione attuale è da attribuire agli Stati Uniti, che vorrebbero coinvolgere la Corea in una guerra nucleare. Le modalità attraverso le quali vengono messe in atto queste tattiche sono da ricercare nelle strategie di socializzazione politica volte a modellare la forma mentis nordcoreana in modo tale che la popolazione si affidi ciecamente alla condotta del leader, senza alcuno scrutinio critico.
Vi è da segnalare, però, che accanto al ruolo giocato dai media di governo e dai biografi di regime, un ruolo altrettanto importante è affidato alla repressione fisica del dissenso. Esattamente come accadeva nei paesi sotto l'orbita sovietica, agenti di governo in incognito si mischiano tra la popolazione allo scopo di vigilare sull'effettiva obbedienza ai principi di fedeltà al leader. Il risultato sarebbe una popolazione fortemente repressa e in costante stato di angoscia, che sfiora il limite della paranoia e che pertanto non è portata a ribellarsi.
Ma quali conseguenze per la salute generale del sistema? Se da un lato l'edificazione del culto della personalità assicura la stabilità del governo, scongiurando il pericolo dell'accendersi di pericolosi focolai di protesta, dall'altro la massiccia opera di costruzione del consenso non è priva di costi. La sola edificazione di mausolei, statue e monumenti comporta un costo non indifferente per un paese nel quale mancano i più stretti generi alimentari.
Nonostante questi dati, per i motivi sopra ricordati, non sembrerebbe esservi minaccia alcuna per la leadership nordcoreana. In realtà però alcune criticità appaiono all'orizzonte, e ci riportano direttamente a quanto sta accadendo in questi giorni. Tra i fattori che hanno scatenato l'escalation, tutti da ricercare all'interno dell'opaco stato nordcoreano, pare esservi anche il “peccato originale” che contraddistingue la giovane promessa Kim Jong-un. Se la leggenda attorno a Kim Il- Sung prende avvio dalle eroiche gesta compiute da quest’ultimo durante la guerriglia antigiapponese, quella attorno a Kim Jong Il ha inizio con la comparsa di un doppio arcobaleno sul monte Paektu – una sorta di Olimpo nordcoreano – che avrebbe salutato i primi vagiti del neonato leader, preannunciando per lui e per l’intera nazione un futuro di gioia e prosperità. Non gode di natali così leggendari invece Kim Jong Un, la cui promozione al rango di caro leader è avvenuta in maniera improvvisa e troppo veloce per i canoni della transizione al potere nordcoreana (la preparazione del padre, Kim Jong Il, per succedere al capostipite Kim Il Sung era durata trent’anni), tanto che i biografi di palazzo non hanno ancora rilasciato una biografia ufficiale. Proprio la maniera repentina con la quale è avvenuta la successione sembrerebbe essere tra i fattori che contribuiscono in questi giorni all'atteggiamento provocatorio da parte di Pyongyang, governata da un giovane leader che – in parte per la sua stessa giovane età – non ha ancora avuto modo di dimostrare ai sudditi le proprie doti soprannaturali.
Se la costruzione della reputazione di Kim Jong-il – e con essa l’opera di edificazione del consenso – è andata alimentandosi negli anni, man mano che quest'ultimo accumulava doti e azioni in grado di consolidare il proprio patrimonio di credibilità e di garantire una successione senza troppi traumi, lo stesso non si può dire del giovane Jong-un, che deve pertanto ricorrere alla minaccia e all'indicazione di un nemico esterno per elevare la propria statura di leader. La sfida che il giovane dittatore si trova davanti è in realtà alquanto ardua, considerato il livello elevato al quale ha portato la tensione nell'area. Ritrattare comporterebbe il rischio di perdere la faccia, e sarà difficile questa volta attribuire la responsabilità all'egoismo degli ufficiali di medio rango o all'atteggiamento scarsamente “armonico” della popolazione.
Che sia giunta l'ora per il regime di Pyongyang di fare finalmente i conti con se stesso?
* Annalisa Perteghella, ISPI Research Trainee