La globalizzazione (non) è morta

La guerra in Ucraina ha causato un nuovo shock all’economia globale e in particolar modo agli scambi commerciali: il secondo in meno di tre anni, dopo il primo “cigno nero” rappresentato dalla pandemia. In questi ultimi tre mesi, a causa degli alti prezzi delle commodities e delle difficoltà a livello logistico e di trasporto soprattutto nella regione del Mar Nero (ma non solo, in conseguenza dei lockdowns che hanno interessato Shanghai e le altre principali città cinesi), si è tornati a mettere in discussione la globalizzazione economica preconizzandone la sua fine. Ma è proprio così o siamo di fronte a un evento che – pur potendo generare conseguenze di portata storica – porterà “solamente” a una ridefinizione di alcuni patterns di scambi e delle supply chains globali?
Cosa sta accadendo?
È sufficiente dare un’occhiata ai dati del commercio internazionale pubblicati dall’UNCTAD: nel 2021 gli scambi globali hanno raggiunto – in valore – il livello record di 28,5mila miliardi di dollari, con un incremento del 25% rispetto al 2020 e del 13% rispetto al periodo pre-pandemia. Peraltro, nel 2020 la contrazione degli scambi internazionali è stata decisamente inferiore rispetto al 2009 quando la crisi finanziaria globale aveva avuto un impatto ben più pesante sull’economia globale.
Ciò significa che, nonostante il Covid, i colli di bottiglia lungo le supply chains, i prezzi elevati dei container, il sistema commerciale globalizzato ha dimostrato di saper reggere allo shock. Certamente, la guerra in Ucraina rappresenta un altro shock – il secondo in meno di tre anni, inatteso e le cui conseguenze non sono ancora del tutto chiare. Prima di tracciare scenari, è però importante capire quali sono i tratti distintivi di questa nuova crisi.
Lo shock attuale è in parte simile a quello provocato dalla pandemia, essendosi originato sul lato dell’offerta che, a causa della guerra e delle sanzioni economiche, ha causato un’ulteriore impennata dei prezzi di energia e materie prime. Si pensi infatti che nell’eurozona l’inflazione, che ad aprile ha raggiunto il livello record di 7,5%, è spiegata per più della metà dall’aumento delle componenti più volatili, tra cui ci sono energia e beni alimentari. E come nel caso della pandemia, lo shock si potrebbe estendere in tempi relativamente rapidi anche a uno shock (almeno temporaneo) di domanda, frenando la ripresa economica (come già abbiamo visto dalle previsioni di crescita globale e a livello UE riviste al ribasso) e creare, nello scenario peggiore ipotizzato dagli economisti, stagflazione. In particolare, alla luce di un’inflazione che sta colpendo soprattutto i generi di prima necessità che maggiormente impattano sui consumi delle fasce di reddito più basse, potrebbero essere i meno abbienti a risentirne maggiormente amplificando povertà e disuguaglianze come già avvenuto durante la pandemia. Una importante differenza però è che lo shock attuale è nato in un’area molto meno cruciale per gli scambi internazionali (la Russia non è confrontabile con la Cina in termini di peso nel commercio mondiale) ed è maggiormente localizzato.
Quattro scenari per la globalizzazione
Essendo questo lo contesto macroeconomico, quali scenari possiamo tracciare per le prospettive della globalizzazione? Anche in questo caso, si può provare a fare un po’ di chiarezza distinguendo tra uno scenario più ottimistico e uno più pessimistico, analizzando una prospettiva di breve periodo e un’altra di medio-lungo, cercando di capire cosa potrebbe accadere a partire dal 2023.
Lo scenario più ottimistico prevede che le conseguenze a livello commerciale di questa situazione potrebbero rimanere tutto sommato circoscritte. Del resto, i rischi per l’economia globale vanno contestualizzati in un quadro nel quale occorre tener presente che le dimensioni della Russia sono relativamente limitate: contribuisce solo per l’1,7% al Pil globale e per circa l’1,5% al commercio mondiale. Inoltre, si trova in una posizione di vulnerabilità rispetto ai suoi principali partner commerciali. Guardiamo all’Europa: se da lato UE la Russia pesa solo il 5% dei flussi commerciali (e per l’Italia, ad esempio, vale l’1,6% del nostro export), dal lato di Mosca gli scambi con i 27 Stati UE pesano per il 37% del suo import-export. La Cina, invece, vale il 14% delle esportazioni russe e i flussi commerciali con Pechino sono in continua crescita.
Nel breve periodo, secondo questo scenario si potrebbe ipotizzare che la Russia (e l’Ucraina ovviamente) soffriranno una pesante recessione (la Banca Mondiale prevede che il Pil di Mosca e Kiev si contrarrà rispettivamente almeno del 10% e del 40% nel 2022) ma le conseguenze per l’economia globale potrebbero essere relativamente contenute pur in un contesto di crescita rallentata. Le supply chains resteranno sotto pressione, anche se per il momento soprattutto a livello regionale: la rotta Mediterraneo-Mar Nero è infatti praticamente bloccata da settimane, con il prezzo dei noli dei cargo che trasportano cereali da Russia e Ucraina raddoppiati nelle ultime settimane.
Nel medio-lungo periodo, ci potremo attendere un incremento delle iniziative di regionalizzazione commerciale, soprattutto attorno ad alcuni settori e filiere produttive strategiche. Nel quadro dell’approccio di cosiddetta “autonomia strategica”, ci potremo aspettare iniziative di reshoring (o di friendshoring, di cui si sta discutendo sempre più) e di aumento della produzione “europea” di beni intermedi ad alta intensità tecnologica, con un progressivo sganciamento dall’Asia e un probabile riavvicinamento agli Stati Uniti (se l’iniziativa del Trade and Technology Council dovesse avere successo). Ma è una tendenza già in corso che potrebbe eventualmente subire solo un’accelerazione, anche perché queste pratiche devono fare i conti con la disponibilità di materie prime. Non è semplice infatti sostituire solo con fornitori “amici” gli oltre 390 beni per cui l’UE dipende all’esterno. O le commodities strategiche che si trovano soprattutto in Russia come il palladio (44% della produzione mondiale).
Lo scenario più pessimistico sarebbe invece quello in cui si creano dei blocchi economici e commerciali contrapposti, ad esempio se la Cina dovesse schierarsi apertamente dalla parte della Russia. In quel caso, poco probabile al momento, potrebbero scattare delle sanzioni secondarie che avrebbero però un impatto decisamente molto più forte sulle economie occidentali, ma anche su quella cinese: a tal proposito, va considerato che Pechino sta affrontando una fase molto delicata in cui l’economia subisce una decisa battuta d’arresto che per molti motivi non si può permettere. La Cina vale oltre il 10% delle esportazioni europee e il 22% delle importazioni: numeri ben diversi che ci fanno capire come l’interdipendenza con Pechino sia molto maggiore rispetto a quella con Mosca. I costi di una frammentazione dei mercati in questo secondo scenario sarebbero davvero elevati per una serie di ragioni.
Nel breve periodo, le verosimili sanzioni secondarie contro la Cina porterebbero a una fortissima riduzione degli scambi commerciali e una nuova paralisi lungo le principali supply chains dei settori manifatturieri. Verrebbero a mancare input cruciali per le economie europee (e in particolare per quelle italiana e tedesca, che sono essenzialmente economie di trasformazione) oltre che un mercato di sbocco sempre più importante per le merci europee (e sappiamo bene quanto l’export sia stato un driver fondamentale per la crescita europea nel corso dell’ultimo decennio). Nel medio-lungo periodo, si potrebbero creare due grandi blocchi contrapposti: da una parte i Paesi occidentali, dall’altra la Cina che assorbirebbe nella sua orbita geoeconomica la Russia (che vale dieci volte meno a livello di popolazione e di Pil), nonché gli altri Paesi del Sud-Est asiatico. I potenziali danni economici di questa separazione sarebbero significativi per entrambi i blocchi. Non è ancora molto chiara invece la posizione dell’India, che da una parte dipende dalla Russia per l’approvvigionamento di armamenti, ma che sappiamo avere frizioni di vecchia data con la Cina e sta perseguendo una strategia di maggiore autarchia con il progetto “Make in India”). Delhi resta comunque un attore vulnerabile, come dimostrato dalla recente decisione di bloccare le esportazioni di grano (di cui è il secondo produttore mondiale ma che è destinato prevalentemente per il consumo interno).
Cosa succederà?
Ad oggi, lo scenario più probabile è quello ottimistico, perché nessuno dei principali attori in campo ha l’interesse a rinunciare alla fitta rete di rapporti economici che è dovuta proprio alla globalizzazione. Smantellare adesso queste interdipendenze porterebbe a una frammentazione insopportabile per tutti i principali attori: Cina, Stati Uniti, UE.
Due sviluppi dell’economia mondiale andranno però tenuti attentamente sotto controllo. La prima è di breve periodo ed è rappresentata dalla crisi del multilateralismo e delle organizzazioni internazionali. In tema economico, l’esempio principale è rappresentato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, che da anni produce risultati parziali e limitati in materia di accordi tra Paesi, ed è bisognosa di riforme che le attuali tensioni potrebbero ulteriormente ritardare. La mancanza di un tavolo globale intorno a cui definire regole comuni per il corretto funzionamento dei mercati mondiali, molto cambiati negli ultimi anni, può penalizzare significativamente gli scambi tra Paesi. La 12esima Conferenza Ministeriale – più volte rinviata – dovrebbe svolgersi finalmente a giugno, ma in un contesto di forti frizioni internazionali (con i Paesi del G7 che hanno revocato lo status di nazione più favorita alla Russia in maniera unilaterale) è difficile aspettarsi grandi passi avanti rispetto ai negoziati attualmente sul tappeto
La seconda area di possibili cambiamenti invece riguarda il medio-lungo periodo ed è legata al sistema monetario e ai mercati finanziari, in conseguenza di una crescente frammentazione nel sistema dei pagamenti internazionali (tendenza che le sanzioni alla Russia potrebbero accelerare). È presto per dire se potremo vedere la fine della supremazia del dollaro, ma da questa crisi geopolitica che ha innescato una serie di tensioni anche nei meccanismi di pagamento internazionali, potrebbero svilupparsi iniziative parallele, per esempio guidate dalla Cina (anche se la diffusione internazionale del Renminbi è ancora molto bassa e ferma al 3% delle transazioni globali, contro il 40% del dollaro).
L’Europa come ne uscirà? I punti di debolezza sono legati essenzialmente alla carenza di materie prime: velleità “autarchiche” non sono né desiderabili né praticabili, anche se vanno ridimensionati i timori di crisi o carestie alimentari. L’UE è infatti autosufficiente per il 70% del proprio fabbisogno e solo una minima parte di ciò che importiamo viene da Russia e Ucraina. Una simile eventualità potrebbe invece materializzarsi nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo, che dipendono dalle importazioni di cereali da Russia e Ucraina in maniera vitale, con ricadute in termini di instabilità e geopolitiche che potrebbero riproporre problematiche e tensioni in parte già viste con le Primavere Arabe del 2011.
Ci sono però anche dei punti di forza, che sono rappresentati dagli oltre 70 accordi di libero scambio di cui l’UE fa parte. Essere al centro di questa rete di accordi potrebbe permettere strategie più flessibili e diversificare flussi commerciali e catene di fornitura in maniera più rapida.
In ogni caso, sembra che la fine della globalizzazione sarà – almeno per il momento – rimandata. Ciò non significa che tensioni commerciali e tendenze alla frammentazione svaniranno, ma i benefici di mantenere il sistema di scambi globali in atto ad oggi superano chiaramente gli svantaggi. E tutti gli attori coinvolti ne sono consapevoli, dovendo ancora fare i conti con una fame di materie prime, tecnologie e input strategici che negli anni continuerà a crescere.