La Libia tra conflitto e migranti: ripensare il ruolo delle milizie

Sono trascorsi ormai quasi sette anni dalla caduta del regime di Gheddafi, che ha fatto precipitare la situazione in Libia in una sorta di “caos organizzato”. Cambiano i leader, cambiano le alleanze, ma le istituzioni statali restano deboli, confinate a una piccola parte del territorio, talvolta sdoppiate tra est e ovest del paese, mentre le appartenenze sub-nazionali continuano ad avere la meglio sul processo di ricostruzione di una nuova legittimità e identità nazionale. Una situazione nella quale i traffici illeciti che attraversano il paese – incluso quello di esseri umani – possono proliferare e consolidarsi.
Di fronte alla difficoltà di ricostruire le istituzioni statali in Libia, è giunto il momento di chiedersi se non sia l’intero processo politico a dover essere ripensato, coinvolgendo in particolare quegli attori che sono spesso stati esclusi o (almeno formalmente) relegati ai margini: le milizie.
La ricomposizione fallita della Libia e il ruolo delle milizie
Appare quasi inutile ricordare come i tentativi di ricomposizione del quadro interno della Libia nella fase post-Gheddafi non siano riusciti a contribuire significativamente alla pacificazione, all’unificazione e al consolidamento socio-politico e istituzionale del paese. Le motivazioni sono complesse e risiedono in buona parte nella natura dell’identità multipla della Libia (regionalismi, localismi, tribalismi), nella progressiva polarizzazione politica seguita al fallimento delle primavere arabe (islamisti vs militari/nazionalisti), ma anche e soprattutto nel ruolo disgregante degli attori internazionali (europei compresi), ognuno dei quali ha cercato di favorire un gruppo interno a discapito dell’altro nel tentativo di avere influenza sul paese. La Libia appare ora come una frastagliata composizione di centinaia di milizie, alleate soprattutto, ma non affatto esclusivamente, in un paio di coalizioni: la prima attorno al Governo di Unità Nazionale guidato da Fayez al-Serraj voluto dalle Nazioni Unite; il secondo attorno al feldmaresciallo Khalifa Haftar e al parlamento che risiede a Tobruk. Preso atto del fallimento di processi di riconciliazione nazionale basati esclusivamente su figure politiche o civili che hanno scarso leverage su chi detiene il reale controllo territoriale nel paese, non è mancato chi ha sostenuto che sia necessario un progressivo coinvolgimento dei gruppi armati nelle trattative. Tuttavia non si è mai andati fino in fondo nell’elaborazione di una strategia articolata che contemplasse anche questa possibilità.
La storia degli ultimi decenni offre numerosi esempi del fatto che, laddove queste sono presenti, le milizie svolgono un ruolo determinante nei processi di (ri)unificazione nazionale. Seppur con caratteristiche diverse, l'Afghanistan, l'Iraq e la Somalia, tra gli altri, sono tutti casi rappresentativi di quanto sia profonda l’interazione di milizie e gruppi armati con lo stato e con le società di appartenenza. Il processo e l'ambiente che consentono ai gruppi armati di emergere e radicarsi, talvolta molto rapidamente, possono essere molto difficili da modificare. Le cose si fanno ancora più complicate quando si moltiplicano le ingerenze di attori esterni. E tentare di rimuovere manu militari gli attori che la comunità internazionale considera illegittimi può portare alla proliferazione di ulteriori gruppi armati.
Il processo di industrializzazione dei traffici illeciti
In Libia, le milizie sono anche le principali responsabili del processo di industrializzazione e concentrazione dei traffici illeciti – compreso quello di esseri umani – cui abbiamo assistito negli ultimi anni. La situazione in Libia oggi è infatti sempre meno simile a quella del 2012-2014, quando un numero superiore di gruppi concorreva nel tentativo di espandere la propria influenza e il proprio controllo sia sul territorio, sia sulla gestione dei traffici[1]. Oggi, al contrario, in molte delle città lungo la costa della Tripolitania la situazione appare ben più chiara, con il ruolo di alcuni attori che si è andato consolidando a discapito di altri. Per usare un paragone economico, potremmo definire questa evoluzione come un passaggio da una situazione di concorrenza imperfetta a una di oligopolio[2].
Per convincersi della progressiva concentrazione del traffico di migranti in Libia basta osservare due cose: la distribuzione delle località costiere da cui vengono fatti partire i migranti e la durata temporale del netto calo delle partenze. Dal punto di vista geografico, fino a inizio 2015 le partenze, pur concentrandosi comunque in Tripolitania, erano ancora più equamente distribuite lungo la costa libica. Da quel momento in avanti si è assistito a una loro concentrazione in aree di poche decine di chilometri, alternativamente a ovest di Tripoli, tra Sabratha e le cittadine circostanti, o immediatamente a est, tra Misurata e Gasr Garabulli. Le località da cui partono i migranti si sono insomma ridotte, con periodi in cui addirittura solo una delle due “regioni dei traffici” è stata protagonista della grande maggioranza dei flussi, a testimonianza di un sempre maggiore controllo dei traffici da parte delle milizie di luoghi specifici lungo la costa ovest[3].
Sul fronte temporale, proprio la notevole durata del forte calo delle partenze dalle coste libiche, che entra in queste settimane nel suo tredicesimo mese (vedi Fig. 1), indica che un limitato numero di attori sulla terraferma è riuscito progressivamente a concentrare nelle proprie mani il controllo dei traffici, riuscendo a condizionare per lungo tempo l’entità delle partenze, come agendo su un rubinetto. Un calo così netto e prolungato non sarebbe possibile in una situazione di maggiore concorrenzialità dei traffici, in cui, fatta costante la domanda di raggiungere l’Europa, al venire meno di un attore ne sarebbero rapidamente subentrati altri.
Fig. 1 – Partenze mensili dalla Libia, gennaio 2016 – giugno 2018

Nel dibattito pubblico e in quello politico sembra invece mancare la consapevolezza di come il coinvolgimento delle milizie possa contribuire a contenere e stabilizzare nel lungo periodo i flussi dalla sponda sud. Altresì, manca la percezione dell’urgenza e della necessità di coinvolgere questi attori in maniera più strutturata nei tentativi di stabilizzare il paese e di renderlo meno penetrabile da flussi migratori scarsamente controllabili. Da questo punto di vista, il tentativo di blocco degli arrivi in Italia dell’ultimo mese e mezzo sembra rispondere a un’ottica di breve e non di lungo periodo, poiché mira a forzare la mano dei partner europei senza pero affrontare alla radice il problema libico.
Il ruolo delle milizie nella ricostruzione
Un tentativo di coinvolgere le milizie nella ricostruzione dello stato libico c’è stato, in particolare durante il periodo di Ali Zeidan, ma ha avuto scarso successo. Ciò è stato dovuto in particolare al fatto che il tentativo di integrazione delle milizie nella polizia o nelle forze armate sia rimasto solamente un tentativo “tecnico” e non realmente politico. È mancato sostanzialmente un vero programma di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (DDR) che riuscisse a restituire allo stato il monopolio legittimo dell’uso della forza. In particolare, i gruppi armati non sono stati sufficientemente incentivati a disarmarsi, offrendo loro per esempio la prospettiva di un processo di reintegrazione che non solo sociale ed economica del singolo ex-combattente, ma anche politica per l’intero gruppo. Il risultato è stato che le milizie hanno ottenuto una doppia affiliazione: formalmente erano sotto il controllo del Ministero dell’Interno o della Difesa, mentre informalmente continuavano ad appartenere alla comunità locale che le aveva costituite e alla leadership politica, al signore della guerra o al leader tribale di riferimento.
La narrativa che viene spesso utilizzata per descrivere la questione dei gruppi armati è di scarsa utilità, in quanto, con poco realismo, tende a considerare questi attori come un blocco unico, respingendoli nella loro interezza come gruppi criminali e minacce per lo stato. Questa visione non tiene conto della legittimità, talvolta anche ampia, di cui le milizie godono all'interno delle rispettive comunità locali. Attori come Hezbollah, le Tigri Tamil, l'Esercito di Liberazione del Kosovo e l'Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) sono stati organizzati come entità distinte dallo stato e in opposizione a esso, in gran parte come risultato delle richieste locali e delle rimostranze delle rispettive comunità. Tuttavia, allo stesso tempo, avendo stabilito le proprie istituzioni parallele, questi attori si sono dati un ruolo di “costruttori” di statualità – seppur spesso non sull’intero territorio nazionale – risultando di fatto degli interlocutori imprescindibili per le istituzioni riconosciute nel processo di pacificazione di società reduci da un conflitto e di consolidamento dei rispettivi stati-nazione [4].
L’esclusione delle milizie da qualsiasi trattativa, inoltre, non tiene sostanzialmente conto della realtà, che vede in più casi gli attori non statali armati soppiantare lo stato nella fornitura di servizi e sicurezza. Pensare che le milizie debbano per forza svolgere un ruolo oppositivo rispetto agli attori statali è fuorviante: se gestita bene, la concorrenza tra attori statali e non può diventare in alcuni casi cooptazione, e le azioni dei miliziani possono rafforzare gli obiettivi nazionali, per esempio contrastando altre milizie scopertamente “anti-stato”.
Che fare?
Il coinvolgimento formale le milizie nelle trattative, volto a trasformarle da semplici attori militari in attori politici, dovrebbe essere rimesso al centro del tentativo di mediazione internazionale in Libia. Per il momento, i negoziati sotto gli auspici dell’Onu hanno evitato di farlo, lasciando invece che a trattare con le milizie fossero, tutt’altro che alla luce del sole, gli attori esterni con specifici interessi nel paese.
Anche i più recenti tentativi di mediazione hanno escluso gli attori che realmente detengono potere in Libia, ossia gli attori non statuali armati. A fine maggio il presidente francese Macron ha convocato a Parigi diversi esponenti politici libici. La “Conferenza sulla Libia” si è conclusa con una dichiarazione condivisa dal presidente del Governo di Accordo nazionale, al-Serraj, il presidente della Camera dei Deputati di Tobruk, Saleh Issa, il presidente dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, Khaled Mishri, e il capo supremo dell’Esercito nazionale libico, Khalifa Haftar. I quattro si sono impegnati a sostenere elezioni legislative e presidenziali il 10 dicembre 2018 e, prima delle elezioni, a facilitare il referendum per l’approvazione della Costituzione, unitamente all’emissione della necessaria legislazione elettorale entro il 16 settembre.
Tuttavia, ancor prima dell’inizio della Conferenza, diversi gruppi di milizie in Tripolitania si sono dissociati dall’iniziativa francese. Al rientro dei vertici politici, e di al-Serraj in particolare, alcuni miliziani, come quelli appartenenti alla Guardia presidenziale, si sono ritirati dalle istituzioni di cui avrebbero dovuto garantire la sicurezza, inviando un chiaro messaggio di opposizione alla conferenza di Parigi, a dimostrazione del fatto che serve a poco convocare rappresentanti politici che non hanno vera rappresentatività sul terreno, e che firmano accordi e fanno dichiarazioni che non sono in grado di implementare. Il tentativo di rendere al-Serraj il rappresentante di una serie di attori militari della capitale e della Tripolitania appare quindi a rischio. Allo stesso modo anche la rappresentatività delle milizie e degli interessi di Misurata appare in crisi dopo l’avvicendamento alla guida dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, dove a inizio aprile il misuratino Abdulrahman al-Swehli ha lasciato il posto al già menzionato Khaled Mishri, rappresentante di una corrente politica, la Fratellanza musulmana, e non di un’area territoriale.
Il fatto che le milizie abbiano un ruolo fondamentale nella recente sistematizzazione dei traffici illeciti porta a una seconda considerazione: se si vogliono contrastare i traffici illeciti bisogna dotare le milizie di fonti di finanziamento alternative. Sarebbe dunque necessaria una seria riflessione sui meccanismi di redistribuzione della rendita derivante dai proventi degli idrocarburi nel paese. La Libia è un rentier state, che basa i propri introiti quasi esclusivamente sulla vendita di petrolio e gas. E non va dimenticato che, nonostante la crisi di produzione causata dall’instabilità che è seguita alla caduta di Gheddafi, potenzialmente la Libia continua ad essere uno dei paesi africani più ricchi.
È dunque normale che parte del gioco che coinvolge attori interni ed esterni giri attorno al controllo degli idrocarburi. A questa evidenza però non è corrisposta una sufficiente discussione del problema nel corso dei negoziati. Il tema di come l’industria petrolifera debba essere gestita e di come la rendita debba essere redistribuita all’interno della molteplicità degli attori libici (municipalità, regioni, minoranze, …) non è stato sufficientemente discusso, e ciò rappresenta quindi un forte limite a qualsiasi attività negoziale, come riconosciuto recentemente anche da Mustafa Sanalla, presidente della compagnia petrolifera nazionale [5]. Neppure le sanzioni, che impongono l’unitarietà delle istituzioni finanziarie libiche [6], sono risultate sufficienti a evitare la loro divisione in più entità parallele. La volontà espressa da Haftar di voler affidare alla LNOC di Bengasi i diritti di vendita degli idrocarburi degli impianti da lui controllati – anche se poi la richiesta non ha avuto seguito – costituisce una seria minaccia alla possibilità di esistenza di una Libia unita.
Per quanto riguarda le rendite petrolifere, c’è spazio per rendere la redistribuzione più intelligente ed efficace. La redistribuzione ha il potere di diffondere un minimo di benessere e attivare attività produttive. A lungo termine, quindi, anche di sostituire l’economia nera con attività formali, producendo un effetto calmierante sui traffici illeciti e facendo percepire i benefici del rentier state alle comunità locali [8]. È chiaro, in questo senso, che sicurezza ed economia devono procedere di pari passo all’interno di un processo di ricostruzione dello stato libico [9].
Proprio la recente visita in Libia del ministro degli Affari Esteri Enzo Moavero Milanesi può essere intesa come il tentativo di riattivare un canale privilegiato con Tripoli, tramite l’accordo bilaterale che consentiva alle aziende italiane di svolgere lavori pubblici in Libia. Questo faciliterebbe il tentativo di ricreare quel tessuto connettivo che ha certamente favorito la penetrazione economica e politica dell’Italia in Libia, ma che al contempo è sempre più necessario alla Libia stessa per rimettere in moto l’economia.
Pochi giorni fa il Presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte ha annunciato che si terrà in autunno una conferenza sulla Libia che è in questi giorni in fase di preparazione, e che servirà a dare un seguito ideale "a quella di Parigi, per coinvolgere tutti gli attori". Come già argomentato in passato, [10] per condurre una trattativa è necessario che chi siede al tavolo del negoziato sia rappresentativo di tutte le parti della società. Non è pensabile che si possa comporre un tavolo solo con chi ha espresso la volontà di sedervisi. Così facendo, nel passato anche più recente, si sono prese decisioni e si sono siglati accordi (come quelli di Skhirat) che non avevano però reale possibilità di trovare effettiva applicazione sul terreno.
Bene ha fatto quindi il presidente Conte a dare enfasi all’intenzione di coinvolgere tutti gli attori che “a qualunque titolo possono dare un contributo”, se si interpreta il riferimento come non limitato alle sole potenze esterne. Se vogliamo che alle parole dei negoziati facciano seguito i fatti è indispensabile che si arrivi alla conferenza dopo un lavoro di preparazione “bottom up”, inclusa un’opera di convincimento degli attori non statuali che al momento della conferenza avrebbero la possibilità di manifestare apertamente le proprie posizioni e i propri obiettivi politici. La conferenza dovrebbe darsi l’obiettivo di trovare un consenso tra il numero maggiore possibile di parti coinvolte intorno a pochi punti fondamentali di un reale state building, in particolare riguardo all’assetto istituzionale della nuova Libia e alla ripartizione sul territorio nazionale dei proventi petroliferi.
L’alternativa conduce inevitabilmente a risultati elettorali che con ogni probabilità saranno la premessa a nuove escalation di violenza, soprattutto nel caso si arrivi al voto – quando mai esso sarà – senza l’impegno di tutti al rispetto delle minoranze, politiche ed etniche, e in un contesto in cui manchi ancora la percezione diffusa che il nuovo percorso sia stato deciso insieme.
Note
2. Si vedano a tal proposito i seguenti Report: Frontex, Africa-Frontex Intelligence Community Joint Report 2016, aprile 2017; e C. Heller, L. Pezzani, and N. Porsia, Blaming the Rescueers, Goldsmiths University of London, 2017.
3. REACH Initiative, “Mixed migration routes and dynamics in Libya: The impact of EU migration measures on mixed migration in Libya”, aprile 2018.
4. Per una elaborazione teorica sul tema si veda R Alaaldin, “Gruppi armati, governance e il futuro del Medio Oriente”, in Sempre più un gioco per grandi. E l'Europa?, a cura di A. Colombo e P. Magri, Milano, Ledizioni-ISPI 2018.
5. “Abbiamo bisogno di un vero dibattito nazionale sulla distribuzione dei proventi del petrolio. Essa è alla radice della recente crisi”, ha affermato nella nota il presidente della Noc, Mustafa Sanalla
6. Tutta una serie di risoluzioni del Consiglio di sicurezza ONU impone l’embargo sulle armi, il divieto di viaggio, il congelamento dei beni e misure relative alle esportazioni illecite di petrolio riconoscendo l’unitarietà delle istituzioni finanziarie ed economiche libiche e imponendo la nullità dei contratti di vendita siglati senza l’autorizzazione della stessa: 1970 (2011), 1973 (2011), 2009 (2011), 2040 (2012), 2095 (2013), 2144 (2014), 2146 (2014), 2174 (2014), 2213 (2015), 2278 (2016), 2292 (2016), and 2357 (2017)
7. "Haftar ridà terminali petrolio", agenzia Ansa, 11 luglio 2018
8. La narrazione predominante dipinge il traffico di migranti come fortemente redditizio per le organizzazioni criminali. I dati dimostrano invece che, malgrado le entrate siano concentrate e “sbilanciate” verso un gruppo ristretto di persone, in Libia la loro entità non è tale da modificare in maniera strutturale l’economia locale, e le rendite petrolifere potrebbero facilmente sostituire i ricavi persi dal mancato traffico dei migranti. Per dare le corrette dimensioni del fenomeno, lo UNODC stima che nel 2016 che per uscire dalla Libia ciascun migrante pagasse circa 3.000 dollari – si veda UNODC, Global Study on Smuggling of Migrants, United Nations Publications, giugno 2018. Questo equivale a entrate per circa 350 milioni di dollari nel 2017 (119.000 persone giunte in Italia), e non superiori ai 490 milioni di euro nei periodi di massimo flusso (circa 162.000 persone giunte in Italia nel 2016 dopo essere partite dalla Libia). Per confronto, supponendo una produzione di petrolio di 1 milioni di barili al giorno e un prezzo al barile sui 72,9 dollari (prezzo Brent al 19 luglio 2018), le attuali entrate da proventi petroliferi supererebbero i 26,5 miliardi di dollari. In sostanza, il traffico di migranti dalla Libia “vale” meno del 2% delle entrate petrolifere nazionali.
9. Sul tema della necessità di un’agenda economica per la Libia si veda G. Falco e A. Forni, “Libya Vision 2030: An Economic Development Agenda for Reconciliation”, Milano, ISPI, 28 maggio 2018.
10. Sul tema si veda A. Sanguini e Arturo Varvelli, “Contribuire alla stabilizzazione della Libia”, Milano, ISPI, 26 febbraio 2018.