Libia: giochi di potere

Khalifa Haftar e le sue truppe, con cui cingeva d’assedio Tripoli da oltre un anno, si ritirano. La notizia segna un punto di svolta nel conflitto in Libia, ma basterà a decretarne la fine?
Mentre il generale Khalifa Haftar e le sue truppe arretrano, a Tripoli si canta vittoria. Il Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj ha promesso di riprendere il controllo dell’est del paese e lanciato un’offensiva su Sirte, snodo cruciale per il controllo delle regioni petrolifere della Cirenaica, nelle mani dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) dallo scorso gennaio. Dalla capitale libica arriva a stretto giro anche un secco ‘no’ alla proposta di cessate-il-fuoco avanzata dall’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, sponsor di Haftar insieme con Emirati Arabi e Russia. Nel tentativo di contenere i danni, il presidente egiziano aveva ipotizzato una tregua e una sospensione delle ostilità a partire dalla mezzanotte di oggi. “La Libia sarebbe incompleta senza l’est” ha detto il ministro degli Interni Fathi Bashagha rifiutando l’ipotesi di un cessate-il-fuoco temporaneo. È difficile però prevedere cosa succederà ora: se dovessero spostarsi troppo a est, le forze di al-Serraj composte da una coalizione di milizie più che da un vero e proprio esercito, potrebbero trovarsi a parti invertite nella stessa situazione che ha afflitto gli uomini di Haftar negli ultimi mesi: lontano dal proprio centro di potere, perdendo presa sulla realtà circostante e scoprendo al pericolo di assalti, le vie di approvvigionamento al fronte.
Petrolio: ago della bilancia?
La fine dell’assedio su Tripoli ha coinciso con la ripresa della produzione petrolifera di uno dei più grandi campi di estrazione del paese, in grado di produrre fino a 300mila barili al giorno, garantendo da solo quasi un terzo della produzione nazionale, e bloccato da oltre quattro mesi dalle forze di Haftar. Chiudendo i rubinetti del campo di Sharara, nel Fezzan, subito dopo la conferenza di Berlino a gennaio scorso, il generale della Cirenaica aveva messo in seria difficoltà il governo, che con le rendite petrolifere garantiva il pagamento degli stipendi dei funzionari pubblici e delle milizie. Per questo ora, la linea del fronte si è spostata verso Sirte, città natale di Muammar Gheddafi, 450 chilometri a est di Tripoli e porta d’accesso alla cosiddetta mezzalunapetrolifera, unica fonte di ricchezza e chiave indispensabile per il controllo del paese. In questa zona, infatti, si stima che si trovino circa l’80% di tutte le riserve petrolifere libiche.
Ankara ha vinto?
A decretare la fine dell’assedio su Tripoli è stata nei giorni scorsi la riconquista da parte delle truppe di al-Serraj della città di Tarhouna, centro strategico in cui Haftar aveva spostato il comando centrale delle sue milizie e da dove Egitto, Emirati Arabi e Russia guidavano la campagna militare. Ma che le sorti del conflitto si fossero invertite a favore del governo centrale era già chiaro da diverse settimane quando, sempre grazie al sostegno di Ankara, l’esercito di Tripoli aveva inanellato una serie di vittorie e riconquistato una dopo l’altra le postazioni di Sabratha, Surman e al-Ajaylat, ripristinando il controllo sull’intera costa libica occidentale fino al confine con la Tunisia. Alla luce del peso ricoperto dalla Turchia nel rovesciare le sorti della guerra, che fino a pochi mesi fa pendeva a favore di Haftar, non è un caso se l’annuncio che “Tripoli è stata liberata” Fajez al-Serraj lo abbia fatto, sorridente, in una conferenza stampa da Ankara accanto a Recep Tayyep Erdogan. Dal canto suo, il presidente turco ha annunciato – dopo il controverso accordo di fine 2019 sulla demarcazione dei confini marittimi – di aver concordato con al-Serraj di “ampliare la portata della nostra cooperazione, al fine di sfruttare le ricchezze naturali nel Mediterraneo orientale”.
Svolta senza pace?
Mentre Roma, Parigi, Berlino e Bruxelles continuavano a ripetere, senza grande convinzione e in alcuni casi guardandosi di traverso, che la soluzione al conflitto libico sarebbe stata ‘politica’, la manu militari ha preso il sopravvento, spazzando via dalla scena principale l’Europa, Italia in testa. La ‘Pax libica’ sarà raggiunta dunque con l’Europa ferma a guardare dalla finestra? Difficile. Anche perché la presenza stessa di Russia e Turchia sullo scenario libico pone degli ostacoli a un processo di pace in cui, inevitabilmente, le parti in causa domanderebbero l’espulsione di ogni forza militare straniera dal paese. Ecco perché l’interesse di russi e turchi sarebbe più per un congelamento del conflitto, che per una sua soluzione. La Libia, in fondo, ha risorse a sufficienza per entrambi e se trovasse un equilibrio, il condominio turco-russo affermerebbe il rinnovato ruolo di Ankara e Mosca come arbitri e mediatori nel contesto Mediterraneo.
Il commento
di Matteo Colombo, ISPI Associate Research Fellow, osservatorio MENA
“Difficilmente i recenti sviluppi sul terreno porteranno in Libia ad una pace stabile e duratura. Sul futuro libico pesano, ancora una volta, le volontà di attori stranieri che non hanno interesse a veder nascere un governo forte che potrebbe, un giorno, chiedergli di lasciare il paese. È più probabile che si vada verso una partizione di fatto della Libia, e che si entri in una nuova fase del conflitto, con scontri più sporadici e localizzati. Nelle prossime settimane vedremo dove si posizionerà la linea del fronte e quale delle due parti includerà la cosiddetta mezzaluna petrolifera: solo allora si capirà se quella di Fayez al-Serraj è una vittoria a metà o un trionfo vero e proprio. In entrambi i casi l’Italia cercherà di agire per preservare i suoi interessi ma senza più un ruolo da protagonista. Se anche c’è stata una vittoria, in definitiva, dopo mesi di appelli distratti per una non meglio specificata 'soluzione politica' e un crescente disinteresse, non si può dire che sia la nostra”.
***
A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)