Libia: uno spiraglio di luce in fondo al tunnel

Il 4 aprile 2019 ha rappresentato per la Libia non solo l’inizio dell’assedio di Tripoli da parte dell’Esercito nazionale libico (Lna) guidato dal maresciallo di campo Khalifa Haftar, ma anche una pesante picconata al processo di pace in corso. Gli eventi che si sono succeduti da allora hanno spinto il primo ministro del Governo di accordo nazionale (Gna) sostenuto dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), Fayez al Serraj, a respingere qualsiasi tipo di accordo futuro. Le tensioni sono profonde e palpabili, nonostante i flebili spiragli di ottimismo da parte degli analisti internazionali.
Quadro interno
Dopo più di un anno e mezzo e migliaia di morti, profughi e sofferenze, il 23 ottobre 2020 a Ginevra, le due parti in guerra, rappresentate da una commissione militare composta da dieci ufficiali in tutto (Military Joint Commission 5+5), hanno raggiunto un cessate-il-fuoco che – se onorato – potrebbe rappresentare una significativa piattaforma per la pace. Il testo, tuttavia, lascia spazio a interpretazioni divergenti e dovrà essere pienamente sostenuto dai governi di Tripoli e Bengasi, da ogni comandante militare di alto livello sul campo e, soprattutto, da tutti gli sponsor stranieri. Infatti, se in Tripolitania il Gna è fortemente sostenuto da Turchia e Qatar, in Cirenaica la Camera dei Rappresentanti (HoR) e il suo braccio armato (Lna) sono coadiuvati da Emirati Arabi Uniti, Egitto e Russia.
La loro presenza in Libia può essere letta attraverso tre lenti diverse: geopolitica, economica e ideologica. La Libia è situata nel cuore del Mediterraneo, con porti in acque profonde e la possibilità di controllare una vasta area marittima. Il paese è ricco di petrolio, oltre che di gas naturale, anche se, dall’altra parte, ha bisogno di importare tutto il resto e necessita di essere completamente ricostruito nelle sue infrastrutture. Sul versante ideologico, la Libia è da anni ormai teatro di competizione ideologica tra Turchia e Qatar da un lato e dall’altro Quartetto arabo (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Bahrein). Tuttavia, in questo senso, lascia ben sperare il disgelo voluto dai sauditi a favore dei qatarini, attraverso la Dichiarazione di Al Ula che ha ricucito tre anni e mezzo di embargo nei confronti di Doha.[1] Ci si aspetta che uno dei principali teatri di scontro – la Libia – ne possa beneficiare in termini di stabilità, ma molto dipenderà dalle dinamiche locali. Una buona notizia è anche l’ufficializzazione a metà gennaio – dopo dieci mesi dalle dimissioni di Ghassan Salamé – del nuovo inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, l’ex ministro degli Esteri slovacco Ján Kubiš. Il suo curriculum di altissimo livello dà adito a qualche speranza, almeno in ambito diplomatico.
Sulla carta, le due controparti libiche hanno indicato il 23 gennaio come data per i gruppi militari stranieri attivi sul terreno per lasciare il paese. Questo sarebbe un passaggio per permettere un migliore controllo da parte dei due governi e di Unsmil delle milizie locali e soprattutto la possibilità di restituire le armi, nell’ottica delle elezioni programmate per il 24 dicembre 2021. Ma al momento né la Turchia né la Russia sembrano essere disposte a muoversi in questo senso. Anzi. Negli ultimi mesi ci sono stati vari segnali sul fatto che questi attori internazionali, in realtà, si stiano muovendo sul campo, violando potenzialmente l’accordo di cessate-il-fuoco permanente: lo United States Africa Command (Africom),[2] ad esempio, ha denunciato la presenza di caccia russi, mentre ci sarebbero sempre più certezze riguardo ai finanziamenti emiratini a favore del Wagner Group.[3]
I turchi si sono impossessati della base aerea di al-Watiya (nella quale potrebbero parcheggiare un buon numero di F-16), della base navale di Misurata (dove potrebbero ancorare le proprie navi) e lo scorso agosto hanno firmato con Libia e Qatar un Protocollo Trilaterale[4] che vedrà la creazione di un centro di addestramento e una piattaforma per la cooperazione militare al fine di preparare le forze di sicurezza libiche, seguendo il modello turco operativo in Azerbaijan dal 1993.
Il 6 dicembre il Syrian Observatory for Human Rights (Sohr) ha riferito che la Turchia si starebbe preparando a inviare un nuovo lotto di combattenti siriani in Libia.[5] Lo stesso giorno, è emerso un documento risalente a novembre che rivelava che 1.200 soldati delle Rapid Support Forces (Rsf) paramilitari sudanesi sarebbero stati schierati nella base aerea di Jufra, occupata dai russi.[6] Sul fronte russo, è chiaro che il Cremlino ha il potere di fermare il Gruppo Wagner, ma altrettanto evidente è che non ne ha la volontà. Se si analizzano i movimenti russi in Africa negli ultimi anni, emergono molti accordi economici e militari, di solito attraverso società come la M-Invest, di proprietà di Evgenji Progozhin, stretto collaboratore di Putin e proprietario, non a caso, del Wagner Group. Mosca, attiva nel continente dal 2006 con una strategia sistematica, ha firmato 19 accordi con paesi africani tra il 2015-19 per la cooperazione tecnico-militare, ottenendo in cambio la possibilità, ad esempio, di utilizzare le basi aeree egiziane o l’esclusiva sulle miniere d’oro in Sudan. I russi si muovono a proprio agio nell’instabilità sociopolitica in cui di solito costruiscono sfere d’influenza. Lo schema è abbastanza simile: Mosca firma un accordo con il governo locale per il supporto militare segreto o la consulenza e in cambio riceve concessioni in materia di risorse naturali o l’accesso a posizioni strategiche.
A Ghadames, a dicembre, 127 membri della Camera dei rappresentanti si sono incontrati per sostituire il presidente del parlamento libico di Tobruk, Aguila Saleh. Quest’ultimo, a sua volta, ha indetto un meeting ufficiale a Bengasi a cui ha partecipato solo una ventina di membri, quanto basta per comprendere le tensioni interne anche in Cirenaica, come dimostrato anche dagli scontri, al momento verbali, fra i rappresentanti dell’area costiera e quelli della vasta area desertica (Cufra) che rivendicano la necessità di una maggiore rappresentanza.[7]
Il 25 dicembre scorso è avvenuto un importante scambio di prigionieri di guerra, grazie al lavoro della Military Joint Commission 5+5, tuttavia i problemi rimangono molti. Un esempio delle difficoltà libiche è dato dall’ulteriore posticipazione dell’apertura della principale strada costiera che unisce Est e Ovest, a causa del ritardato ritiro dei mercenari stranieri e della successiva rimozione delle mine antiuomo. La riapertura in tempi brevi rientrava nei punti del cessate-il-fuoco firmato il 23 ottobre scorso, ma evidentemente è risultato essere un traguardo più difficile del previsto.
La guerra indetta da Haftar ha lasciato parecchie ferite, come dimostra la recente scoperta nei dintorni di Tarhuna, in Tripolitania, di 27 fosse comuni, in cui sono stati ritrovati centinaia di cadaveri. Nel 2015 la milizia dei fratelli al-Kani, detta anche al-Kaniyat, aveva preso il controllo della città, agendo in maniera spietata e crudele contro i comuni cittadini. Quando Haftar lanciò l’assedio a Tripoli, la milizia cessò di appoggiare il Gna, alleandosi con il Lna, acquisendo il nome di 9a Brigata, ma questa apparente militarizzazione non ne ha certo modificato le caratteristiche criminali. Con il fallimento dell’operazione haftariana, i miliziani legati agli al-Kani sono scappati, lasciando dietro di sé macerie e devastazione. Questo è un esempio fra tanti per meglio comprendere lo sfaldamento del tessuto sociale libico e le profonde tensioni che da esso nascono. Non sarà possibile, infatti, attivare alcuna soluzione politica senza prima aver preso coscienza di questi drammi che, ormai, sono perpetrati quotidianamente ai danni dei civili libici.
La situazione nel sud del paese rimane nebulosa: molti sono i gruppi armati locali – prevalentemente di origine tebu e tuaregh – che operano a fini prevalentemente di contrabbando (armi, droga, beni di prima necessità, ma soprattutto migranti), come molte sono le cellule terroristiche presenti, dallo Stato Islamico ad al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim). Questa costellazione di nuclei para-militarizzati, che sotto numerosi aspetti fa le veci del governo, è sempre più radicata nel territorio e viene vista come una vera e propria alternativa alle istituzioni convenzionali. L’intera area desertica meridionale, difficile da raggiungere e da controllare a causa della morfologia del territorio è un safe haven per i gruppi radicalizzati che negli ultimi anni hanno subito una metamorfosi “africanizzandosi”[8] grazie a nuove alleanze politiche e a matrimoni nell’ottica di favorire l’integrazione dei jihadisti nel tessuto tribale locale. Al momento le cellule jihadiste non sono particolarmente attive,[9] ma è un dato di fatto che siano presenti sul territorio.
A tutto ciò va aggiunto un altro problema atavico: la corruzione. La leadership libica in questi dieci anni dalla rivoluzione che ha portato al rovesciamento del regime gheddafiano, non solo si è dimostrata politicamente immatura – e questo è un elemento da non sottovalutare – ma anche profondamente corrotta.[10] La spinta da parte della comunità internazionale verso un regime economico liberale, sul modello occidentale, non ha facilitato le cose, perché la classe dirigente ne ha approfittato in modi spesso non consoni, aumentando ancora di più il divario socio-economico interno. Le proteste del 2018, e anche parte di quelle del 2020, sono scaturite da queste motivazioni. La mancanza di trasparenza delle élites locali ha inoltre ersoso l’entusiasmo della popolazione nei confronti dei processi politici democratici, rendendola disillusa e poco partecipativa.
Sul fronte della pandemia da coronavirus, se al 31 dicembre 2020 la cifra di contagiati da Covid-19 in Libia era di 100.277 casi con 1.478 morti, il 18 gennaio 2021 se ne contavano 109.088 con 1.665 decessi. Rimangono i problemi riguardo alla carenza di strutture adatte a curare i casi più gravi e riguardo al tracciamento delle infezioni (si veda il Focus Mediterraneo allargato n. 14).
Relazioni esterne
La situazione al momento appare ancora più fluida del solito, come testimonia tutta una serie di avvenimenti delle ultime settimane, alcuni anche positivi.
Una delegazione egiziana di alto profilo guidata dal sottosegretario dell’Egyptian Intelligence Service si è recata a Tripoli il 27 dicembre scorso, dopo un’assenza durata sei anni. Sicuramente, quindi, un tale passo va visto come positivo, nell’ottica di un certo smarcamento del Cairo rispetto alla Camera dei rappresentanti di Aguila Saleh, ma soprattutto dalla figura assai discutibile di Haftar. Tale decisione è stata favorita da una serie di eventi concomitanti: il lavoro del Libyan Political Dialogue Forum (Lpdf) e di Stephanie Williams in nome di Unsmil; la distensione dei rapporti tra Qatar e Quartetto arabo;[11] l’elezione del nuovo presidente americano Joe Biden.
L’appoggio al Lpdf, nato nell’alveo della Conferenza di Berlino da parte di Germania, Italia, Francia, Regno Unito e Stati Uniti attraverso i propri ambasciatori rimane – almeno ufficialmente – incondizionato.
In questo senso, Stephanie Williams, il 6 gennaio 2021, insieme all’Economic Working Group, ha indetto un incontro virtuale con politici ed economisti libici per ridiscutere le possibili riforme presentate a Ginevra lo scorso 15 dicembre. L’idea è quella di continuare nella cooperazione fra gli istituti finanziari e produttivi del paese e di arrivare a nuove riforme economiche, monetarie e fiscali per raggiungere come target nel 2021 una razionalizzazione e unificazione del budget nazionale. Questo permetterebbe un miglioramento del settore finanziario e della gestione dei proventi del petrolio che deve essere più precisa e trasparente.
Un tema molto discusso ultimamente è quello di una presenza straniera ufficiale che monitori il cessate-il-fuoco: lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres,[12] il 30 dicembre ha auspicato la formazione di un comitato con la partecipazione anche di civili e personale militare in pensione proveniente da enti internazionali (prevalentemente Unione Africana, Lega araba ed Europa) per il monitoraggio. Questa è però un’idea allo stato embrionale, in quanto non è ancora chiaro chi potrebbe parteciparvi, in che numero e con che funzioni.
Agli inizi del 2019, la Brookings Institution di Washington ha consegnato al Pentagono un rapporto[13] sul possibile approccio degli Usa in Libia. In appendice alcuni studiosi[14] del team avevano caldamente suggerito l’utilizzo di un contingente straniero con funzioni di peacekeeping, gestito direttamente dalle Nazioni Unite o una Multinational Force and Observers (Mfo) in grado di supervisionare il territorio. Una possibilità, questa, da tenere in considerazione, dato il fallimento di tutte le azioni diplomatiche compiute fino a ora. Il problema è multiforme e sta negli attriti profondi presenti nella società libica, alcuni atavici e altri di nuova matrice; nella diffusione capillare delle armi, leggere e pesanti; nella nuova dimensione delle milizie; nella corruzione intrinseca della società; nell’immaturità della classe politica; nella potenziale ricchezza creata dai proventi del petrolio; in tutte quelle nazioni che nei decenni passati hanno stretto rapporti commerciali con Gheddafi. Tutti questi elementi hanno contribuito al fallimento dell’avventura libica. Le milizie locali, molte delle quali legate alla criminalità organizzata, hanno trovato la propria realizzazione in un paese dove non c’è un governo in grado di svolgere le proprie funzioni e dove, soprattutto, non ci sono istituzioni in grado di sopperire a questa grave mancanza. Nessuna milizia cederà mai le armi se controllata da propri concittadini: entrerebbero in gioco relazioni personali, rancori, corruzione e individualismo.
Ecco perché è necessario un robusto contingente straniero, non solo con funzioni di monitoraggio, ma anche con capacità militare che sia in grado di difendere se stesso e la popolazione, oltre che presidiare i luoghi strategici del paese.
[1] E. Ardemagni, “Disgelo con il Qatar: l’Arabia Saudita impone la sua leadership”, Affarinternazionali, 8 gennaio 2021.
[2] United States Africa Command, “Russia and the Wagner Group Continue to Be Involved in Ground, Air Operations in Libya”, 24 luglio 2020.
[3] J. Harchaoui, “The Pendulum: How Russia Sways Its Way to More Influence in Libya”, War On Rocks, 7 gennaio 2021.
[4] R. Soylu, “In Libya, Turkey and Qatar Deepen Their Footprint Amid Deadlock in Negotiations”, Middle East Eye, 20 agosto 2020.
[5]Turkey’s Involvement in Libya | Mercenaries Return to Syria Suspended, Despite Libyan-Libyan Agreement, Syrian Observatory for Human Rights, 5 dicembre 2020.
[6] “Letter Exposes UAE Role in Sending Sudanese Mercenaries to Libya”, Daily Sabah, 8 dicembre 2020.
[7] “Political Manoeuvres in Libya’s South-East Risk Dividing Cyrenaica”, The Arab Weekly, 8 gennaio 2021.
[8]Terrorist and Armed Groups in the Fezzan-Sahel Region: Recruitment and Communication Tactics, NATO Stratcom Centre of Excellence, dicembre 2020.
[9] “Africa File: Al Qaeda’s Sahel Branch Escalates Attacks”, Critical Threats, 15 gennaio 2021
[10] D. Linfield, “International Donors Are Complicit in Middle Eastern Elites’ Game”, Libya Tribune, 16 gennaio 2021.
[11] E. Ardemagni (2021).
[12] “UN Chief Seeks Dispatching of Truce Monitors to Libya”, The Arab Weekly, 31 dicembre 2020.
[13] J.R. Allen et al., Empowered Decentralization: A City-Based Strategy for Rebuilding Libya, Brookings Institution, 11 febbraio 2019.
[14] M.E. O’Hanlon e F. Saini Fasanotti, How Joe Biden Must View Libya, Brookings, 18 dicembre 2020.