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L’Iraq a rischio escalation?

Sabato, 14 marzo, 2020 - 09:00
Dopo l'attacco

Nella sera dell’11 marzo, una salva di razzi Katjusha ha colpito la base militare di Camp Taji, a 27 chilometri a nord di Baghdad, causando la morte di tre soldati della Coalizione internazionale contro lo Stato Islamico (IS) e il ferimento di altri 12 membri. Il giorno seguente, gli Stati Uniti hanno portato a termine una campagna aerea di precisione contro depositi di munizioni appartenenti al gruppo Kata’ib Hezbollah, fortemente legato all’Iran e ritenuto dal Pentagono il responsabile dietro il blitz di mercoledì.

Quella contro Camp Taji è l’ultima di una lunga serie di azioni contro siti e basi militari in Iraq che ospitano personale degli Stati Uniti e dei diversi paesi facenti parte della task-force congiunta anti-IS. Dallo scorso ottobre, infatti, 22 incursioni hanno interessato le istallazioni e il personale militare della Coalizione presenti in Iraq. A peggiorare il quadro, ancora una volta la morte sul suolo iracheno di militari occidentali (trattasi di due soldati statunitensi e di una riservista britannica) e la pronta risposta dell’aviazione USA gettano ombre sul futuro dell’operazione e rischiano nuovamente di riaccendere le tensioni nella regione. Sebbene non siano ancora giunte rivendicazioni ufficiali, l’intelligence statunitense ha nuovamente identificato Kata’ib Hezbollah (parte delle Unità di mobilitazione popolare, una forza para-militare irachena ufficialmente sotto il controllo dello stato, ma di fatto dotati di ampia autonomia) responsabile dell’attacco. Da parte sua il gruppo, da tempo promotore di una forte politica anti-americana e garante degli interessi di Teheran nel paese, non ha rivendicato la paternità dell’azione, limitandosi ad elogiare gli esecutori e invocando la ripresa delle operazioni per espellere gli americani dall’Iraq. Se fosse confermata la sua responsabilità dietro l’attacco, ciò proverebbe la volontà di rappresaglia da parte di alcune frange delle PMU per l’uccisione del generale iraniano Qassem Suleimani e del vice comandante delle PMU Abu Mahdis al-Muhandis all’inizio di gennaio (da allora più volte minacciata). Il fatto che sia avvenuto in occasione del 63° compleanno del generale iraniano sembrerebbe avvalorare ulteriormente questa tesi, oltre ad infondere un’aura di ritualità all’evento. Allo stesso tempo, dimostrerebbe la netta intenzione del gruppo a farsi portavoce di quella che sembra essere la linea dettata da Teheran, nonché l’ampio margine di autonomia operativa di cui gode rispetto all’effettiva capacità di controllo del governo iracheno.

Diversi elementi accomunano il recente episodio con lo scambio avvenuto il 27 dicembre contro la base militare K1 di Kirkuk, in cui rimase ucciso un contractor americano. Anche in quell’occasione, gli USA identificarono il gruppo Kata’ib Hezbollah (dal 2009 riconosciuto come gruppo terrorista da Washington) come responsabile dell’attacco e l’Iran quale mandante.  L’uccisione di un membro del personale statunitense, giudicata una “red line” da non oltrepassare, spinse gli USA a autorizzare un’operazione aerea di rappresaglia sul confine siriano contro le basi  del gruppo Kata’ib Hezbollah, in cui persero la vita 24 miliziani. Anche l’attacco contro la base di Camp Taji è stato seguito da un raid aereo, definito dal Ministero della Difesa statunitense “un attacco difensivo di precisione”, che ha colpito gli acquartieramenti e i depositi delle unità della milizia filo-iraniane in cinque aree del paese e lasciato sul terreno almeno 6 morti e 11 feriti. L’intento del Dipartimento della Difesa, ovvero di prevenire nuove azioni contro il personale stanziato in Iraq, rischia però di rigettare le forze della Coalizione impegnate nell’operazione Inherent Resolve all’interno dello stesso circuito di rappresaglie, proprio della logica dell’escalation, a cui si è assistito pochi mesi fa. Invece che limitare le capacità delle milizie ad essa ostili, infatti, l’azione di fine dicembre aveva visto le unità delle Kata’ib Hezbollah prendere d’assalto l’ambasciata statunitense nella Green Zone di Baghdad, invadendo il perimetro esterno e assediandone il compound. Il passato sembra quindi riproporsi: secondo l’emittente Al-Jazeera, i leader delle Kata’ib Hezbollah avrebbero annunciato un incontro dei principali gruppi armati sciiti della regione nella città iraniana di Qom, il cui obiettivo sarà quello di definire le future strategie da intraprendere nei confronti dell’attacco statunitense.

 

Lo scambio di questi giorni avviene in un contesto di forte tensione all’interno del paese. L’attuale scenario, dominato dalla persistente rivalità tra Stati Uniti e Iran, si contraddistingue infatti per una convergenza di fattori che ha indotto varie milizie all’interno delle PMU ad intraprendere una strategia più assertiva contro la presenza e gli interessi americani nel paese. Primo tra tutti, la fase di profonda incertezza politica interna, caratterizzata da continue proteste di piazza contro l’incompetenza delle istituzioni e dal fallimento di ogni tentativo di formazione di un governo provvisorio che possa condurre il paese a nuove elezioni. In questa fase di vuoto politico, le milizie sciite più influenti stanno cercando di aumentare il proprio potere, ritagliandosi un ruolo di primo piano nel processo di selezione del futuro governo. In secondo luogo, pur non costituendo un colpo diretto all’Iran, la rappresaglia statunitense avviene in un periodo di particolare crisi per la leadership iraniana, aggravata dalla situazione di grave emergenza che sta vivendo il paese in seguito alla diffusione del virus Covid-19, che sta mettendo a dura prova il regime di Teheran e potrebbe limitarne l’impegno e l’invio di risorse nel vicino teatro iracheno. Gli effetti dell’attuale pandemia, in sostanza, potrebbero amplificare il vuoto di potere e di leadership causato dalla perdita di Soleimani e al-Muhandis, che a sua volta aveva già allentato l’influenza iraniana su alcuni gruppi all’interno delle PMU e dato origine ad una forte competizione in seno all’organizzazione, nel tentativo di acquisire maggiore potere e visibilità. Ricoprire un ruolo nel forzare un eventuale ritiro o una riduzione delle forze della Coalizione dal territorio iracheno (l’obiettivo di fondo degli attacchi) rappresenterebbe infatti un indiscusso motivo di prestigio.

Per quanto concerne il futuro delle truppe americane (e occidentali) in Iraq, molto dipenderà dall’evoluzione politica del paese. Le recenti dimissioni del premier incaricato Mohamed Allawi hanno riconfermato la grande inefficacia della classe politica irachena e le divergenze di vedute tra la maggioranza sciita e le comunità curda e sunnita, anche - e soprattutto - sulla questione della permanenza delle truppe straniere nel paese. Da un lato, infatti, la comunità curda e quella sunnita, insieme a parte delle forze armate, temono che la fine della presenza e del supporto occidentale possa favorire un ritorno dello Stato Islamico, dall'altro, i partiti politici sciiti e le formazioni filo-iraniane legate alle PMU vedono la presenza degli USA come una minaccia diretta al loro potere. Diversamente da quanto avvenuto in gennaio, inoltre, la futura linea d’azione americana potrebbe essere condizionata dalla recente misura legislativa bipartisan adottata dal Congresso, volta a limitare il potere decisionale del Presidente in caso di guerra con l’Iran, ancora in discussione.

Autore: 

Francesco Salesio Schiavi

Francesco Salesio Schiavi
ISPI MENA Centre

URL Sorgente (modified on 24/06/2021 - 20:21): https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/liraq-rischio-escalation-25397