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Lo stop al processo di pace in Colombia

Venerdì, 14 ottobre, 2016 - 00:00

Per ottenere una firma frettolosa il presidente Santos ha ceduto troppo. E la popolazione colombiana non ha perdonato.


Lo scorso 2 ottobre i colombiani hanno scelto il “no” al referendum sul trattato di pace firmato tra il governo e le FARC. Prima di qualsiasi analisi, è necessario sottolineare come la protagonista assoluta di questo referendum è stata l’astensione: dei 34 milioni di elettori chiamati alle urne, hanno votato solo in 13 milioni. Il 62,57% degli aventi diritto ha preferito boicottare l’iniziativa. Seconda considerazione: il “no” ha vinto con uno scarto di 0,5%, circa 62.000 voti. Un margine minimo, che ha reso la sconfitta ancora più amara.

La comunità internazionale e l’opinione pubblica mondiale hanno sperato fino all’ultimo che la Colombia scegliesse per il “sì” all’accordo firmato dal presidente Juan Manuel Santos e dal leader delle FARC Rodrigo Londoño “Timochenko”, superando la guerra civile che dura da 52 anni e che ha provocato oltre 220.000 morti e oltre sei milioni di sfollati interni. Tuttavia, le cose non sono andate come previsto. I sondaggi, l’eccessivo trionfalismo della campagna del “sì” e una buona dose di superbia di alcune proposte hanno provocato un elevato grado di disaffezione di gran parte dell’elettorato.

La distribuzione geografica del voto non è stata omogenea. Il “no” ha vinto nelle province centrali del paese e nei centri di produzione di caffè, mentre nelle province del Pacifico, Atlantico e di confine ha prevalso il “sì”. Alcune delle zone più falcidiate dalle FARC hanno votato contro l’accordo, ma i risultati sono stati di fatto contraddittori, a volte all’interno della stessa provincia. Ad ogni modo il risultato mostra chiaramente l’insoddisfazione profonda di una parte importante del popolo colombiano verso il trattato di pace.

Tra i principali errori vi è stata senza dubbio la fretta del capo dello Stato colombiano per ottenere la firma del documento in tempo di record, prima della fine del suo secondo mandato, che si concluderà nel 2017.Altro argomento importante che avrebbe dovuto essere affrontato nel corso dei negoziati, ma che non è stato preso in considerazione, riguardava la creazione di una commissione per verificare se fossero davvero stati dichiarati tutti i beni e le attività possedute dalle FARC per il pagamento dei risarcimenti alle vittime. Se si considera che l’organizzazione guerrigliera é oggi il più importante cartello della droga in Colombia, oltre ad essere uno dei principali sfruttatori di miniere d’oro illegali del paese, è evidente si tratta di risorse immense. Per l’opinione pubblica colombiana sarebbe stato inaccettabile lasciarle in mano a chi ha provocato tanta sofferenza per così tanto tempo.

Ulteriore punto debole sottolineato dagli oppositori del trattato di pace sono state le pene molto blande proposte per i guerriglieri che avessero commesso crimini contro l’umanità. La misura non è valsa per altri gruppi armati, come i membri delle milizie di destra, quando è stata negoziata la pace con loro dieci anni fa, e ai quali sono state applicate pesanti condanne. L’ex presidente Álvaro Uribe ha chiesto pubblicamente a Santos quale sarebbe stato il destino di questi prigionieri “di serie B”, trattati così differentemente dai guerriglieri delle FARC.

Ma il pomo della discordia vero nel trattato di pace era il diritto alla rappresentanza delle FARC al Congresso, con alcuni scranni già assegnati in anticipo alla guerriglia. Oltre alla possibilità per coloro che avessero abbandonato le armi di ricevere fondi pubblici per rifarsi una vita. Non è stato chiarito come i membri delle FARC avrebbero potuto realizzare la campagna elettorale. Se, ad esempio, avrebbero potuto utilizzare le immense risorse ottenute dal traffico di droga, dall’estorsione, dai sequestri di persona e da altri reati. Si sarebbe trattato di un vantaggio finanziario abnorme sugli altri partiti. Non solo ingiusto, ma tremendamente pericoloso per le sorti della democrazia colombiana. L’unica, in Sudamerica, a non aver sofferto l’avanzata delle sinistre populiste a partire dai primi anni 2000. Ed infatti tra le allerte lanciate da Uribe durante la campagna per il “no”, vi è stato proprio quello del rischio che la Colombia si trasformasse in un paese “ad economia socialista” e “bolivariano”.

Un ulteriore punto negativo dei negoziati è stato il fatto che essi si sono sviluppati a L’Avana, un centro politico favorevole al FARC. Probabilmente un’altra location sarebbe stato più propizia. Ultima questione, che spiega in parte l’altissima astensione, è che molti colombiani hanno percepito questo scontro tra Uribe e Santos come il solito “teatrino politico” al quale sono sottoposti da anni. Uno scontro politico con tratti personalistici, tra un presidente percepito dal suo predecessore e padrino politico come un traditore, e che da delfino si è trasformato in acerrimo rivale.

Ad ogni modo, il processo di pace era necessario e verso di esso puntava la politica tracciata da Uribe nei primi anni della reazione dello stato colombiano contro il potere della criminalità organizzata, intorno al 2002. I primi passi, le sconfitte militari delle FARC e l’efficace eliminazione dei suoi capi, sono stati dati nel periodo dal 2002 al 2014. Uribe è stato l’architetto di questa strategia. In questo contesto è stata realizzata la modernizzazione delle forze armate, passate da 130 mila soldati di leva inesperti a 400 mila professionisti ben armati. Questo è stato e sarà determinante per i prossimi passi. Ma la situazione era arrivata ad uno stallo militare. Un trattato di pace andava effettivamente negoziato in un momento in cui nessuna delle due parti riusciva a prevalere sull’altra.

Santos ha probabilmente ceduto troppo, nell’ansia che il suo governo firmasse a tutti i costi un trattato di pace. Ha giocato un ruolo di primo piano come ministro della Difesa di Uribe ed esecutore della strategia tracciata. Ma ha fallito i negoziati, non includendo rappresentanti del gruppo uribista, i quali dicono senza dubbio cose sensate, e godono del sostegno della popolazione colombiana. Lo stesso vale per i gruppi economici di imprenditori e industriali, sottorappresentati nella commissione per le trattative.

È importante sottolineare che sia le FARC che il governo hanno chiarito che, nonostante il risultato negativo del referendum, continueranno a negoziare la pace. Santos, che ha appena ricevuto il Nobel per la Pace, si è visto assegnato un premio per i suoi sforzi per la pacificazione nazionale. Il dialogo dovrà riprendere, e ora la parola passa a coloro che hanno guidato la campagna per il “no”, Uribe in testa, il quale è già stato ricevuto da Santos per pianificare i prossimi passi. Ma nel caso del processo di pace in Colombia, vale il vecchio adagio: “non esistono soluzioni facili a problemi difficili”.

 

Carlo Cauti, giornalista italiano di base a San Paolo del Brasile. Collabora regolarmente con diverse testate italiane e brasiliane.

 

 

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Carlo Cauti

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