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Materie prime: un nodo d'acciaio geopolitico

Venerdì, 16 luglio, 2021 - 12:15

Per il mercato delle materie prime l’avvento della pandemia ha rappresentato un cambio di paradigma. Se infatti la reazione immediata all’annuncio ufficiale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’1 marzo 2020, fu quella di un immediato crollo dei prezzi, nel giro di poche settimane il comparto delle commodities riuscì a invertire la rotta, inaugurando una serie di rialzi che durano tutt’oggi. Il rame è uno dei casi più emblematici: dopo aver toccato un minimo di 4.300 dollari la tonnellata il 23 marzo del 2020, effettua un’inversione a U fino a spingerlo il 13 maggio di quest’anno al record storico di 10.745 dollari la tonnellata.

 

Il boom delle materie prime: la speculazione non c’entra

Ma non è solamente il rame aver prodotto tali performance. Anche l’acciaio, dopo aver toccato nel giugno 2020 i 380 euro la tonnellata, viene oggi quotato intorno ai 1.100 euro la tonnellata. La dinamica rialzista è stata talmente veloce e violenta da aver sorpreso tutti: operatori finanziari e commerciali. Tanto che non è raro ancora oggi ascoltare qualche addetto ai lavori che addita a fantomatiche manovre speculative il principale causa dietro il rally dei prezzi.

 

Qualche comportamento poco trasparente da parte dei produttori ci sarà anche stato, ma la realtà è un’altra: dietro una spinta così forte dei prezzi giunge un autentico boom dei consumi, diretta conseguenza dei 30 mila miliardi di dollari in stimoli sia fiscali che monetari implementati dal marzo 2020 a oggi. Il primo Paese a varare manovre di stimolo è stata la Cina: fiutando l’opportunità che un’efficiente gestione della pandemia poteva offrire per affermare il suo modello di governance agli occhi del resto del mondo, Pechino ha adottato non solo una ferrea azione di lockdown mirati forte della pervasività del Partito Comunista all’interno della società cinese, ma ha dato anche il via a un’impotente azione di stimoli supply side in grado di produrre nel 2020 una crescita del Pil del 2,3% in controtendenza rispetto sia agli USA (-3,5%) che all’Europa (-6,7%). Un rimbalzo così forte, quello dell’economia cinese, che non poteva non farsi sentire sul mercato delle materie prime, soprattutto metalli, dove la domanda cinese incide per oltre il 50% su quella mondiale. L’azione di approvvigionamento delle materie prime da parte di Pechino rompe tutti gli equilibri che si erano creati negli ultimi 5 anni. Solo lo scorso anno l’economia cinese ha assorbito 4 milioni di tonnellate di rame dal mercato internazionale. Un bel cambiamento se si pensa che fino a qualche mese prima il consensus del mercato ipotizzava un surplus di 200 mila tonnellate.

 

Con circa due mesi di ritardo, ma pur sempre con grande velocità, hanno reagito anche gli Stati Uniti. Il primo cambio di paradigma lo ha offerto la Federal Reserve che nel mese di aprile 2020 ha comunicato ai mercati di non considerare più il 2% come il tetto massimo oltre il quale far partire azioni di restrizione monetaria. Insomma, la banca centrale USA è pronta a tollerare rialzi dell’inflazione anche sopra il 2%: un’azione questa che tra l’altro verrà adottata anche dalla BCE con un anno di ritardo. L’annuncio della banca centrale americana viene visto dagli operatori finanziari come una sorta di semaforo verde a riversare liquidità nelle materie prime viste storicamente come un asset in grado di proteggere dall’inflazione. Non è infatti un caso se l’andamento dei prezzi delle materie prime presenti una stretta correlazione con l’indice di massa monetaria negli USA. La seconda gamba di intervento per bilanciare gli effetti negativi che le politiche di lockdown rischiavano di sortire sull’economia è giunta invece dal fronte fiscale con pacchetti di sostegno a famiglie e imprese che a oggi sono arrivati a 6 mila miliardi di dollari e che mostreranno tutto il loro potenziale quest’anno. Se infatti il 2020 è stato l’anno della Cina in termini di crescita, nel 2021 spetterà probabilmente agli USA il primo posto con un rialzo stimato del Pil del 7% pari al livello massimo da 1951.

Questi pochi numeri sono probabilmente sufficienti a spiegare il perché si sia assistito negli ultimi 14 mesi a un aumento dei prezzi delle materie prime così cospicuo. L’esplosione dei consumi generati dalle manovre di stimolo infatti ha investito una filiera produttiva che non era e non poteva essere preparata a gestire flussi di ordini tanto elevati. Non va infatti dimenticato come il comparto delle materie prime proveniva da circa otto anni di trend discendente, inaugurato nel 2011 e che nel 2015 aveva raggiunto un picco minimo seguito poi da un quadriennio 2016-2020 sostanzialmente piatto. Non certo il mercato in grado di invogliare una società di estrazione o un produttore di acciaio a investire in nuova capacità produttiva. Con queste premesse dunque appare chiaro come dietro il rally del mercato delle materie prime vi siano dinamiche di mercato e non manovre di natura speculativa. Ciò non significa che alcuni correttivi non possano essere pensati.

 

Acciaio: la Cina è ancora un pericolo?

L’elemento che sta mettendo oggi in seria difficoltà le imprese non è infatti tanto il livello dei prezzi raggiunto (la produttività delle aziende oggi ha raggiunto livelli in grado di permettere almeno nel breve termine l’assorbimento parziale dei costi) quanto la carenza di materiale. E nello specifico frangente del mercato siderurgico la politica, anziché aiutare, sta ostacolando il mondo delle imprese.  L’esempio più eclatante viene dall’annuncio da parte della UE di estendere per 3 anni le misure di salvaguardia all’import di acciaio. Un provvedimento, questo, che si inserisce all’interno della direttiva 232 statunitense varata nel 2018 quando era forte l’allarme sull’invasione di prodotti siderurgici dall’Asia, ma che oggi non ha più alcun senso. In ragione della crescente competizione geostrategica con gli USA e la conseguente regionalizzazione delle supply chains, infatti, da qualche mese Pechino ha letteralmente mutato la propria politica commerciale sugli acciai. La conferma è arrivata proprio la scorsa settimana con un lancio dell’agenzia stampa ANSA, secondo cui il governo di Pechino sarebbe in procinto di annunciare un dazio all’export di acciaio, seguendo tra l’altro l’esempio della Russia. Insomma, in un regime, quale quello attuale, caratterizzato dalla carenza di materiale, la reazione dei Paesi autocratici sembra essere quella della tutela del proprio sistema produttivo: l’applicazione un dazio all’export di acciaio infatti non solo contribuisce a raffreddare i prezzi (tanto che oggi l’acciaio made in China costa 500 euro in meno rispetto a quello prodotto in Europa) ma anche ad ampliare l’offerta nel mercato interno.

 

L’approccio perseguito da Bruxelles è invece l’opposto: si persegue la tutela di un ristretto oligopolio di produttori anziché della maggioranza delle imprese di trasformazione. Un approccio questo che nasce in parte per seguire l’impostazione di Washington (anche se ultimamente si leggono spesso sul Wall Street Journal articoli di forte critica alle limitazioni all’import di acciaio dall’Asia e quindi non è escluso un ripensamento nei prossimi mesi da parte dell’amministrazione Biden), in parte probabilmente per dare ai produttori siderurgici quella garanzia di marginalità necessaria a finanziare i piani di riconversione alle tecnologie green che, in assenza di sovvenzioni, sarebbero impraticabili. Si tratta però di una strategia che rischia di generare dolorosi effetti imprevisti: la carenza di acciaio oggi in Italia (esacerbata dallo stop produttivo degli impianti dell’ex Ilva e Piombino), tanto per fare un esempio, ha raggiunto livelli di drammaticità tali da mettere a repentaglio parte dei lavori infrastrutturali inseriti nel PNRR.

 

Che fare dunque?

Data l’impossibilità di guardare a Est, occorre iniziare a puntare a Ovest.  Oltre a risolvere i dossier aziendali, al fine di allentare strutturalmente la morsa di ArcelorMittal sul mercato italiano, date le limitazioni all’import con l’Asia e la Turchia, il governo potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di costruire dei canali di fornitura di natura bilaterale con gli Stati Uniti.  Un percorso non certamente semplice se si considera la carenza di offerta che caratterizza anche il mercato statunitense. Tuttavia, la prospettiva di assistere a una recrudescenza della scarsità di materiale che oggi investe in larga misura i prodotti piani (destinati all’auto, elettrodomestico e meccanica) e che domani potrebbe coinvolgere il settore dei lunghi (tondo, vergella) necessari per il settore dei lavori pubblici. Rinviare il rilancio del settore siderurgico rischierebbe infatti di pregiudicare la messa in opera dei piani infrastrutturali contenuti nel PNRR su cui il governo Draghi si gioca la reputazione.

Autore: 

Gianclaudio Torlizzi

Gianclaudio Torlizzi
T-Commodity

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