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Meno nati, meno attivi?

Giovedì, 3 febbraio, 2022 - 12:45
DEMOGRAFIA E LAVORO

L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva (indice di dipendenza degli anziani) è uno di quelli guardati con più attenzione dalle economie avanzate. Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si fa crescere l’economia (e si fa funzionare il sistema di welfare) a quello dell’età in cui maggiormente si assorbono risorse pubbliche per assistenza sanitaria e pensioni. I dati ci dicono che il rapporto tra over 65 e popolazione tra i 20 e i 64 anni nella popolazione mondiale è salito da valori attorno al 10% nel 1960 al dato attuale superiore al 15%, con la prospettiva di arrivare oltre il 28% nel 2050 secondo lo scenario centrale delle Nazioni Unite (World Population Prospects 2019).

 

La globalizzazione dell’invecchiamento della popolazione

L’Africa è il continente con transizione demografica più tardiva, quindi quello in cui tale indicatore peggiorerà di meno nei prossimi decenni, arrivando a superare il 10% solo verso la metà del secolo. Molto diversa la situazione del mondo occidentale. Il Nord America dagli anni Sessanta al 2020 ha subito un raddoppio, passando dal 14% al 28%, con un dato proiettato al 2050 pari al 41%. Ancor maggiori gli squilibri generazioni europei, che corrispondono a un indice di dipendenza degli anziani arrivato al 32% e con prospettiva di salire oltre il 53% entro i prossimi trent’anni. All’interno dell’Europa il dato peggiore è quello dell’Italia, vicino al 40% e destinato ad avvicinarsi al 75% entro il 2050. A livello mondiale a distinguersi è il Giappone, che nello stesso orizzonte temporale è atteso passare dal 52% a oltre l’80%. La Cina presenta attualmente un peso degli anziani sulla popolazione attiva ancora relativamente basso, inferiore al 20%, ma è previsto salire vicino al 50% nel corso della seconda metà del secolo, per poi continuare fin quasi al 65% nei decenni successivi.

 

Verso un indebolimento della popolazione in eta’ attiva: l’Europa

Se fino agli anni più recenti ad alimentare la crescita dell’indice di dipendenza degli anziani è stato soprattutto l’aumento del numeratore (le persone di 65 anni e oltre), nei prossimi anni e decenni alla sua spinta verso l’alto contribuirà sempre più la diminuzione del denominatore. La consistenza della popolazione in età lavorativa nel mondo occidentale è stata favorita dalle generazioni nate fino all’epoca del “baby boom”, che ora si stanno spostando in età anziana.

In Europa la fascia 20-64 è rimasta sopra il 60% della popolazione totale fino alla fine del decennio scorso. Andrà però nei prossimi decenni progressivamente a ridursi fino al 52,4% nel 2050 - sempre secondo lo scenario medio delle Nazione Unite - per poi assestarsi poco sopra il 50% nella parte finale del secolo. La perdita maggiore è concentrata tra il 2020 e il 2040 con una riduzione di 5 punti percentuali (da 59,8% a 54,8%).

Se questa riduzione è già scritta nelle dinamiche della natalità passata (i ventenni e oltre del 2040 sono già nati), sull’evoluzione della popolazione attiva dopo il 2040 le dinamiche delle nascite future possono ancora incidere, tanto più quanto più in avanti si sposta l’orizzonte temporale. Il livello di equilibrio tra generazioni è attorno ai due figli per donna. Ma è soprattutto dove il tasso di fecondità si trova persistentemente posizionato sotto 1,5 che gli squilibri risultano particolarmente accentuati andando a indebolire, generazione dopo generazione, il potenziale della forza lavoro a fronte di una componente anziana in aumento.

La Svezia è scesa sotto la media dei due figli per donna a fine anni Sessanta, anticipando il resto del continente. Dopo essere scivolata vicino a 1,5 alla fine del XX secolo, grazie alla continua sperimentazione di politiche di sostegno alla natalità e di conciliazione tra lavoro e famiglia, è riuscita a riportarsi su valori tra i più alti in Europa nel corso dei dieci anni successivi. Come conseguenza di queste dinamiche sarà uno dei Paesi europei che meno vedranno indebolirsi nel prossimo futuro la popolazione in età lavorativa. L’incidenza passerà dal 57% circa attuale al 54% nel 2050, mantenendosi sopra il 50% negli ultimi decenni del secolo. Anche la Germania ha evidenziato una inversione di tendenza della fecondità, passando da un numero medio di figli pari a 1,33 nel 2006 ad arrivare in dieci anni a riportarsi sopra 1,5, superando anche la media europea. L’investimento su politiche familiari assieme alla gestione di rilevanti flussi migratori, ha consentito di contenere la riduzione della componente attiva (l’incidenza attesa è attorno al 52% a metà secolo).

Opposto è il caso dell’Italia, che si trova da oltre 35 anni sotto la soglia di 1,5 e che ha visto un peggioramento ulteriore nelle dinamiche più recenti, consolidandosi come uno dei Paesi con più bassa fecondità dell’Unione europea. Come conseguenza, la popolazione attiva italiana è prevista subire un crollo particolarmente accentuato, passando dall’attuale 59% al 48,4% nel 2050, sempre secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, fino a stabilizzarsi attorno al 47% nella parte finale del XXI secolo.

Valori simili a quelli italiani presenta nel complesso l’area del Sud Europa, che risulta globalmente la peggiore in termini di prospettive di indebolimento della forza lavoro. Allo stesso modo l’area settentrionale e quella-occidentale non si discostano molto rispettivamente dal percorso di Svezia e Germania. Sensibilmente più contenuti rispetto al Sud Europa risultano anche gli squilibri demografici dell’Europa orientale (Fig. 1).

Fig. 1 - Combinazione tra Indice di dipendenza degli anziani
e Popolazione in età 20-64

(anni 2020 e 2050, valori %)

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Nazioni Unite (WPP 2019, scenario centrale).

 

Verso un indebolimento della popolazione in età attiva: Nord America e Asia Orientale

Fuori dall’Europa una delle aree con percorso demografico meno compromesso è il Nord America, mentre in forte peggioramento è il rapporto tra generazioni nell’Asia orientale.

In particolare, gli Stati Uniti, grazie a consistenti flussi migratori e a un tasso di fecondità rimasto vicino ai due figli per donna, si trovano con un peso della popolazione in età attiva più solido rispetto al complesso degli altri Paesi occidentali. L’incidenza è attualmente sotto il 60% ma è prevista non scendere sotto il 55% fino a metà secolo, assestandosi nei decenni successivi attorno al 52%. A indebolire questo quadro potrebbe essere un andamento della fecondità peggiore delle previsioni. Negli anni immediatamente precedenti la pandemia il numero medio di figli per donna negli USA era sceso a 1,7 (con il Canada addirittura scivolato attorno 1,5).

La Cina, come conseguenza della politica del figlio unico, è attesa veder scendere l’incidenza della popolazione in età 20-64 sotto il 55% già nel 2050, con una perdita di quasi 10 punti percentuali rispetto al dato attuale, per poi arrivare a meno del 50% a fine secolo. Nonostante la drastica riduzione, la forza lavoro continuerà comunque a essere la più ampia al mondo assieme all’India, consentendo al Paese del dragone di mantenere un peso rilevante sull’economia mondiale.

Il Giappone, presenta attualmente una quota della popolazione in età attiva sotto il 55% e le previsioni prospettano una discesa fino a stabilizzarsi attorno al 46% dopo la metà del secolo. La Corea del Sud ha seguito più tardivamente le dinamiche della fecondità del Giappone, andando ulteriormente ad aggravarle, portandosi negli anni immediatamente precedenti la pandemia addirittura sotto la media di un figlio per donna. In corrispondenza la componente della popolazione in età lavorativa è prevista passare da poco meno del 70% attuale a meno del 50% nel 2050 e a meno del 45% nei decenni successivi.

 

Conseguenze economiche e geopolitiche

La capacità di rendere effettivamente attiva la popolazione in età lavorativa risulta sensibilmente maggiore nell’Estremo Oriente rispetto al Sud Europa (i tassi di occupazione sono particolarmente alti soprattutto in Giappone e forte è l’investimento in automazione e nuove tecnologie). Grazie a ciò il Paese del Sol Levante potrebbe riuscire a mantenersi lungo il resto del secolo nelle prime cinque posizioni tra le economie mondiali, in termini di Prodotto interno lordo, secondo le stime proposte da Vollset e colleghi. Sopra si situano gli Stati Uniti, assieme a Cina e India. Immediatamente sotto al Giappone viene posta la Germania (seguita dalla Francia). A migliorare notevolmente, tra i Paesi più ricchi, sarebbe in particolare la Svezia, prevista salire dalla posizione 23 alla 17 nel 2100. Opposto il percorso dell’Italia che andrebbe ad arretrare dal nono al 16esimo posto entro la metà del secolo e al 25esimo posto nel 2100.

Sul percorso dopo il 2050 nulla è però scontato. Molto dipenderà dalla combinazione tra evoluzione delle nascite dopo l’emergenza pandemica, gestione dei flussi migratori, capacità di mettere in relazione positiva nuove tecnologie e valorizzazione del capitale umano. Alcuni Paesi, in particolare quelli del Sud Europa, si trovano però attualmente in forte svantaggio e maggiore è quindi anche la necessità di riorientare il proprio percorso per non trovarsi definitivamente trascinati ai margini dello sviluppo mondiale nel resto del secolo.

Autore: 

Alessandro Rosina

Alessandro Rosina
Università Cattolica e ISPI

URL Sorgente (modified on 10/02/2022 - 14:27): https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/meno-nati-meno-attivi-33029