Monarchie del Golfo: verso una coesistenza fredda?

Per le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc), si apre una fase di ridefinizione degli equilibri di potere, interni e intra-Gcc. Mentre Qatar e Arabia Saudita tornano a comunicare e in Oman si insedia il nuovo sultano (il successore del mediatore Qaboos, spentosi dopo una lunga malattia), le monarchie della Penisola arabica sembrano orientarsi verso una “coesistenza fredda”. Un equilibrio nuovo che – seppur esposto a future tensioni – riconosce implicitamente i mutati rapporti di forza nonché gli interessi nazionali spesso confliggenti dei singoli, riducendo però gli scontri aperti. Tale direzione si può cogliere dal mutato approccio degli Emirati Arabi Uniti (Eau) e, in seguito, anche dell’Arabia Saudita, nei confronti di alcuni dossier-chiave di politica estera (Iran, Yemen), nonché dall’emergere di figure più diplomatiche all’interno della famiglia reale saudita, seppur nel quadro della leadership del principe ereditario Mohammed bin Salman al-Saud (MbS). In tale contesto, l’energia rappresenta ancora uno strumento di status e di influenza politica nell’area Gcc, soprattutto nella federazione degli Emirati Arabi Uniti.
Arabia Saudita, gioco di sponda tra fratelli: Mohammed bin Salman e Khalid bin Salman
Dopo la sovraesposizione mediatica generata dall’intervento militare in Yemen e il caso Khashoggi, l’Arabia Saudita dà l’impressione di aver mitigato la propria strategia mediorientale nonché comunicativa sui principali dossier: Qatar, Yemen, e persino Iran. Nella seconda metà del 2019 il principe ereditario Mohammed bin Salman al-Saud, regista della fallimentare guerra in Yemen nonché al centro dell’irrisolta vicenda del giornalista saudita ucciso nel consolato del regno a Istanbul, ha ridotto le proprie apparizioni internazionali e mediatiche, spesso legate ad annunci eclatanti (per esempio, Neom e le città del futuro), oppure a dichiarazioni sferzanti nei confronti di Teheran. Spicca solo l’intervista, con toni difensivi (su Khashoggi e attiviste imprigionate) e calibrati (su Iran e Yemen), alla Cbs del 29 settembre, dopo gli attacchi senza precedenti, di matrice iraniana, alle installazioni petrolifere di Saudi Aramco, o l’indiretto protagonismo del principe nella vicenda dello spionaggio del telefono cellulare del proprietario di Amazon Jeff Bezos.[1] Un approccio inusualmente sottotono che sembra riflettere la sterzata della politica estera di Riyadh, di cui gli Emirati Arabi Uniti sono stati gli apripista, soprattutto in Yemen e con l’Iran sui temi della sicurezza marittima. In tale contesto, sta allora emergendo la figura di Khalid bin Salman al-Saud, il fratello minore (32 anni) di MbS. Formazione militare a differenza di Mohammed bin Salman (egli è stato infatti pilota di F-15 anche in teatri operativi e con training negli Stati Uniti), già ambasciatore saudita a Washington nel 2017-19, Khalid bin Salman è diventato vice ministro della Difesa (quindi vice di MbS) nel febbraio 2019 e ha preso subito in gestione il grande nodo irrisolto del fratello maggiore: la crisi in Yemen. È stato infatti il vice ministro della Difesa ad avviare i colloqui tra emissari sauditi e insorti huthi in Oman. Khalid bin Salman appare il volto più diplomatico del nuovo corso saudita. La sua ascesa (come quella del nuovo ministro degli Affari Esteri Faisal bin Farhan Al Saud, 45 anni, già ambasciatore in Germania) fornisce due indicazioni. Nonostante gli inciampi, gli azzardi e le resistenze all’interno della famiglia reale, la leadership di Mohammed bin Salman (sotto l’ombrello del padre, l’attuale sovrano Salman bin Abdulaziz al-Saud), è ancora salda; ma al momento, anche il principe ereditario ha compreso l’opportunità di optare per scelte e toni politici meno aggressivi. Ecco che il fratello Khalid gioca ora un prezioso ruolo di sponda, che potrebbe consolidarsi in futuro quando, molto probabilmente, Mohammed bin Salman sarà re e dovrà nominare un nuovo principe ereditario.
La crisi con il Qatar: dallo stallo alla comunicazione
Si registra qualche passo in avanti nella crisi tra Arabia Saudita-Eau-Bahrein e Qatar, nella consapevolezza che nulla sarà più come in passato. Per la prima volta dal 2017, la crisi politico-diplomatica nel Gcc dà segni di attenuazione, anche se la strada verso la riappacificazione formale potrebbe essere ancora lunga. Di certo, l’attacco di probabile matrice iraniana alle installazioni petrolifere di Saudi Aramco (14 settembre 2019) ha accelerato il disgelo fra le monarchie del Golfo, consapevoli che neanche gli Stati Uniti di Donald Trump accorrerebbero in loro difesa se Teheran o i suoi alleati asimmetrici le colpissero. Una percezione accentuata dall’uccisione mirata del generale iraniano Qassem Soleimani (gennaio 2020) da parte di Washington, che espone le monarchie a possibili ritorsioni da parte dell’Iran e della galassia transnazionale delle milizie sciite. Nell’ottobre 2019 Qatar e Arabia Saudita hanno così avviato colloqui nel regno degli al-Saud: “abbiamo rotto lo stallo della non-comunicazione e iniziato a comunicare con i sauditi”, ha affermato il ministro degli Affari Esteri qatarino, Shaikh Mohammed bin Abdulrahman al-Thani.[2]
Nel novembre 2019 le nazionali di calcio di Arabia Saudita, Bahrein ed Eau sono state invitate dall’Emiro del Qatar a giocare la Gulf Cup, che si svolgeva nell’emirato degli al-Thani: un esempio di diplomazia sportiva. Nel dicembre 2019 l’annuale summit del Gcc ha visto la partecipazione del primo ministro di Doha, Shaykh Abdullah bin Nasser al-Thani, il più alto grado a recarsi a Riyadh dall’inizio della crisi. Nel comunicato finale del breve vertice, non vi è stata però menzione formale dei rapporti con il Qatar, segno che il lavorio diplomatico richiede ancora discrezione e informalità. La frattura è assai profonda: anni di sospetti, accuse incrociate e nazionalismi non possono essere cancellate in pochi mesi, anche agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche, sempre più prevenute e polarizzate. Il Qatar ha ribadito che non rinuncerà né alle alleanze rafforzate, nella stagione dell’embargo, con Iran e Turchia, né all’autonomia della sua politica estera: ciò è in larga parte dovuto alla tenuta economica dell’emirato (primo esportatore di gas naturale liquefatto al mondo), nonostante il boicottaggio dei vicini. Dunque, è plausibile che la ricucitura fra Doha e il trio Riyadh-Abu Dhabi-Manama avvenga a piccoli passi e sul lungo periodo e sarà, soprattutto, priva di gesti eclatanti o di eventi dall’impatto mediatico. L’orizzonte post-crisi sembra essere, allora, quello di una coesistenza fredda dentro il Gcc: un nuovo equilibrio – esposto a future tensioni – improntato al realismo e agli interessi nazionali. Ovvero il riconoscimento implicito di un ruolo geostrategico maggiore per le monarchie (Qatar compreso) che godono oggi di uno status economico più elevato di quarant’anni fa (il Gcc fu fondato nel 1981), rispetto a una formula in cui l’Arabia Saudita, seppur leader riconosciuto, impone l’agenda politica e geopolitica per l’intera area e ne monitora, di fatto, l’applicazione. Lo scorso luglio la Giordania ha ripristinato le relazioni diplomatiche con il Qatar (ridotte nel 2017 ma mai interrotte).[3] La scelta di Amman, certo guidata da urgenti calcoli economici e occupazionali, è però il termometro di una nuova coesistenza fra monarchie alleate in cui prevalgono – a dispetto della leadership autoritaria e monopolizzante del principe ereditario MbS – gli interessi dei singoli paesi, anche se non sovrapponibili alla linea di Riyadh. Persino il Kuwait, da anni mediatore della crisi intra Gcc, sta intensificando i rapporti commerciali con il Qatar: l’interscambio è cresciuto di circa il 70% fra il 2017 e il 2018 e la fiera “Made in Qatar”, esposizione che si svolgerà in Kuwait nel mese di febbraio, punta a consolidare questa tendenza.[4]
L’Oman del nuovo sultano: l’economia condizionerà i rapporti con Arabia, Emirati e Qatar
L’Oman non ha mai rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar: la creazione di un nuovo assetto di coesistenza competitiva nel Gcc dipenderà anche dall’atteggiamento di Muscat e del suo nuovo sultano. Infatti, il 10 gennaio si è spento dopo una lunga malattia Qaboos bin Said al-Said, sultano dal 1970. Date le sue precarie condizioni di salute, la transizione era stata dettagliatamente preparata e si è fin qui rivelata rapida e consensuale. Il Consiglio di famiglia si è riunito dopo l’ufficializzazione della morte di Qaboos e, davanti al Consiglio di difesa, è stata aperta subito la lettera del defunto con il nome di chi avrebbe dovuto succedergli.[5] Il prescelto è stato Haitham bin Tariq al-Said, 65 anni, uno dei cugini di Qaboos. Già sottosegretario e poi segretario generale agli Affari Esteri (1986-94; 1994-2002), il nuovo sultano è stato inviato speciale di Qaboos nonché ministro della Cultura e del Patrimonio dal 2002. Egli è inoltre il responsabile di “Vision 2040”, il piano di trasformazione economica e sociale dell’Oman, finalizzato a superare progressivamente la dipendenza dalla rendita energetica (che corrisponde ancora al 70% delle entrate statali). Pertanto, il nuovo sultano conosce molto bene il funzionamento delle istituzioni omanite e ciò, unito al gradimento di Qaboos, dovrebbe garantirgli il sostegno delle molte componenti religiose-territoriali dell’Oman: maggioranza ibadita, sunniti e minoranza sciita; folta comunità indiana di lavoratori stranieri; oligarchia mercantile delle coste; tribù dell’entroterra più legate alla tradizione dell’imamato.
Il carismatico Qaboos era ancora percepito come il padre dello stato omanita, l’artefice di quel senso di nazione instillato in comunità residenti così diverse. Il nuovo sultano dovrà scegliere il proprio stile di leadership ed è assai probabile che egli si caratterizzi per un approccio più collegiale al potere, ovvero meno personalistico e centralizzato: Qaboos deteneva ancora i principali incarichi del sultanato (primo ministro, Affari Esteri, Difesa, Economia, Forze armate, Banca centrale), nonostante la presenza di ministri facenti-funzione. In tale contesto, il ruolo dei due fratelli del neo-sovrano, Asad e Shihab, sarà decisivo. Haitham manca dell’expertise militare che costituiva la cifra di Qaboos: il coinvolgimento di Asad, formatosi (come Qaboos) alla prestigiosa accademia militare britannica di Sandhurst e già comandante dell’esercito omanita, potrebbe essere una risorsa: egli è già vice primo ministro dal 2017, nonché rappresentante speciale del sultano. Il terzo fratello, Shihab, anch’egli già consigliere di Qaboos, è stato comandante della Royal Navy e ora si occupa di istruzione e ricerca. In politica estera, l’Oman dovrebbe proseguire in piena continuità con il passato: Haitham ha promesso, nel suo primo discorso pubblico, “coesistenza pacifica con le nazioni”, “non interferenza” e “cooperazione internazionale”.[6] Tuttavia, il sultano deve misurarsi da subito con un intreccio di sfide economiche, geopolitiche e il fisiologico consolidamento del potere interno. Le casse di Muscat, che affronta diversificazione economica, alto deficit fiscale e disoccupazione giovanile, sono in difficoltà: proprio la ricerca della liquidità finanziaria può complicare la tradizionale politica estera neutrale del paese.
In un Golfo ancora polarizzato, Arabia Saudita ed Emirati Arabi potrebbero spingere il sultano a distanziarsi da Qatar e Iran tramite la leva economica: nel 2011, quando le proteste sociali raggiunsero anche le principali città omanite, il Gcc promise 20 miliardi di dollari in dieci anni (principalmente finanziati dai sauditi) per Oman e Bahrein. A ciò va aggiunta la strisciante contrapposizione geopolitica dell’Oman con l’Arabia Saudita (nella regione yemenita di Mahra che confina con il sultanato) e con gli Eau (nell’enclave omanita di Musandam negli Emirati e nell’isola yemenita di Socotra): rivalità che si giocano ai confini del sultanato e che sfidano gli interessi nazionali di Muscat.[7] Invece, Haitham avrebbe maggiori margini di continuità in politica estera in caso di de-escalation regionale e nel Gcc. Di certo, il boicottaggio contro Doha ha fatto esplodere le relazioni commerciali fra Oman e Qatar (più del 100% di incremento nel 2018 rispetto all’anno precedente, secondo il Sultanato[8]), anche grazie all’appoggio logistico dei porti omaniti. Da una prospettiva politica, ciò significa che anche Muscat ha interesse a consolidare questo trend, nonostante l’insofferenza di sauditi ed emiratini.
Kuwait e Qatar: riposizionamenti interni con implicazioni per il Gcc
Seppur per ragioni differenti, gli emiri di Kuwait e Qatar hanno recentemente ridefinito gli assetti dei rispettivi governi. Nel caso del Kuwait, questa dinamica mette in ombra – forse solo temporaneamente – il primogenito dell’emiro nonché figura in ascesa della famiglia reale kuwaitiana, Nasser bin Sabah al-Ahmed al-Sabah, già ministro della Difesa, vice premier e capo della programmazione economica di “Vision 2035”, piano di diversificazione dell’economia nazionale: per profilo politico e stile di leadership, l’ex ministro della Difesa ha delle somiglianze con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.[9] Nel caso del Qatar, l’emiro sceglie invece di sostituire il primo ministro del paese che lo ha fin qui affiancato nei suoi primi otto anni di regno (dal 2013) con un suo stretto consigliere, dando così il senso di una burocrazia statale ancora più a misura di leader, in un momento in cui Doha deve confrontarsi con sfide economiche e tensioni regionali.
In Kuwait, il governo si è dimesso (14 novembre) a seguito dell’ennesimo braccio di ferro tra esecutivo e parlamento, che ha provocato aspre interrogazioni parlamentari (come nella tradizione della vivace dialettica istituzionale kuwaitiana) e voti di sfiducia. Inoltre, sit-in di protesta (autorizzati) contro la corruzione hanno accompagnato la nuova crisi istituzionale dell’emirato, che si è però contraddistinta, rispetto alle precedenti, per una lotta di potere, anche mediatica, tutta interna alla famiglia reale. Infatti, il ministro della Difesa nonché figlio dell’emiro (71 anni), aspira al ruolo di principe ereditario dato che l’attuale ha 82 anni ed è in uno stato di salute precario. In tale contesto, egli ha aperto uno scontro politico-personale con il ministro dell’Interno e suo predecessore alla Difesa, il già generale Khalid al-Jarrah al-Sabah, accusandolo di irregolarità finanziarie nella gestione del budget dell’esercito e istituendo una commissione incaricata della verifica dei conti. Fughe di notizie, nonché copie di trasferimenti bancari sospetti, hanno poi raggiunto i kuwaitiani via social network, esasperando così il sentimento anti-corruzione. La vicenda ha innescato interrogazioni parlamentari incrociate, bloccando i lavori parlamentari fino alle dimissioni del governo. Tuttavia, l’emiro del Kuwait, il novantenne Shaykh Sabah al-Ahmad al-Jaber al-Sabah, ha scelto, di fronte al montare della crisi, di rimuovere dai rispettivi incarichi entrambi i duellanti, il ministro dell’Interno e il ministro della Difesa, suo primogenito. Il nuovo primo ministro (che è poi l’ex ministro degli Affari Esteri Shaykh Sabah al-Kalid) ha così formato un nuovo esecutivo in cui non figurano né Khalid al-Jarrah al-Sabah né Nasser bin Sabah, l’aspirante principe ereditario: una disputa destinata a continuare, dato che il Kuwait tornerà presto al voto per la scadenza della legislatura parlamentare (novembre 2020). In Qatar, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani ha sostituito il primo ministro, Shaykh Abdullah bin Nasser bin Khalifa al-Thani, in carica dal 2013, con Khalid bin Khalifa bin Abdulaziz al-Thani, già suo consigliere nonché capo dell’ufficio politico (Amiri diwan). Come il suo predecessore, il nuovo primo ministro qatarino assumerà anche il ruolo di ministro dell’Interno. Una mossa che, dato il ruolo di coordinatore che il primo ministro ricopre, mira a ottimizzare l’azione di governo nonché a rendere più fluida la comunicazione tra emiro ed esecutivo. Il premier uscente era stato il capo delegazione del Qatar al summit del Gcc del dicembre 2019.
Equilibri di potere nel Gcc e negli Emirati Arabi Uniti: l’energia conta (ancora)
Nei rapporti di forza tra le monarchie del Golfo, così come all’interno della federazione degli Eau, il fattore energia è ancora sinonimo di status e di influenza politica. E ciò permane a dispetto della corsa alla diversificazione economica post-idrocarburi. Esempi recenti lo confermano. Nel dicembre 2019 Arabia Saudita e Kuwait hanno siglato un accordo per la Saudi-Kuwaiti Neutral Zone, la zona di frontiera rimasta non delimitata dopo la Convenzione di Uqair che stabilì il confine tra i due paesi (1922). L’area, fin qui neutra, è di grande importanza energetica: la produzione di idrocarburi (soprattutto petrolio e in minima parte gas), bloccata dal 2014-2015 per una disputa tra vicini celata da motivi ambientali, è sempre stata divisa fra i due paesi. Ecco perché la ripresa dell’estrazione (onshore e offshore), decisa dall’accordo, è un’ottima notizia per il Kuwait, che potrà accedere all’estrazione della sua quota di gas frontaliero (Dorra), oltreché un incoraggiante segnale diplomatico per la risoluzione delle dispute nell’intera area del Gcc.
Negli Emirati, Abu Dhabi e Dubai hanno annunciato (3 febbraio) la scoperta di un nuovo e promettente campo gasifero al confine, nell’area di Jebel Ali. La Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc) e la Dubai Supply Authority si occuperanno dell’esplorazione e dello sviluppo della riserva, come siglato alla presenza dei leader dei due emirati, Mohammed bin Rashid al-Maktum (vicepresidente e primo ministro Eau, emiro di Dubai) e Mohammed bin Zayed al-Nahyan (vicecomandante supremo delle forze armate emiratine e principe ereditario di Abu Dhabi). Con le riserve del Jebel Ali, gli Eau puntano all’autosufficienza gasifera e al ruolo di esportatori netti di gas; inoltre, tale scoperta è un ulteriore stimolo alla cooperazione tra i due emirati guida della federazione. Invece, la Sharjah National Oil Corporation ed Eni hanno reso pubblica la scoperta di un campo gasifero onshore a Sharjah, terzo emirato per grandezza degli Emirati (28 gennaio). Mahani-1 è il primo ritrovamento in trentasette anni: se fossero confermate le aspettative in merito alla capacità del campo, la capitale culturale degli Eau potrebbe aspirare all’autonomia energetica, divenendo inoltre un hub gasifero per i piccoli emirati del nord degli Eau, oggi fortemente dipendenti dai fondi e dalle infrastrutture di Abu Dhabi. Una dinamica nuova che impatterebbe sugli equilibri di potere interni alla federazione creata nel 1971.[10] E pensare che l’allora emiro di Ras Al Khaimah, l’emirato più a nord del paese, aderì agli Eau solo nel 1972 poiché sperava che le esplorazioni petrolifere in corso gli avrebbero offerto un peso negoziale maggiore con Abu Dhabi. Aspettative che in quell’occasione vennero deluse ma che, ciclicamente, si riaffacciano nella storia degli Emirati Arabi Uniti.
[1] “Full transcript of Saudi Crown Prince Mohammed bin Salman’s CBS interview”, Al Arabiya, 3 ottobre 2019; “Jeff Bezos hack: Amazon boss’s phone ‘hacked by Saudi crown prince’”, The Guardian, 22 gennaio 2020.
[2] S. Kalin, A. Cornwell, e D. Zhdannikov, “Qatar foreign minister says early talks with Saudi Arabia heave broken stalemate”, Reuters, 16 dicembre 2019.
[3] Si veda l’interessante analisi di L. Ruben, Jordan and Qatar restore diplomatic ties, but why now?, International Institute for Strategic Studies, Blogs-Analysis, 31 luglio 2019.
[4] Qatar, Kuwait chambers assure successful “Made in Qatar 2020”, Qatar Chamber, 4 febbraio 2020
[5] “Who is Sultan Haitham bin Tariq al-Said, the successor of Sultan Qaboos?”, Gulf Times, 12 gennaio 2020.
[6] “Haitham bin Tariq sworn in as new sultan of Oman”, The National, 11 gennaio 2020.
[7] E. Ardemagni, Strategic Borderlands: The UAE-Omani Rivalry Benefits Tehran, Commentary, ISPI, 21 giugno 2019.
[8] “Qatar-Oman trade jumps by more than 100 percent”, Times of Oman, 2 febbraio 2019.
[9] Per approfondire, K. Smith Diwan, Kuwait’s MbS: The Reform Agenda of Nasser Sabah al-Ahmed al-Sabah, Arab Gulf States Institute in Washington, 16 aprile 2018.
[10] Per una panoramica sugli emirati settentrionali degli Eau e gli equilibri interni alla federazione, si rimanda a E. Ardemagni, Strategic Littorals: Connectivity and Heritage in Northern UAE and Oman, Analysis, ISPI, 10 gennaio 2020