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Nella nuova diplomazia di Trump l’America Latina sarà irrilevante

Giovedì, 26 gennaio, 2017 - 00:00

Washington sta ancora brancolando nel buio nel tentativo di decifrare le intenzioni del nuovo presidente degli Stati Uniti su diversi dossier di politica estera. L’America Latina, in particolare, è diventato un buco nero diplomatico da cui non provengono neanche sibili.

Solo Messico e Cuba emergono dall’irrilevanza in cui il resto della regione sembra essere stata confinata, in quello che molti analisti considerano come un chiaro segnale del distanziamento che subiranno i rapporti tra la Casa Bianca e i vicini del sud nei prossimi anni. Gli Stati Uniti stanno tornando indietro ad un tempo in cui la politica verso l'America Latina era elaborata a partire da un filtro della politica interna, quello dell’”America first”.

Ecco perché i pochi indizi circa le priorità del governo di Donald Trump nelle Americhe indicano che la preoccupazione numero uno sarà il Messico. Il Paese è stato bollato come colpevole di provocare problemi di immigrazione e di natura commerciale, due temi rivelatisi fondamentali per la vittoria Trump, che dovrà agire in fretta per cambiare questa situazione.

Oltre al famoso muro di confine che Trump ha promesso di costruire nel primo anno di mandato, c’è la rinegoziazione del NAFTA trattato che lega le economie degli Stati Uniti, Messico e Canada da 25 anni e che in pratica non solo è diventato il motore della crescita messicana, ma ha finito per definire le direttive del progresso a sud del Rio Grande.

Tuttavia, il presidente dovrà andare oltre il mondo di Twitter e affrontare le complicazioni del mondo reale, dal momento che il NAFTA e relazioni con il Messico sono fondamentali anche per l'economia degli Stati Uniti. Solo un esempio, oltre 1,5 miliardi di dollari in flussi commerciali attraversano il confine ogni giorno.

Non bisogna dimenticare il fatto Trump è un businessman, favorevole per sua stessa natura a fare buoni affari, e si riunirà presto con il presidente messicano Enrique Peña Nieto alla Casa Bianca. Nondimeno, molti leader latinoamericani temono che la tendenza a demonizzare il Messico espressa durante la campagna elettorale detterà il tono delle relazioni con gli altri Paesi della regione. Le prime vittime sarebbero in America centrale, in particolare Honduras, Guatemala e El Salvador, grandi esportatori di immigrati negli Stati Uniti.

Anche Cuba si sta preparando all'impatto dell’inizio del mandato Trump. I pochi nomi legati all'America Latina membri delle squadre di transizione del Consiglio di Sicurezza Nazionale e del Dipartimento di Stato sono per lo più ferrei anti-castristi. Due nomi su tutti, Mauricio Claver-Carone, importante membro della squadra di transizione, e la veterana Kathleen Troia McFarland, scelta come vice-consigliere per la sicurezza nazionale. Cuba sarebbe stato l’obiettivo principale delle domande che squadra di transizione di Trump ha posto ai collaboratori di Obama al Dipartimento di Stato, in particolare per sapere cosa ha ottenuto il regime castrista dalla normalizzazione dei rapporti con gli USA.

Non a caso, pochi giorni dopo essere stato eletto Trump ha twittato "se Cuba non è disposta ad offrire qualcosa di meglio ai cubani, ai cubano-americani e agli Stati Uniti, eliminerò l'accordo". Una posizione dura che risponde alle aspirazioni della folta comunità di esuli, presenti soprattutto in Florida. Oltre 11 milioni di persone, schieratasi apertamente al fianco di Trump.

E così come nel caso del Messico, l'urto di un possibile rallentamento nel dialogo con L'Avana si sentirebbe ben oltre l'isola caraibica. Quando Trump parla del Messico, evidentemente non intende rivolgersi solo al vicino meridionale, ma a tutta la regione latinoamericana. E la dura retorica del nuovo presidente potrebbe scatenare reazioni politiche interne nei diversi Paesi. Ad esempio, esponenti politici latinoamericani potrebbero sfruttare l’irrigidimento dei rapporti con gli USA per ottenere vantaggi in politica interna, ad esempio raccogliendo consensi e ridestando antiche antipatie e schemi ideologici che hanno tradizionalmente opposto latinos e yankees. Tentativi più turpi che machiavellici di identificare un nemico esterno per compattare le masse interne, ma che potrebbero essere indispensabili alle élite latinoamericane in un momento in cui la loro popolarità è sotto scacco sia a causa della crisi economica che attanaglia la regione che per i numerosi scandali di corruzione venuti alla luce.

A ogni modo, sarà un tentativo tanto inutile quanto dannoso, dato che molto probabilmente nei prossimi anni l’America Latina non attirerà l’attenzione da parte della Casa Bianca. L’attenzione di Trump sarà rivolta quasi esclusivamente a Cina, da dove punta a far “rientrare” fabbriche americane, Russia, con l’intesa politica (e anche personale) con Putin sui principali dossier di sicurezza, e con gli europei, principalmente per la questione del ribilanciamento dei contribuiti alle spese per la sicurezza. L’America Latina è fuori dai radar della politica estera trumpista. Non rappresenta né una minaccia alla sicurezza nazione, né un’insieme di partner commerciali interessanti, né potenziali alleati per la messa in opera del programma presidenziale. Anzi, si tratta di un’insieme di 620 milioni di persone che hanno apertamente mostrato forte ostilità verso la candidatura di Trump, e che oggi guardano a Washington con uno sdegnato astio.

Il risultato finale, secondo alcuni analisti, potrebbe essere una maggiore integrazione regionale, al di fuori dell'ombra di Washington, oppure un maggiore avvicinamento alla Cina. Ma i problemi cronici che impediscono l’unità latinoamericana, come si vede dall’inconsistenza del Mercosul come blocco economico o dalle ripetute tensioni tra vicini (ad esempio Colombia e Venezuela o Bolivia e Cile), sono i perenni convitati di pietra all’interno dello scenario politico regionale. Non sarà l’arrivo di Trump alla Casa Bianca che riuscirà a superare queste divergenze sostanziali. Inoltre, l’unica ragione di avvicinamento della Cina all’America Latina era motivato dall’acquisto di commodities prodotte dalla regione e dal tentativo cinese di inondare i mercati locali con manifatture a basso costo. Considerando il rallentamento economico di Pechino, le conseguenti crisi economiche di diversi paesi latinoamericani e quindi la loro intenzione di difendere i propri mercati interni, anche questa seconda previsione pare priva di fondamento. Senza contare la distanza siderale di valori tra le società e la politica cinese e quelle latinoamericane, fattore non secondario che fa sì che gli USA rimangano l’unico modello da seguire. In un subcontinente devastato da dittatura sanguinarie in buona parte del XX secolo, la Cina è l’ultimo degli esempi accettabili.

In conclusione, l’irrilevanza che l’America Latina avrà nella nuova politica estera dell’America trumpiana potrebbe non solo farla ripiombare nel dimenticatoio della diplomazia mondiale, ma anche favorire una nuova avanzata di politici populisti locali, al grido di “fora los gringos”. Tanti nuovi piccoli Trump che potrebbero sorgere proprio grazie all’inaspettato trionfo di The Donald. 

 

 

Carlo Cauti, giornalista italiano di base a San Paolo del Brasile. Collabora regolarmente con diverse testate italiane e brasiliane.

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Carlo Cauti

Carlo Cauti
Giornalista italiano di base a San Paolo del Brasile

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