Nello Yemen le elezioni sono una realtà sempre più lontana
Due eventi, uno certamente accaduto e l’altro in parte smentito, hanno scosso venerdì scorso lo Yemen. Abdul Karim Jebdan, parlamentare e delegato alla conferenza di Dialogo Nazionale, è stato ucciso a colpi di pistola nella capitale mentre, sulla sua auto, tornava a casa dopo essersi recato in moschea per la preghiera del venerdì. I due assassini, che hanno sparato da una motocicletta, non sono ancora stati identificati, se mai lo saranno. Nelle stesse ore a Sana’a, il convoglio che riportava in albergo l’inviato delle Nazioni Unite nello Yemen, il diplomatico marocchino Jamal Benomar, sarebbe stato colpito da almeno quattro colpi di arma da fuoco sparati da uomini in auto; i veicoli militari che scortavano Benomar avrebbero risposto ai proiettili – che non hanno fortunatamente comunque ferito nessuno – provocando l’allontanamento degli attentatori. L’indiscrezione è stata riportata da fonti, protette da anonimato, della sicurezza yemenita; l’ufficio stampa dell’inviato dell’Onu ha dichiarato però che i colpi d’arma da fuoco non erano diretti al convoglio diplomatico, ammettendo implicitamente che dei proiettili siano stati sparati nel luogo in cui Benomar stava transitando. E pensare che a ottobre il presidente Hadi aveva lanciato una campagna di sicurezza urbana a Sana’a (città ormai militarizzata dalla rivolta anti-Saleh del 2011) e nei principali centri del paese, aumentando il numero dei militari e dei checkpoints dispiegati sul territorio.
La tensione nello Yemen sta continuando a crescere. Nonostante il paese sia purtroppo abituato alla violenza, i recenti episodi sono inquietanti proprio perché concomitanti a una fase di paralisi politica. Il Dialogo Nazionale, che avrebbe già dovuto concludersi, non riesce a sciogliere i tre nodi principali: la ribellione degli huthi (i dissidenti sciiti zaiditi che controllano vasti territori nel nord del paese), le rivendicazioni autonomiste del Movimento meridionale (Al-Hiraak), la forma istituzionale unitaria, confederale o federale dello Yemen del futuro. Nell’area settentrionale di Saada e di Dammaj, il conflitto religioso e territoriale fra gli huthi e i gruppi salafiti (questi ultimi in alleanza con le tribù locali, appoggiati dal partito islamista Islah, finanziati dai sauditi) è tornato a riaccendersi: secondo i dati dell’International Crisis Group, la guerriglia avrebbe causato una trentina di morti e un centinaio di feriti solo nel mese di novembre.
L’omicidio del parlamentare Jebdan, atto di per sé già gravissimo, preoccupa ancor di più a causa della sua appartenenza ad Ansarullah, il movimento politico degli huthi, che di recente ha accusato i salafiti di reclutare miliziani stranieri per la battaglia di Saada. Dopo l’attacco huthi alla principale madrassa salafita yemenita, il centro Dar al-Hadith di Dammaj, al-Qaeda aveva minacciato di ritorsioni il movimento sciita. Omicidio politico e terrore qaedista potrebbero dunque essersi incrociati nell’uccisione di Jebdan; oltretutto, le cellule di al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) stanno ricorrendo con frequenza alla tecnica del killeraggio via motocicletta.
In questo quadro conflittuale, l’inviato delle Nazioni Unite Jamal Benomar – che ha il compito di monitorare l’applicazione dell’accordo di transizione politica elaborato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo – sta diventando un attore sempre più incisivo sulla scena pubblica yemenita. Un ruolo di protagonista, anche mediatico, che alcuni iniziano a guardare con fastidio. In ottobre, 46 dei 565 delegati del Dialogo Nazionale hanno firmato una dichiarazione di protesta nei confronti di un passaggio del report preparato da Benomar per il Consiglio di Sicurezza, in cui il diplomatico affermava che la conferenza si era accordata in merito a una soluzione istituzionale di tipo federale. I partecipanti hanno smentito tale affermazione, ribattendo che nessuna sintesi era ancora stata trovata. Qualche giorno fa alla televisione di stato, Benomar ha invitato l’élite vicina all’ex presidente Saleh a non ostacolare gli sforzi per la riconciliazione interna, pena sanzioni da parte delle Nazioni Unite. L’unico punto sul quale i partiti yemeniti potrebbero trovare presto un accordo è il rinvio delle elezioni politiche e presidenziali, previste nel febbraio 2014, specialmente se lo scontro – anche settario – in corso a Saada non dovesse riassorbirsi.
Lo stallo politico e il riacutizzarsi del conflitto fra huthi e salafiti preoccupano anche l’Arabia Saudita, che vede nell’instabilità dello Yemen un problema di (in)sicurezza nazionale: nel 2009, Riyadh aiutò l’esercito di Sana’a – con truppe di terra e attacchi aerei – a sedare l’insorgenza huthi, a seguito dell’uccisione di due guardie di frontiera saudite. Il regno wahhabita ha cambiato strategia e privilegia adesso gli aiuti finanziari destinati al governo di Sana’a, piuttosto che i tradizionali e ormai inefficaci pagamenti diretti alle tribù locali. Il crescente peso politico e militare degli huthi nello Yemen del nord inquieta gli Al-Sa‘ud e intorno ai confini sauditi cresce il senso di accerchiamento sciita: per esempio, i sei colpi di mortaio caduti pochi giorni fa a Hafar al-Batin (area petrolifera dell’Arabia settentrionale) sono stati rivendicati da una milizia sciita irachena, Jaish al-Mukhtar. Ora che il riavvicinamento fra Iran e Stati Uniti rimescola gli equilibri regionali e potrebbe allentare la pressione statunitense sugli “amici di Teheran” (come Hezbollah e appunto gli huthi), l’Arabia Saudita non può che puntare sul rafforzamento delle autorità centrali yemenite, sperando di frenare l’espansione territoriale e politica del movimento sciita. Forse, è comunque troppo tardi. Il rinvio delle elezioni nello Yemen, opzione gradita sia agli attori interni che a quelli regionali, rischia di peggiorare gli archi di crisi aperti (nord, sud, al-Qaeda), rimandando il confronto con i problemi sul campo. E lascia così il solo inviato dell’Onu a fare da “stampella politica” a un presidente a tempo, Hadi, succube delle rivalità tra gruppi di potere.