Nuovo governo in Libia: un primo passo nel percorso ad ostacoli

A dieci anni dall’inizio delle primavere arabe, pochi paesi riflettono il tragico fallimento di quegli eventi come la Libia. Dopo la caduta di Muammar Gheddafi nel 2011 per mano di una variegata schiera di ribelli sostenuti dall’intervento di una coalizione sotto egida NATO, si è aperto un decennio caratterizzato da instabilità politica, governance fallimentare e frammentazione istituzionale e militare che ha riportato alla memoria della popolazione la repressione e le difficili condizioni vissute durante gli oltre 40 anni di dittatura. A partire dal 2015, infatti, l’incapacità tra le varie anime politiche libiche di trovare un accordo per la creazione di un nuovo governo si è tradotta in una sempre più profonda frammentazione interna culminata in una partizione del paese in due differenti amministrazioni, il Governo di Accordo Nazionale (GNA) insediatosi a Tripoli e riconosciuto dall’ONU e la Camera dei Rappresentanti di Tobruk, nella regione orientale della Cirenaica, appoggiata da numerose potenze regionali e internazionali. Nella primavera del 2019 gli scontri militari tra queste due fazioni hanno subito un’accelerazione con l’inizio dell’offensiva delle forze guidate dall’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, giunta sino alle porte di Tripoli ma successivamente interrotta dal provvidenziale intervento della Turchia a sostegno del GNA. Il risultante stallo militare si è cristallizzato lungo una linea del fronte che parte dalla città costiera di Sirte, ancora controllata dalle milizie di Haftar, e scende in direzione sud fino alla base aerea di al-Jufra (usata da Haftar e dai mercenari russi del Gruppo Wagner), tagliando in due il paese. Nonostante il cessate il fuoco, entrambe le fazioni continuano a rinforzarsi militarmente con armi e soldati di ventura venuti dall’estero, mentre il rivitalizzato dialogo politico sostenuto dalle Nazioni Unite che dovrebbe supportare il paese nel percorso verso nuove elezioni rimane fragile e complesso alla luce dei molteplici interessi in gioco.
Il voto per il governo di unità nazionale: nuova speranza?
A inizio febbraio, dopo mesi di negoziati avviati in seguito al cessate fuoco raggiunto ad ottobre 2020, i 75 membri del Forum di Dialogo politico Libico (LPDF) tenutosi a Ginevra e sostenuto dalle Nazioni Unite hanno eletto Mohamed Ahmed al-Manfi e Abdul Hamid Dbeibah alla guida, rispettivamente, del Consiglio Presidenziale e del nuovo esecutivo di unità nazionale, le due istituzioni che avranno il compito di traghettare il paese verso le elezioni parlamentari e presidenziali fissate per il prossimo dicembre. Con 132 voti a favore su 134 – ma con 2 astensioni e 36 parlamentari assenti – nella mattinata del 10 marzo è arrivato il voto di fiducia da parte della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, riunitasi per la prima volta nella città costiera di Sirte, alla squadra di governo sottoposta nei giorni scorsi da Dbeibah al Presidente della Camera Aguila Saleh e composta da un totale di 35 posizioni. In particolare, la composizione dell’esecutivo prevede 27 ministri, 6 sottosegretari di stato e 2 vice-primi ministri, e un numero di donne sia nei ruoli ministeriali che vice-ministeriali pari al 30% del totale, inclusi per la prima volta nella storia del paese i ministeri della Giustizia e degli Affari esteri. Resta al momento vacante il Ministero della Difesa, provvisoriamente assunto dal Primo ministro in attesa che venga raggiunto un accordo su un nuovo nome. Nonostante abbia ottenuto la fiducia da parte della Camera dei Rappresentanti entro il termine del 19 di marzo, ossia 21 giorni dalla presentazione della lista dei ministeri da parte del Primo ministro designato, l’operato del nuovo governo potrebbe essere ostacolato dal mancato riconoscimento, da parte della Camera, delle conclusioni raggiunte dal LPDF il 5 febbraio, specie quelle in merito al ruolo del Consiglio Presidenziale, che, almeno per il momento, non avrebbe alcuna autorità nella prospettiva dell’organo decisionale di Tobruk. Questo conferma che, sul piano politico, rimane ancora una certa distanza tra le parti su diversi aspetti dell’implementazione della roadmap in vista delle elezioni e non è da escludersi, quindi, che le questioni politiche che hanno tenuto banco in questi anni, come ad esempio l’illegittimità del GNA agli occhi della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, possano riproporsi in un’altra forma.
Nonostante il clima di incertezza e un esito del voto che era tutt’altro che scontato, nei giorni scorsi il nuovo inviato ONU per la Libia Jan Kubis aveva espresso ottimismo, definendo questo appuntamento "un altro passo importante verso il ripristino dell'unità e della legittimità delle istituzioni e delle autorità libiche”. L’ottenimento della fiducia, perciò, rappresenta indubbiamente un importante passo avanti per il paese, soprattutto se si considera che questo governo di unità nazionale è il primo esecutivo unito dal 2014. Questo progresso sul piano politico potrebbe giovare anche al dialogo che, in parallelo, viene portato avanti su quello militare nella cornice della Commissione militare congiunta 5+5, formata da 5 ufficiali del GNA e 5 del LNA, in particolare per quanto concerne la riapertura della strada costiera tra Misurata e Sirte, dove prosegue il difficile lavoro di sminamento, in un primo passo lungo il difficile percorso di normalizzazione interna.
Le accuse di corruzione e i tanti problemi della Libia
Il futuro e la legittimità stessa del nuovo processo politico in Libia, tuttavia, restano pericolosamente in bilico anche alla luce delle recenti rivelazioni, riprese da vari organi di stampa, riguardanti episodi di evidente corruzione all’interno dei meccanismi di voto del LPDF, i cui dettagli sarebbero inclusi in un rapporto confidenziale delle Nazioni Unite. Mentre il primo ministro designato Dbeibah ha negato tali indiscrezioni, che vedrebbero alcuni membri del LPDF coinvolti in un giro di tangenti servite per garantire il voto proprio al primo ministro, la pubblicazione del rapporto nei prossimi giorni potrebbe delegittimare ulteriormente la figura dello stesso Dbeibah e minare le fondamenta dell’attuale percorso di riconciliazione nazionale. Il rischio di una deriva del dialogo politico, peraltro, si riflette anche in ambito militare, dove restano tesi i rapporti all’interno del Comitato militare congiunto 5+5, soprattutto riguardo alla partenza delle forze militari straniere, inclusi i mercenari, su cui entrambe le parti hanno fatto affidamento negli ultimi anni. La presenza di mercenari è infatti considerata una delle principali cause della recrudescenza e prosecuzione del conflitto e, secondo le stime dell’Onu, il loro numero attuale ammonterebbe a circa 20mila, con diversi paesi della regione, inclusi Egitto, Emirati, Turchia e Qatar, oltre alla Russia, che avrebbero violato l’embargo internazionale sulla fornitura di armamenti in vigore dal 2011. Se Mosca ha ripetutamente negato ogni coinvolgimento nel paese, nonostante la continua presenza di combattenti del gruppo Wagner, lo scorso dicembre Ankara ha ufficialmente esteso la permanenza delle proprie truppe a sostegno del governo Tripolino per altri 18 mesi.
Al contempo, il paese soffre in termini di servizi essenziali che sono al collasso a causa di corruzione e cattiva gestione. Su tutti la rete elettrica, visto che appena la metà delle centrali elettriche del paese è funzionante, ma anche le infrastrutture idriche, specie nell’area di Tripoli, il cui funzionamento è stato interrotto a più riprese da Haftar per indebolire i propri avversari, e altre infrastrutture critiche come gli ospedali distrutte o danneggiate dai combattimenti. Oltre a ciò vanno considerati anche la necessità di assistenza umanitaria per 1 milione di persone (su una popolazione di poco più di 6 milioni) in un contesto di instabilità esacerbato dalla pandemia, nonché il ripristino della legalità e la giustizia per i crimini di guerra commessi soprattutto dalle milizie affiliate al LNA.
Non meno importante appare la fragilità del tessuto economico. L’economia libica, infatti, dipende quasi esclusivamente dalla rendita del settore petrolifero, che rappresenta circa il 95% delle esportazioni e oltre la metà del prodotto interno lordo (PIL). Quest’ultimo è precipitato (-40,9%) nel corso del 2020 a causa del doppio shock legato all’impatto della pandemia sui prezzi del greggio e, soprattutto, al blocco di 9 mesi della produzione petrolifera interna – scesa da 1,2 milioni di barili al giorno a circa 200mila – attuato nel gennaio 2020 da Haftar, il quale ha sfruttato il parziale controllo sulle Petroleum Facilities Guards per chiudere gli impianti. Il deterioramento delle condizioni fiscali ha imposto al governo di Tripoli una revisione della spesa pari al 22%, tagliando in particolare i salari pubblici (20%) a partire dall’aprile dell’anno scorso. Secondo la Banca mondiale, la struttura che regola la spesa pubblica nell’amministrazione tripolina, soprattutto per quanto riguarda l’ammontare retributivo (pari al 60% della spesa totale), è da considerarsi una delle meno efficienti al mondo, mentre, così come in altri paesi esportatori, la dipendenza pressocché totale dai proventi degli idrocarburi rende l’attuale impostazione delle finanze pubbliche praticamente insostenibile. La priorità, dunque, è quella della diversificazione e del potenziamento del settore privato, per i quali è però fondamentale la presenza di un contesto di sicurezza e stabilità politica che nel paese mancano da anni.