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People to Watch 2014 - Pietro Parolin

Venerdì, 20 Dicembre, 2013 - 00:00

L’arcivescovo Pietro Parolin, dal 15 ottobre nuovo segretario di stato della Santa Sede, rappresenta a un tempo il ritorno della grande scuola diplomatica vaticana al vertice della Terza Loggia e una figura inedita, almeno rispetto alla storia degli ultimi cinquant’anni. Nulla sarà come prima, in quella che con la riforma di Francesco è destinata a cambiare nome e diventare “segreteria papale”. La denominazione, di per sé, esisteva già: nella Regimini Ecclesiae Universae, con la quale Paolo VI compì la grande riforma della Curia del 1967, si parlava di Secretaria Status seu Papalis, “Segreteria di Stato o Papale”, ma l’aggettivo non era in uso. Nel prossimo futuro passerà in primo piano, e non è un dettaglio nominalistico. Il vescovo Marcello Semeraro, segretario del Consiglio di otto cardinali voluto dal Papa per studiare (anche) la riforma della Curia, ha spiegato al Corriere della Sera: «Oggi il termine “segretario di stato” può essere frainteso, ha una connotazione “politica”. Si tratta invece di mettere sempre più in evidenza la dimensione ecclesiale del segretario, il suo ruolo di supporto alle funzioni del Papa come vescovo di Roma e capo della Chiesa universale. E poi ci sono formulazioni antiche che non rispettano più la realtà... ». Il nome “segretario di Stato” risale insomma ai secoli del potere temporale. Del resto lo aveva fatto capire lo stesso padre Federico Lombardi, portavoce vaticano: «La parola “stato” non deve creare equivoci. Di fatto è la segreteria del Papa per il suo servizio di governo della Chiesa universale». Parlare di “segreteria papale” è più consono alla nuova figura che si profila. Il segretario di stato come lo si è conosciuto dalla riforma di Montini è andato in pensione assieme al cardinale Tarcisio Bertone. Con l’arcivescovo Parolin resterà una figura centrale ma più proiettata alla dimensione internazionale della Chiesa e meno egemone in Vaticano, non più ripiegata sui problemi di una Curia destinata a cambiare radicalmente e divenire più agile e al “servizio” di una Chiesa sempre meno “centralista” ed “eurocentrica”, con maggiore autonomia per i vescovi e le conferenze episcopali del mondo.

Non a caso la scelta di Francesco è caduta sull’ex nunzio apostolico in Venezuela. A Roma ci sono condominii dove ancora se lo ricordano, mentre andava a trovare anziani e persone che avevano bisogno di una guida spirituale, senza magari sospettare che quel prete in clergyman già lavorasse ai vertici della Santa Sede. Con Parolin, il Papa ha nominato segretario di stato un esempio di ciò che raccomanda spesso: un pastore che abbia l’“odore delle pecore”. E insieme è tornato ad attingere all’Accademia di piazza della Minerva, a Roma, la fucina della diplomazia vaticana che aveva sempre considerato Bertone una sorta di corpo estraneo. Pietro Parolin viene da lì. Nato a Schiavon, in provincia di Vicenza, il 17 gennaio 1955, a soli 58 anni è il più giovane segretario di stato del dopoguerra. Per trovarne uno più precoce bisogna risalire al 1930 con la nomina, a neanche 54 anni, del cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII. Entra in seminario quattordicenne, dopo la maturità classica studia filosofia e teologia e per due anni fa il viceparroco a Schio, prima di andare a Roma a studiare Diritto canonico alla Gregoriana. Perché il giovane ha talento e nell’83, a 28 anni, entra pure nella pontificia Accademia ecclesiastica. Così nell’86 comincia il suo servizio diplomatico, in Nigeria fino all’89, in Messico fino al ’92, finché rientra a Roma ed entra in segreteria di stato. Per Parolin è stato un ritorno a casa: prima d’essere inviato nel 2009 come nunzio a Caracas, alla Terza Loggia aveva già lavorato per diciassette anni, gli ultimi sette come “sottosegretario per i Rapporti con gli Stati” e quindi “numero tre” della segreteria di stato. Alieno dall’apparire, con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si è occupato di innumerevoli dossier. In particolare è esperto di Medio Oriente e del continente asiatico in generale: dal Vietnam alla Cina, la nuova frontiera (si fa per dire: la strada nel “Regno di Mezzo” venne tracciata più di quattro secoli fa da un confratello di Bergoglio, il missionario gesuita Matteo Ricci che i cinesi ricordano ancora come Li Madou, il “saggio d’Occidente”) della Chiesa cattolica.

Agli ambasciatori riuniti in Vaticano, il 13 dicembre, il nuovo segretario di stato ha spiegato: «In un periodo nel quale svariate religioni del mondo si confrontano con diverse forme di violenza e la persistenza delle disparità sociali, vorrei rinnovarvi l’assicurazione della mia disponibilità a collaborare alla ricerca della pace e al rispetto della dignità di ogni essere umano. Non possiamo restare insensibili alla sofferenza che tocca drammaticamente degli esseri umani. Dobbiamo mostrare che la pace è possibile, che non è un’utopia. La missione dei diplomatici non è quella di lavorare a rendere il mondo più felice?».

Gian Guido Vecchi, giornalista, vaticanista del Corriere della Sera.
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