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Porti 6.0: l’Italia che ancora non c’è

Venerdì, 9 ottobre, 2020 - 09:30
Covid-19

Il brusco calo del Pil e degli scambi commerciali a seguito della pandemia Covid-19 ha avuto inevitabilmente un effetto negativo sulla portualità italiana. Ovvia conseguenza del fatto che oltre il 40% di tutto l’interscambio commerciale italiano avviene via nave, valore che sale al 90% per l’import-export italiano verso Asia e America. Il primo semestre di quest’anno – quello caratterizzato dall’impatto del lockdown – ha visto una contrazione media del -12% in termini di tonnellaggio delle merci transitate dai porti italiani con dati che oscillano tra il -9% dei traffici RoRo al -23% delle rinfuse solide. Tutti i porti italiani hanno avuto contrazioni significative, anche se i porti del Mezzogiorno, più votati al settore energetico e alla filiera agroalimentare (entrambe sempre operative anche nei mesi di blocco) hanno sofferto di meno.

Questi dati sono in linea con la contrazione che si è registrata a livello globale sui traffici marittimi e sui containers frutto non solo di Covid-19 ma anche delle crescenti tensioni commerciali internazionali, soprattutto tra Cina e Stati Uniti. La rotta pacifica (che registra soprattutto gli scambi tra questi due grandi Paesi) aveva già avuto un calo significativo con le politiche protezionistiche di Trump nel 2019 (dopo un decennio di crescita ininterrotta) ma registra quest’anno un vero crollo con -10%. Anche Suez, termometro della Via della Seta e dei traffici che alimentano i rapporti commerciali tra Europa e Cina conferma questa tendenza:-15% di passaggi di grandi navi portacontainers sulla rotta da e verso l’Asia.

Parallelamente i grandi carriers, le shipping companies che governano il mercato mondiale del trasporto merci via nave, hanno cercato di far fronte alla crisi con operazioni di “blank sailing” (cancellazione di tratte già programmate) e contemporaneamente con la ricerca di rotte e strategie per diminuire drasticamente i costi. Ad esempio, il calo del prezzo del petrolio, particolarmente significativo proprio nei primi mesi dell’anno, ha visto il ritorno della rotta del Capo di Buona Speranza, la circumnavigazione dell’Africa. Rotta certo molto più lunga ma che tuttavia diventa conveniente con il prezzo del carburante basso in confronto al costo del passaggio da Suez.

 

Più rotte regionali: il caso Mediterraneo

Tutti questi indicatori congiunturali si accompagnano con un altro più strutturale. Diversi segnali che provengono dalla tipologia e frequenza delle rotte marittime ci dicono che è in fase di accelerazione un processo di regionalizzazione del commercio mondiale che probabilmente tocca anche le catene del valore e le supply chain.  Ciò che – con una battuta – potrebbe essere definito un processo di regionalizzazione della globalizzazione. Lo vediamo dal numero crescente di passaggi di navi all’interno di rotte regionali (America, Europa-Mediterraneo, Asia) e la diminuzione dei passaggi su rotte globali.

Questo processo ci porta al Mediterraneo, anch’esso interessato da tale fenomeno. L’analisi satellitare di tutti i passaggi di navi containers considerando il porto di partenza e di destinazione finale ci ha consentito di calcolare il baricentro medio. Tanto più le navi partono da lontano (Asia) e hanno come destinazione finale un porto del Nord Europa o della costa Atlantica tanto più il baricentro è spostato verso Gibilterra. Viceversa, porti di partenza meno lontani o porti di destinazione più vicini all’area Mediterranea portano il baricentro maggiormente al centro. È questo il fenomeno che abbiamo osservato dal 2012 a oggi: uno spostamento del punto di massima concentrazione dei passaggi più vicino al cuore del Mediterraneo e al nostro Paese. Questo è solo un esercizio statistico e grafico ma serve a intercettare un fenomeno importante e a comprendere che l’Italia ha (e mantiene) un posizionamento geografico di vantaggio nel cuore del Mediterraneo che resta lo snodo centrale sia dei traffici regionali che di quelli globali.

 

 

Ritardi italiani

Ma perché non riusciamo a cogliere pienamente tale vantaggio? Il nostro punto debole principale è quello della logistica. I modelli più efficienti di portualità (da Rotterdam a Amburgo) hanno ormai adottato un paradigma che si basa su un concetto semplice: l’efficienza di un porto non è data solo dai servizi di carico e scarico. Conta che la merce (così come i passeggeri) una volta scesi in banchina possano muoversi rapidamente e interconnettersi con gli altri sistemi di trasporto. L’intermodalità, il collegamento con la ferrovia e la sua efficienza, la capacità di trasformare l’area retroportuale in poli di innovazione e attrazione di investimenti, l’attenzione ai temi della tecnologia e della sostenibilità, sono questi gli elementi che rendono – oggi- un porto davvero competitivo. Quello che definisce a livello internazionale il “Porto 6.0” area capace di diventare un potente polo di sviluppo economico, di innovazione tecnologica e di attrazione di investimenti produttivi. 

L’Italia – pur avendo migliorato sensibilmente il suo posizionamento – resta al 19° posto al mondo nel Logistics Performance Index della World Bank, dietro a tutti i nostri principali competitors europei. 

Ma qualcosa si sta muovendo. Certo siamo lontani dal modello di “Porto 6.0” ma non mancano segnali positivi importanti. Alcuni investitori internazionali (non solo cinesi) si stanno affacciando ai porti italiani. I turchi di Yilport a Taranto, MSC a Gioia Tauro; i tedeschi di Amburgo a Trieste; forse il Porto di Amsterdam a Cagliari. Sullo sfondo il lancio delle ZES (Zone Economiche Speciali) nei porti del Mezzogiorno e delle ZLS (Zone Logistiche Speciali) nei porti del Nord. Questi strumenti devono vedere la luce al più presto se si vuole accelerare il processo di attrazione di investimenti produttivi nelle aree portuali. Che sono anche un elemento per rendere i vari territori e le autorità di riferimento più consapevoli dell’importanza strategica dei porti. 

 

L’occasione in arrivo dal’Europa 

Sono in arrivo risorse importanti dall’Unione Europea. Allo scoppio della crisi sanitaria l’Europa non ha data una bella prova di sé tra chiusura unilaterale delle frontiere, accaparramenti sanitari e contrapposizioni Nord-Sud. Poi però la gravità della situazione e il rischio davvero reale di implosione ha fatto prevalere una impostazione solidaristica. L’accordo al Consiglio UE di luglio sul Next Generation EU (anche per l’implicita accettazione di debito comune) è un passo storico che rafforza l’Unione, la sua moneta e il suo mercato interno. Ecco quindi che le risorse in arrivo con il Recovery Fund vanno utilizzate per rafforzare strutturalmente l’economia del nostro Paese in un contesto in cui noi siamo un tassello importante di un’Europa che sta cercando di diventare più forte e più capace di difendere i suoi interessi. 

 

Logistica e portualità sono dunque doppiamente strategici.

Non mancano i progetti di sviluppo, non mancano gli investitori interessati, non mancano ormai neanche le risorse finanziarie. Manca ancora la consapevolezza di quanto importante e strategico sia questo comparto che è la vera pietra angolare su cui ruota l’intero sistema economico e produttivo di un Paese che la geografia ha posto a cavallo tra il cuore dell’Europa continentale e il Mediterraneo.

Autore: 

Massimo Deandreis

Massimo Deandreis
Direttore Generale SRM Intesa Sanpaolo, Presidente GEI

URL Sorgente (modified on 09/10/2020 - 14:36): https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/porti-60-litalia-che-ancora-non-ce-27785