Reagire alla crisi: il debito non è uguale per tutti

L’indebitamento pubblico (e privato) nel mondo era già molto elevato prima del coronavirus. Oggi è destinato a schizzare ancora più in alto col rischio di diventare insostenibile per molti paesi.
In Europa la situazione non è certo rosea. Il debito pubblico dell’Eurozona toccherà il 102% entro la fine dell’anno. Spagna e Francia si apprestano a superare – e di molto – la soglia del 100% del Pil, mentre Italia e Grecia – rispettivamente con oltre il 155% e il 168% – guidano tristemente la classifica europea dei più indebitati rispetto al Pil. I paesi europei possono però contare sulla BCE che dall’inizio della crisi da COVID-19 ha lanciato una serie di iniziative che sono riuscite a tenere calmi i mercati. Tra queste la più importante è la Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) che permette l’acquisto di titoli per oltre 1.300 miliardi di euro, peraltro temporaneamente in deroga alla capital key. Cosa che negli ultimi mesi ha permesso alla BCE di acquistare un ammontare di titoli del debito pubblico italiano doppio rispetto a quanto spetterebbe al nostro paese. Inoltre il finanziamento delle misure di contrasto al virus (e dei suoi effetti sull’economia) è stato possibile anche tramite diversi strumenti approntati dall’Ue: dal SURE (sostegno all’occupazione) al MES (spese sanitarie dirette e indirette), dai finanziamenti della BEI per le imprese fino al Recovery Fund (nella speranza che venga approvato). In totale la potenza di fuoco dell’Ue (incluso il bilancio Ue 2021-2027) potrebbe superare i 2,4 trilioni di euro. Tutto questo non eviterà certamente una recessione profonda e senza precedenti – - 8,3% per l’Ue nel 2020 - ma aiuta ad attenuarne il peso sui cittadini, a ridurre il rischio di una crisi finanziaria, e auspicabilmente, a recuperare il prima possibile la quota di Pil lasciata sul terreno (anche se per molti paesi europei, Italia inclusa, questo non succederà prima del 2022).
Strumenti sostanzialmente simili sono a disposizione – e sono stati ampiamente utilizzati – da tutti i paesi ‘ricchi’ del mondo. Purtroppo non è questo il caso non solo per i paesi più poveri ma anche per moltissime economie in via di sviluppo. La possibilità di usare le loro banche centrale e di approntare misure di contrasto in molti casi è praticamente nulla. Il debito di questi paesi rischia velocemente di diventare insostenibile e la crisi economica lunga e profonda. L’intervento della comunità internazionale è fondamentale per evitare che uno scenario di questo tipo si realizzi. Cosa è stato fatto finora al riguardo? E cosa si potrebbe ancora fare?
Il debito dei più poveri…e non solo
Dopo lo scoppio dell’emergenza COVID-19 il G20 ha fatto una prima mossa congelando fino alla fine dell’anno il ripagamento dei crediti bilaterali verso i paesi a più basso reddito. Una moratoria che è operativa da inizio maggio. A essere interessati sono i 76 paesi che possono ricevere assistenza dalla International Develoment Association (IDA) della Banca Mondiale (ovvero quei paesi il cui reddito medio annuo è di poco superiore ai mille dollari) e quelli definiti come ‘least developed countries’ dalle Nazioni Unite. La maggior parte di questi paesi sono in Africa, ma molti si trovano anche nell’Asia meridionale e orientale. Sono i paesi che hanno visto crollare alcuni settori (come quello del turismo e dell’estrazione mineraria) cruciali per l’occupazione e per le casse pubbliche, oltre che le rimesse dall’estero.
Secondo le prime stime, la moratoria del G20 potrebbe riguardare crediti bilaterali per circa 20 miliardi di dollari. Non sono ovviamente inclusi i debiti contratti da questi paesi nei confronti dei privati ai quali i leader del G20 hanno chiesto di fare la propria parte. Così come lo hanno chiesto al Fondo Monetario Internazionale (FMI) in merito ai propri crediti. E, in effetti, la nuova managing director del Fondo, Kristalina Georgieva, è intervenuta e ha proceduto di fatto alla cancellazione (attraverso dei grants) di parte dei debiti contratti dai paesi membri più poveri attraverso il suo Catastrophe Containment and Relief Trust (CCRT) (creato nel 2015 in risposta all’epidemia dell’ebola) di cui è in corso un rimpinguamento (al momento è già passato da 200 a 600 milioni di dollari). Finora il CCRT ha concesso contributi a 27 paesi per un totale di circa 244 milioni di dollari. Peraltro il FMI può concedere prestiti e grants ai paesi più poveri attraverso il Poverty Reduction Growth Trust, anch’esso recentemente aumentato.
Non sarebbe dunque corretto affermare che la comunità internazionale non è intervenuta a difesa soprattutto dei paesi più deboli. Ma appare evidente che si tratta solo di primissime risposte e che (molte) altre saranno necessarie già nel prossimo futuro. Anzitutto in merito alla tempistica: l’orizzonte temporale della maggior parte delle misure introdotte è quello di fine anno risultando quindi del tutto inadeguato rispetto alla profondità e durata degli effetti della crisi da COVID-19 soprattutto in paesi che non possono contare su ingenti interventi statali. C’è poi la questione dell’ammontare complessivo messo a disposizione di questi paesi. Il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe ulteriormente rimpinguare il proprio CCRT, ma anche osare di più. Potrebbe, ad esempio, attingere alle risorse proprie e procedere a una più ampia cancellazione del debito ricalcando l’esempio del programma Heavily Indebted Poor Countries degli anni Novanta (magari evitando le storture del passato, soprattutto in merito ai criteri di accesso e alla condizionalità del programma stesso).
C’è infine la questione dei paesi coinvolti. Se infatti i paesi ricchi possono ricorrere alle proprie banche centrali e quelli più poveri ai meccanismi di debt relief (per quanto limitati questi siano), ci sono paesi che rischiano di non poter contare né sugli uni né sugli altri. Si tratta di oltre 100 paesi emergenti in cui risiede la maggior parte della popolazione mondiale. Paesi che si trovano in America Latina, Medio Oriente e Asia e in cui le persone rischiano di essere risucchiate sotto quella soglia di povertà da cui erano uscite da poco. Alcuni di questi paesi hanno già potuto contare su prestiti concessi dal FMI (nell’ordine di decine di miliardi in totale), che rappresentano però una goccia nel mare se si considera che lo stesso FMI prevede per loro un fabbisogno finanziario di 2,5 trilioni di dollari. Una proposta, emersa nei mesi scorsi, riguarda l’aumento dei Diritti speciali di prelievo (SDRs), ovvero la ‘moneta’ ufficiale del FMI basata sulle più importanti valute mondiali (dollaro, euro, yen, sterlina e yuan). Un aumento degli SDRs equivarrebbe alla ‘stampa di moneta’ da parte di una banca centrale e metterebbe a disposizione centinaia di miliardi di dollari per tutti i 189 membri del FMI e, soprattutto, per i paesi in disperato bisogno di preziose riserve in valuta estera. A mettersi contro sono stati gli Stati Uniti di Donald Trump che asseriscono che buona parte dei nuovi fondi creati andrebbe ai paesi ‘ricchi’ (o quasi) del G20. Ma dietro ci sono ovvie motivazioni politiche dato che questi fondi potrebbero essere messi a disposizione di paesi come l’Iran, se non addirittura la Cina.
Insomma, qualcosa si è mosso per i paesi più poveri e, proporzionalmente di meno, per quelli emergenti, ma è palesemente poco rispetto alla portata della sfida del coronavirus. Si corre il rischio di una nuova crisi finanziaria mondiale, magari scatenata proprio dal default di alcuni paesi emergenti. Una crisi che travolgerebbe anche i paesi ‘ricchi’, USA inclusi, in un momento in cui molti di loro si interrogano già sulla sostenibilità del loro indebitamento. Spetta inevitabilmente alla comunità internazionale trovare soluzioni che partano dal riconoscimento che non tutti i debiti sono uguali. Quelli dei paesi poveri e di molti paesi emergenti sono meno sostenibili. Fare in modo che questa situazione non degeneri non è solo un obbligo morale, ma anche una necessità per tutti.