Se ti dimentico, Gerusalemme...

I razzi, le bombe; i morti israeliani fuori e quelli palestinesi dentro la gabbia di Gaza; il mondo con le reazioni dei paesi musulmani che d'improvviso riscoprono la causa palestinese, il visibile fastidio di Joe Biden e i silenzi europei; l'uso politico dei partiti italiani che al Portico d'Ottavia hanno banalizzato una tragedia fino a trasformarla in comizio per le imminenti elezioni al Comune di Roma.
Una volta di più, anche in quest'ultima delle ricorrenti crisi di una ferita rimasta costantemente aperta, abbiamo dimenticato la causa originale: Gerusalemme, sinonimo di lotta d'indipendenza nazionale. Nel conflitto fra israeliani e palestinesi la religione è una pericolosa acquisizione recente. Il suo cuore è da sempre lo scontro fra due risorgimenti, due ambizioni nazionali, due popoli. Per entrambi Gerusalemme è il simbolo, il punto d'arrivo di un cammino verso l'indipendenza nazionale.
Gli israeliani lo hanno raggiunto e sostanzialmente negano ai palestinesi la loro parte di sogno. A ruoli invertiti, sarebbe uguale: anche i palestinesi negherebbero Gerusalemme agli avversari perché stiamo parlando di un conflitto più che secolare nel quale i nemici non sono interessati a conoscere narrativa e ragioni dell'altro.
Gli israeliani contemporanei tendono a non ricordare che nel suo progetto di stato ebraico Theodor Herzl, il padre del sionismo, pensava che Gerusalemme dovesse diventare un luogo franco per ebrei e arabi: una specie di museo della tolleranza fra le tre grandi religioni monoteistiche. Ma è raro che in questa regione le idee belle e geniali riescano a materializzarsi.
Tornando alla cronaca, le cause dell'ultima rivolta palestinese che l'ennesima battaglia su Gaza ha fatto dimenticare, sono queste: la polizia israeliana aveva cercato di limitare la partecipazione dei musulmani alle preghiere sulla Spianata del Tempio, nel mese di Ramadan. Contemporaneamente il tribunale aveva sfrattato diverse famiglie palestinesi dalle case che abitavano da circa 80 anni nella parte orientale araba della città. Quelle case erano state donate da re Abdullah di Transgiordania (il bisnonno dell'attuale Abdullah di Giordania) a una comunità di ebrei. Nel 1948, nel pieno della battaglia per la conquista di Gerusalemme, per sicurezza questi ultimi furono fatti evacuare dalle Nazioni Unite.
È difficile che i coloni ebrei pronti a rioccupare quelle case, siano gli eredi degli sfollati di allora. Ma la vera ingiustizia posa su altre basi. Se visiterete Gerusalemme, andate a vederne i quartieri più belli, ora nella parte occidentale ebraica, fuori dalle mura ottomane della città vecchia: German Colony, Abu Tor, Baka, Rehavia, Musrara. Sono pieni di antiche case arabe che appartenevano alla borghesia mercantile palestinese della città. Nel 1948 alcuni fuggirono, altri furono cacciati. Negli anni successivi molti chiesero di tornare ma a nessuno, nemmeno 70 anni più tardi, è mai stato consentito.
Perché la legge d'Israele non è uguale per tutti. Non lo è per i cittadini arabo-israeliani, il 21% della popolazione. Sono gli eredi di quei palestinesi che nel 1948 non fuggirono né furono scacciati. Allora ci furono molti episodi terribili. In un vecchio libro molto commovente, “All That Remains”, lo storico di un'antica famiglia gerosolimitana che insegnava ad Harvard, Walid Khalidi, ha elencato i 418 villaggi palestinesi scomparsi. A onor del vero, gli israeliani di allora condussero con grande riluttanza la loro pulizia etnica: a molti arabi fu consentito di restare. Ma di Israele sono sempre stati cittadini di seconda categoria.
Poi ci sono i palestinesi dei Territori occupati che non sono né desiderano essere cittadini d'Israele. La loro condizione rispetto alle leggi israeliane è pessima. Secondo un recentissimo rapporto di Human Right Watch, vivono in una condizione di apartheid. Il governo di Gerusalemme ha respinto l'accusa, definendo anti-israeliana e prevenuta quell'Ong fondata da ebrei liberal newyorkesi. Qualche giorno fa, andando sul suo sito ho constatato che HRW non risparmia nessuno: cliccando ”Iran” ho contato 2050 denunce.
Ma non voglio sostenere HRW. Mi limito a citare A.B. Yehoshua, il grande scrittore israeliano che il 26 febbraio del 2007 scrisse su Yedioth Ahronot che l'occupazione dei Territori “ha contaminato le nostre norme come una falda acquifera avvelenata. Dal 1967 in Israele hanno incominciato a funzionare due sistemi paralleli: il sistema normativo, costituzionale, democratico dello Stato d'Israele; e, dall'altro lato, i Territori amministrati dove le norme morali e di polizia erano completamente differenti... Mi capita di pensare che allora, quando incominciò l'impresa delle colonie, avremmo dovuto opporci con più forza per fermare la faccenda che ci ha impigliati e ha impigliato così tanto il nostro futuro”.
Ecco, questo è il punto di partenza di ciò che sta accadendo ora: da Gerusalemme e i Territori è rotolato fino a Gaza, dove una volta di più è stato scippato da Hamas e dal governo israeliano. La vicenda è antica e complessa, e spinge chiunque vi si avvicini per la prima volta a semplificarla, affermando “Io sto con Israele”, “Io sto con i palestinesi”. Lo feci anche io, tanti anni fa. E qualche giorno fa lo ha fatto l'intero arco costituzionale italiano, presentandosi al Portico d'Ottavia cuore della comunità ebraica romana - più romani di tutti gli altri romani - a cercare voti più che offrire solidarietà.
So che se vi dicessi che io sto con entrambi, israeliani e palestinesi, suonerebbe molto banale e retorico. Ma non posso farci niente, è proprio così. E non perché cerchi di blandire sia gli uni che gli altri. Anzi: israeliani e palestinesi ammettono solo adesioni totali ed esclusive alla loro causa.
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Dello stesso autore Israele-Hamas, nella crisi infinita il fallimento di due classi dirigenti (Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2021)