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Siria: l’accordo Turchia-Russia e gli errori dell’Europa

Venerdì, 6 marzo, 2020 - 19:30
La crisi di Idlib

Nel football americano la chiamano “linea di screenmage”. Gli arbitri fermano l’azione lungo quella linea immaginaria che attraversa il campo all’altezza di dove il possessore della palla della squadra attaccante è stato atterrato. L’azione riprenderà con le due squadre nuovamente schierate lungo quella linea, per un nuovo round del match. Ebbene, più che il classico linguaggio della diplomazia, per commentare l’accordo stretto giovedì 5 marzo a Mosca tra il presidente russo Putin e quello turco Erdogan sarebbe più opportuno usare un gergo sportivo, certamente insolito, ma che meglio rende l’idea di quello che è accaduto e di quello che dobbiamo aspettarci.

Lo scenario peggiore non si è avverato. Un mancato accordo a Mosca avrebbe infatti significato una ulteriore escalation nell’area di Idlib, con probabile scontro diretto tra turchi e russi, rinnovate ondate di profughi ai confini tra Siria e Turchia e, con ogni probabilità, anche lungo quelli tra Turchia e Grecia. Una crisi dagli sviluppi imprevedibili, ma certamente molto gravi e con ricadute pesanti anche per il Vecchio Continente. I due leader hanno però trovato un nuovo accordo per un cessate il fuoco, che dovrebbe estendersi lungo la linea tracciata dall’autostrada M4, arteria fondamentale che collega Aleppo alla costa, e che sarà pattugliata congiuntamente da militari turchi e russi (come del resto accade lungo i confini dei territori che la Turchia ha occupato durante l’ultima operazione militare nel nord est siriano). Ma pensare che questo accordo sia qualcosa di definitivo, o anche solo di medio termine, sarebbe un grave errore.

La guerra in Siria ci ha infatti abituati a dover pensare alle distinzioni semantiche tra le parole che utilizziamo, a cominciare da quella tra “accordo” e “soluzione”: termini che in passato eravamo un po’ troppo abituati a sovrapporre. Una distinzione che si è andata allargandosi dopo tutti gli “accordi” stretti nell’ultimo biennio all’interno del cosiddetto gruppo di Astana, in particolare tra Mosca e Ankara. Se quest’ultimo accordo, come quelli simili che l’hanno preceduto, serve infatti a fermare le ostilità per qualche tempo, esso non ha nulla a che fare con qualunque soluzione di lungo periodo alla più lunga e grave crisi del Medio Oriente moderno. I grandi nodi che hanno portato a quest’ultima escalation di violenza sono infatti ancora tutti sul tavolo, e, come accade nel football americano, quella stretta mercoledì a Mosca sembra null’altro che un’interruzione momentanea, che permetta alle squadre di riallinearsi prima della prossima azione.

Il nodo più importante che le parti in causa non sembrano in grado di sciogliere è infatti quello della spartizione di fatto del paese, che nessuno vuole nominare (anzi, nel comunicato di Mosca si ribadisce, in modo surreale, l’impegno delle parti a mantenere l’unità della Siria) ma che ormai è sempre più un dato di fatto. Una spartizione motivata certamente dai desideri di potenza della Turchia – determinata a non lasciare che il nord siriano ritorni a essere come in passato una base operativa per azioni dell’insorgenza curda e, perché no, a usare revanscismi neo-ottomani per conquistare consenso nazionalista – ma soprattutto da ragioni molto pratiche, che hanno a che fare col destino di oltre 3 milioni di persone. È questo il numero di civili siriani, perlopiù fuggiti da altre aree riconquistate dal regime nel passato biennio, ora sfollati a Idlib. Una massa di individui in gran parte già fuggiti diverse volte da altri luoghi del conflitto e disposti a fuggire ancora piuttosto che rischiare carcere e persecuzione sotto l’autorità di Assad. Quest’ultimo da parte sua, ha fatto capire chiaramente di non avere alcun desiderio di riprendere con sé milioni di potenziali oppositori al suo regime, già gravemente debilitato da defezioni e crisi economica, ma di puntare comunque alla riconquista dell’intero territorio siriano. Una volontà che lascia a queste persone solo l’opzione di un’ulteriore fuga verso la Turchia, che ospita al suo interno già oltre 3,5 milioni di siriani (di gran lunga di più dell’Europa intera) e che è decisa a non accoglierne altri. È questa contraddizione la radice del problema che il trio di Astana non è mai stato in grado di risolvere, e che con ogni probabilità porterà già nei prossimi mesi a una nuova ripresa delle ostilità.

Fino ad ora, infatti, lo schema di Astana è fondamentalmente servito a dare un ordine concordato tra potenze straniere a una risoluzione militare del conflitto: da una parte la Russia otteneva le zone di de-escalation che hanno permesso ad Assad di concentrare le proprie forze e riconquistare una ad una le ultime sacche controllate dall’opposizione mentre, dall’altra, la Turchia otteneva luce verde da Mosca per chiudere i conti con la militanza curda nel nord siriano. Tutto ciò che questi attori stranieri non potevano risolvere, in particolare il grande nodo di Idlib e dei milioni di sfollati interni che non possono tornare sotto Assad, è stato metodicamente posticipato, accordo dopo accordo.

La ragione di questo continuo procrastinare è molto semplice: per risolvere un nodo del genere – che oltre i 3 milioni di Idlib riguarda anche gli oltre 5 milioni di siriani fuggiti all’estero e che in gran parte non sembrano intenzionati a tornare in Siria a queste condizioni – la soluzione militare dovrebbe fare spazio a un processo politico volto a ricercare un compromesso minimo di convivenza tra le diverse parti della società siriana. Ma nulla di tutto questo è stato finora possibile, come dimostrato dai continui fallimenti di ogni iniziativa intrapresa dagli emissari ONU che si sono susseguiti. Soprattutto da quando quello di Astana si è instaurato come framework unico di management del conflitto è infatti chiaro come una soluzione militare concordata tra  attori stranieri sia l’unico approccio sul tavolo, e che ogni processo politico tra attori siriani, come il Comitato Costituzionale lanciato a Ginevra nel 2019, non possa essere altro che un copertura cosmetica a quanto già deciso sul campo di battaglia o in capitali straniere. Non a caso anche l’accordo di giovedì cita esplicitamente solo i punti concordati tra i governi di Russia e Turchia, non menzionando il governo siriano o altri attori locali in nessun modo. Questo è lo stile a cui ormai ci siamo abituati, soprattutto da quando le capitali europee hanno più o meno passivamente deciso di lasciare a Mosca, Ankara e Teheran la gestione di un conflitto alle porte del Mediterraneo. Ed è importante prepararci all’idea che dopo questo accordo le ostilità riprenderanno non molto in là nel tempo; e che la minaccia di una nuova ondata di profughi verso la Turchia, e da quest’ultima verso l’Europa, è solo rimandata.

Non è solo la mancanza di scrupoli di Erdogan che ha messo nelle mani di Ankara l’arma di ricatto dei profughi, milioni di persone intrappolate in paesi che non li vogliono, spesso in condizioni disperate. È stata soprattutto una scelta, più o meno consapevole, dell’Europa, che anche in questa occasione non sembra in grado di capire che il problema dei milioni sfollati siriani non risiede né ad Ankara né al confine greco, ma in Siria, in una crisi senza fine che abbiamo deciso di ignorare.

Autore: 

Eugenio Dacrema

Eugenio Dacrema
Acting co-head, ISPI MENA Centre

Source URL (modified on 06/03/2020 - 19:38): https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/siria-laccordo-turchia-russia-e-gli-errori-delleuropa-25349