Vertice OPEC: ora è Mosca l’ago della bilancia?

Il vertice OPEC e non/OPEC, tenutosi a Vienna nei primi due giorni del mese di luglio, si conclude con una sostanziale conferma della solidità dell’asse fra Ryad e Mosca. Questa è ormai l’unica possibile coalizione che può condurre, stante le attuali condizioni, le politiche dei principali paesi produttori di greggio al mondo, Stati Uniti esclusi. Lo stato di salute di OPEC non è dei più rosei, eppure la congiuntura internazionale è d’aiuto al mantenimento delle politiche vigenti. Se la conferma dell’accordo rassicura i mercati, una lenta ma costante tensione può essere avvertita, dentro e fuori l’organizzazione, mentre il suo futuro appare tutt’altro che roseo.
Il consenso raggiunto nel dicembre del 2018, per un taglio complessivo della produzione di 1,2 milioni di barili di produzione giornaliera, sarà alla base, perlomeno dei prossimi 9 mesi, dell’accordo OPEC-non/OPEC. Sino a marzo 2020 assisteremo quindi ad un concerto internazionale dei paesi firmatari, decisi a limitare le proprie compagnie di bandiera, calmierare la produzione e rallentare “artificialmente” l’intero settore. L’obiettivo rimane il medesimo del 2016, ovvero il rialzo dei prezzi al barile. Nel giorno della conferma i prezzi hanno visto continuare imperterrita la tendenza negativa dei 4 giorni precedenti, segnando un -4,52% del Brent e un -4,75% del WTI (tipo di petrolio prodotto in Texas). Un segnale che i mercati sono tutt’altro che ricettivi alle rassicurazioni che arrivano da Vienna e che le molte incognite internazionali, sia politiche che economiche, continuano ad incombere sul mercato del greggio. Soltanto oggi i prezzi degli indici stanno vedendo qualche modesto rialzo.
Eppure il mantenimento dei tagli è parso negli ultimi mesi tutt’altro che scontato, soprattutto viste le differenze evidenti fra i primi due contraenti del patto. Il Fondo Monetario Internazionale stima infatti che per l’anno corrente l’Arabia Saudita necessita di un prezzo al barile attorno gli 80-85 dollari. Nell’ottobre 2018 si è arrivati sino a 86 dollari ma le instabilità geopolitiche e la continua spinta della produzione di shale oil americano hanno fatto scendere nuovamente i prezzi ai livelli attuali. L’ambizione del principe saudita Mohammad bin Salman richiede alle finanze del paese uno sforzo ulteriore per imprimere nuova crescita ad un’economia eccessivamente dipendente dagli idrocarburi. Per il 2019 sono previsti poco meno di 300 miliardi di dollari di spesa pubblica, un incremento del 7,3% rispetto il 2018 e una misura che vuole da una parte frenare la disoccupazione, ai livelli più alti nell’ultima decade, al 12,5% nel primo quadrimestre di quest’anno, e allo stesso tempo ridare slancio alla crescita interna.
Ecco allora che entra in gioco il supporto di Mosca, il primo produttore di greggio ai tempi della prima firma dell’accordo e che rimane tuttora il partner fondamentale per Ryad nel centrare l’obiettivo del rialzo del prezzo del greggio. Non ha stupito dunque che l’annuncio del proseguimento dell’attuale taglio sia giunto proprio durante il G20 di Osaka e non a Vienna. A rendere nota la decisione non è stato però un rappresentante di un paese membro di OPEC ma lo stesso presidente russo Vladimir Putin. Durante una conferenza stampa ed a domanda diretta, Putin ha confermato la soluzione positiva dei negoziati con la controparte saudita, non specificando però se la scadenza del nuovo patto fosse a 6 o 9 mesi. Un segnale politico importante, rivelatore della grande forza con cui Mosca ora può condizionare il mercato degli idrocarburi. Uno strumento che può essere speso in diverse forme a livello internazionale, favorendo intese politiche e diplomatiche che vanno al di là del campo energetico e che assiste la proiezione globale dell’influenza del Cremlino, che può invece sopportare un prezzo al barile attorno i 40-50 dollari per un periodo sostenuto. Lo stesso incontro di Vienna, previsto inizialmente per il 25-26 giugno, era stato posticipato a dopo il G20 di Osaka e il summit fra Putin e Mohammad bin Salman. Un altro inequivocabile gesto delle capacità attuali della Federazione Russa.
Secondo Bloomberg, per la prima volta dal 1991 e dall’invasione del Kuwait, a margine degli attuali tagli previsti OPEC produrrà meno del 30% del petrolio a livello mondiale, una soglia fisica ma anche psicologica, che indica quanto, in questo momento, l’alleanza fra i tradizionali paesi produttori sia in difficoltà e quanto invece il nuovo baricentro del mercato petrolifero si trovi al di fuori di essa. D’altronde è uno stesso membro di OPEC a richiamare l’attenzione sul diminuito ruolo del gruppo. Il ministro del Petrolio iraniano Bihan Zanganeh, nonostante il supporto del suo paese alla sigla dell’accordo, avverte che l’unilateralismo del dominio russo-saudita minaccia l’esistenza stessa dell’Organizzazione.
Nel frattempo una “Carta per la cooperazione” nel lungo periodo fra i firmatari dell’intesa OPEC+ sarebbe ormai vicina al completamento. L’intento è quello di formalizzare il coordinamento degli ultimi anni e portare i 24 paesi sottoscrittori, la cui produzione di petrolio ammonta a circa la metà di quella mondiale, a ratificarne singolarmente le delibere, ancora poco chiare.
Il grande assente al tavolo di Vienna rimane Washington e il coinvolgimento della sua industria petrolifera, la cui produzione è arrivata, nel mese di aprile, a toccare il record assoluto di 12,2 milioni di barili al giorno. Mai gli Stati Uniti avevano prodotto un simile quantitativo di petrolio; una leadership che, viste le condizioni attuali del mercato, pare impossibile sfidare. Un tassello che momentaneamente gioca a favore della politica più timida e disinvolta in Medio Oriente adottata dall’amministrazione Trump, il cui proseguimento è certamente supportato, attualmente, dalla stabilità dell’asse russo-saudita.