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Xi Jinping e il libero scambio: i fatti a due anni dai proclami di Davos

Mercoledì, 23 gennaio, 2019 - 16:45
Cosa è cambiato

Martedì 22 gennaio si è aperto a Davos il World Economic Forum 2019 e la Cina sarà al centro dei principali gruppi di lavoro, come ormai da molti anni a questa parte. Tuttavia molto è cambiato da quando nel gennaio di due anni fa, all’indomani dell’elezione di Donald Trump come 45° presidente degli Stati Uniti, il suo omologo cinese Xi Jinping si ergeva proprio al World Economic Forum di Davos quale difensore e paladino del libero commercio, quasi in modo speculare rispetto all’impostazione economica della nuova amministrazione statunitense.

Di fronte alla paura di un vuoto di leadership economica, non ancora colmato e tipico dei periodi di transizione caratterizzati dall’incertezza e dalla volatilità, le parole del presidente cinese vennero allora accolte dalla comunità internazionale con favore, a tratti eccessivo.

Sebbene non mancarono all’epoca, come non mancano oggigiorno, i dubbi sulla capacità di Pechino nel fare il “Grande Balzo in Avanti” per prendere il testimone americano, ciò che rimane un incognita riguarda soprattutto il modello di globalizzazione che Pechino desidera portare avanti, ergendosi a “champion of which globalization?”, come in un recente report curato da ISPI.

La Cina è stata uno dei principali beneficiari della globalizzazione made in U.S.A., in particolare a partire dalla sua adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) nel 2001 quando, attratti dalla prospettiva di un mercato immenso come quello cinese, i paesi occidentali accettarono le promesse di riforma e di liberalizzazione fatte da Pechino.

Dal 2001, numerosi sono stati i passi avanti fatti, sia in termini di maggior trasparenza e certezza del diritto che in termini di riduzione delle barriere tariffarie. I dazi sulle merci importate in Cina sono passati da una media di oltre il 20% nel 2001 ad una media attuale di poco superiore all’8%. Una riduzione sostanziale, anche se lontana dalle medie occidentali, ammontando a quasi il triplo degli Stati Uniti (2,8%) e più del doppio dell’ Europa (3,1%). Le principali critiche nei confronti della Cina si sono rivolte piuttosto nei confronti della sua politica di apertura selettiva al commercio internazionale, unita alle numerose barriere non tariffarie e pratiche discriminatorie contrarie agli impegni presi in sede di adesione all’ OMC.

Come identificato dall’Office of the United States Trade Representative (USTR) cosi come dalla Commissione dell’Unione Europea, la Cina rappresenta ad oggi il paese con il maggior numero di problematiche e ricorsi presentati di fronte all’organo di conciliazione dell’OMC. Molte misure sono state tollerate dai paesi occidentali anche dopo la crisi economica del 2008 quando, sotto la presidenza di Hu Jintao, venne varato un piano di riconversione dell’economia cinese a favore di una maggiore crescita dei consumi interni che, si riteneva, avrebbero costituito il motore principale di rilancio dell’economia globale. Tuttavia, a partire dal 2012, la nuova presidenza di Xi Jinping ha intrapreso una nuova politica più assertiva, volta a sfidare la supremazia tecnologica degli Stati Uniti attraverso il piano Made in China 2025. Per fare ciò sono state poste in essere ed implementate misure in campo industriale e commerciali stigmatizzate dall’attuale amministrazione americana come predatorie.

Nella Relazione del 2018 dell’USTR, il primo problema di maggior rilievo menzionato è quello dei trasferimenti forzosi di tecnologia e proprietà intellettuale. Sin dal 2010, Pechino ha promesso che le imprese straniere sarebbero state libere di basare le proprie decisioni in tema di trasferimento a controparti cinesi di tecnologia e proprietà intellettuale esclusivamente sulla base di considerazioni di convenienza di mercato. Nonostante le reiterate promesse, tali pressioni persistono, soprattutto a livello locale dove le autorità continuano non solo a vincolare o a condizionare l’approvazione di certe autorizzazioni e la protezione degli investimenti stranieri al trasferimento di tecnologia a condizioni vantaggiose ma anche a mantenere preferenze negli appalti pubblici a favore dei prodotti con tecnologia sviluppata in Cina. Sempre sullo stesso tema poi, a destare problemi sono una serie di misure volte a proteggere l’industria locale attraverso un regime di limitazione degli investimenti esteri attraverso misure quali “equity caps”, vincoli di costituzione di joint venture, approvazioni discrezionale caso per caso di requisiti amministrativi e concessioni di licenze commerciali condizionate.

Un altro dossier evidenziato dalla Relazione dell’USTR riguarda la politica di sussidi a favore dell’industria locale e la loro mancata notifica all’OMC. Come sottolineato dalla Relazione, la politica dei sussidi legata all’approccio dirigista dell’economia cinese ha determinato un “unprecedently severe non economic excess capacity situation in several industries”, come nella produzione di acciaio, alluminio e carbonato di sodio dove la Cina, nonostante non disponga di particolari vantaggi comparati, è riuscita a controllare circa metà della produzione mondiale e a distorcere i prezzi internazionali spesso anche attraverso pratiche di dumping.

Allo stesso tempo, la Cina pratica una politica di restrizioni all’esportazione di terre rare, minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico, sui quali Pechino detiene quasi un monopolio. Obiettivo: favorire l’industria nazionale e/o spingere le imprese straniere a trasferire la propria produzione in Cina. Restrizioni all’esportazione di beni primari od intermedi prodotti in Cina vengono poi effettuate anche in modo indiretto attraverso aumenti o riduzioni dei rimborsi dell’IVA delle merci esportate.

Anche il dossier legato agli standards di produzione riveste una importanza crescente per i rapporti commerciali con la Cina. La Cina sta implementando misure e standard nazionali diversi da quelli internazionali già esistenti o del tutto nuovi come nel caso di produzioni di nuove tecnologie. L’adozione di uno standard piuttosto che un altro determina una sorta di controllo monopolistico da parte di colui il quale lo ha introdotto. Di conseguenza, standards diversi su stessi prodotti o tecnologia sono suscettibili di frammentare il mercato e di disintegrare la rete di produzione globale. In caso di successo l'implementazione di standard tecnologici nazionali alternativi costringerà le imprese multinazionali ad adeguare la loro formulazione di strategie di ingresso sul mercato cinese ed in un’ottica di lungo periodo di adottare gli standard cinesi a livello globale. Questo spiega il tentativo di Pechino di veicolare i propri standard attraverso la Belt and Road Initiative ma anche il crescente conflitto tra Stati Uniti e Cina sul 5G.

Per quanto riguarda i prodotti che richiedono la conformità agli standard cinesi come il CCC, può anche accadere che per ottenere tale certificato, la fabbrica deve essere ispezionata a spese dell'esportatore attraverso un processo lungo, costoso e non sempre risolutivo i cui ritardi nell’approvazione offrono un'ottima opportunità per immettere sul mercato cinese contraffazioni di prodotti esteri.

La Cina usa poi la carta di accesso al proprio mercato come strumento per convincere i governi o le imprese estere a scendere ad accordi. Specie nel settore dei servizi tuttavia si riscontrano notevoli problematicità. Questo è il caso per esempio dei servizi di pagamento elettronico e in particolar modo del settore bancario dove la Cina ha imposto numerosi requisiti discriminatori e non trasparenti che hanno limitato l’espansione di banche estere, come ad esempio requisiti patrimoniali più stringenti o limitazioni nel tipo di attività.

Sostanziali sono poi le limitazioni nel campo delle TLC dove la recente Cybersecurity law adottata nel 2017, impone che in determinati settori prodotti e tecnologia siano sicuri secondo criteri soggetti ad una certa dose di discrezionalità politica, che escludono cosi forniture estere.

Infine, ambito dalle crescenti problematicità è rappresentato dal modo restrittivo e non trasparente in cui viene regolato Internet. Questo può implicare ad esempio danni considerevoli per le imprese estere che si affidano a servizi “cloud” cross-border e connessioni a data center esteri non ammessi in Cina. Analoghi danni riguardano il sistema cinese di “web-filterning and blocking” e le sue conseguenze sia sulle imprese estere che forniscono che quelle che usufruiscono di servizi e prodotti “web-based”. Limitazioni riguardano anche i servizi VOIP e trasferimenti di informazioni e dati cross-border che necessitano di data storage locali. A destare particolare preoccupazione è la crittografia, un ambito sempre più importante per la protezione dei dati sensibili. In Cina, la Cybersecurity law impone procedimenti particolarmente intrusivi di approvazione ed in molti casi, come ad esempio per WiFi e per prodotti TLC, richiede l’uso di tecnologia cinese.

Di fronte ai dazi americani e al rallentamento dell’economia cinese, Pechino ha promesso di rivedere la propria politica commerciale fin anche ritardando l’implementazione del piano Made in China 2025. I negoziatori americani hanno più volte manifestato la loro frustrazione di fronte al fatto che in ogni round negoziale si ottenevano concessioni da parte di Pechino ma che allo stesso tempo si ritrovavano spesso come nel gioco dell’oca sempre allo stesso punto, dovendo ridiscutere altre nuove misure adottante nel frattempo dalla controparte cinese.

Cosa accadrà, si vedrà a partire da marzo, quando scadrà la tregua commerciale stabilita de Trump. Da ogni parte ci si augura comunque che si arrivi ad un vero accordo che fughi i “darkening skies” per l’economia globale prospettati nel Global Economic Outlook 2019 della Banca Mondiale.

Autore: 

Alberto Belladonna

Alberto Belladonna
Ispi Research Fellow, Geoeconomia

URL Sorgente (modified on 24/06/2021 - 20:26): https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/xi-jinping-e-il-libero-scambio-i-fatti-due-anni-dai-proclami-di-davos-22071