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Commentary

10 anni dopo: l'Iraq non è più il perno geopolitico Usa

19 marzo 2013

Qualcuno l’ha definita il più costoso monumento di hybris imperiale dell’epoca contemporanea. E davvero l’enorme, smisurata ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad – pensata per essere il cuore pulsante della presenza americana nel paese dopo l’invasione del 2003 – testimonia della distanza fra le ambizioni statunitensi e quanto realizzato effettivamente. Il “nuovo Iraq” sorto sulle ceneri del regime di Saddam Hussein avrebbe dovuto essere la manifestazione massima di forza e volontà politica della super-potenza statunitense, il perno geopolitico attorno al quale ridisegnare completamente l’assetto del Medio Oriente in senso liberale e democratico. Al contrario, i sanguinosi lunghi anni seguiti all’attacco anglo-americano di dieci anni fa hanno certificato l’incapacità “imperiale” di Washington e accentuato l’inizio del declino del momento unipolare che aveva caratterizzato la fine della guerra fredda. È quasi sorprendente constatare quindi la perdita d’influenza e di capacità di condizionare il governo iracheno di Nuri al-Maliki, nonostante oltre sette anni di massiccia presenza militare, migliaia di morti e ancor più feriti, enormi spese e investimenti economici.

Ma gli errori politici, militari e di pianificazione della guerra al regime di Saddam Hussein sono stati sostenuti soprattutto dalla popolazione civile che ha pagato un prezzo spaventoso per essere liberata dal crudele dittatore che la opprimeva: oltre alle centinaia di migliaia di morti e feriti e ai milioni di sfollati e di rifugiati all’estero, vi è stata la devastazione di buona parte delle infrastrutture del paese, l’aumento esponenziale della criminalità e della violenza – che in alcune aree è ormai considerata endemica – e la diffusione di un odio settario di matrice etno-religiosa che ha trasformato profondamente le relazioni fra le diverse comunità irachene e che rappresenta forse il frutto più avvelenato di questo tragico decennio.

Eppure sarebbe ingiusto addossare tutte le colpe del fallimentare dopo-guerra all’Amministrazione Bush. Al di là di tutti i loro errori, gli americani avevano finalmente rimosso uno dei dittatori più crudeli del XX secolo, offrendo all’Iraq la possibilità di scegliersi una nuova classe politica. Purtroppo, i nuovi rappresentanti delle varie comunità irachene hanno dimostrato di non essere molto meglio dei loro predecessori, con la politica irachena che si caratterizza tuttora per una corruzione sfrenata e per la ricerca ossessiva del potere personale. In tale contesto le linee di frattura etno-religiose sono state spesso state usate come arma politica dai leader politici e delle milizie per rafforzare la propria autorità e capacità negoziale. Il primo ministro Nuri al-Maliki, in particolare, ha mostrato una tendenza all’autoritarismo e alla prevaricazione delle confuse e mal scritte norme costituzionali che non può che preoccupare. Lo scontro politico fra fazioni ha prodotto una paralisi della ricostruzione del paese, tanto che ancora oggi molti iracheni devono confrontarsi con la mancanza di energia elettrica o la penuria d’acqua.

A peggiorare il quadro ha contribuito l’atteggiamento dei paesi confinanti, i quali hanno spesso usato il territorio iracheno per le loro proxy war, contribuendo a diffondere l’odio settario fra arabo-sunniti e arabo-sciiti o esasperando la contrapposizione identitaria fra arabi e curdi. La guerra civile in Siria, poi, sembra sempre più coinvolgere Baghdad, che si è schierata a favore del regime di Assad, con il rischio che il contagio siriano possa far riesplodere le violenze.

A mitigare la negatività del bilancio di questo decennio, vi è la ripresa della produzione petrolifera, che fornisce al governo centrale di Baghdad e a quello curdo regionale di Erbil le risorse per stabilizzare la situazione e per evitare l’esplosione dello scontento sociale. Ma è fondamentale che queste fragili conquiste non vengano vanificate dalle lotte intestine della classe politica e che la ricchezza non venga nuovamente dissipata in progetti faraonici e controproducenti, nel riarmo delle forze armate o nell’ulteriore diffusione del modello clientelare del rentier state. Al contrario, i proventi del petrolio possono e devono servire per ripristinare le infrastrutture dello stato e favorire la crescita delle fragili strutture produttive.

* Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 Andrea Plebani, docente presso il Dipartimento di Scienze storiche e filologiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 Autori di "L'Iraq contemporaneo", Carocci Editore, dicembre 2012.

 

Leggi il Dossier "Il ritorno di Obama in Medio Oriente"

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USA politica ambientale americana Barack Obama Iraq Iran sicurezza Medio Oriente Saddam Hussein Nouri al Maliki Bush guerra civile Siria curdi Petrolio
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