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L'anniversario

11 settembre 2001, il giorno che cambiò le relazioni internazionali

Ugo Tramballi
11 settembre 2020

La Storia si fonda sui fatti accaduti, non sulle ipotesi. Ma se alla fine del 2000, lo scrutinio dei voti alla Dade County fosse andato diversamente, il presidente eletto sarebbe stato Al Gore, non George W. Bush. E molte altre cose avrebbero preso un verso differente. Allo spoglio finale il candidato repubblicano aveva 271 voti elettorali, il democratico 266. Mancavano i 25 della Florida, diventati determinanti. A chi dovessero andare lo avrebbero deciso i voti contestati della contea di Dade, praticamente il centro di Miami. Quel pugno di schede, solo 1.784, avrebbe stabilito chi doveva diventare presidente degli Stati Uniti.

Lo stallo durò un paio di mesi. Sarebbe continuato se Al Gore non avesse deciso di fare un passo indietro per garantire la stabilità del sistema americano. George Bush diventò il 43° presidente. Circa nove mesi più tardi, l’11 settembre 2001, due aerei di linea furono dirottati e scagliati contro le torri gemelle di Manhattan, un altro contro il Pentagono. Un quarto, lo UA93, precipitò in Pennsylvania dopo che i passeggeri avevano cercato di fermare i dirottatori: l’obiettivo era probabilmente la cupola del Campidoglio.

L’attacco terroristico di al-Qaeda provocò 2.977 morti, le sue conseguenze militari e geopolitiche centinaia di migliaia di più. L’America cambiò, mettendo in discussione le sue stesse libertà civili. Il Medio Oriente implose. E’ difficile per i contemporanei stabilire quale avvenimento determini, sia pure teoricamente, il passaggio da un evo a un altro. L’11 Settembre forse lo sarà, come la scoperta dell’America del 1492 o la caduta dell’Impero romano d’Occidente del 476. Ma quella data già rappresenta l’inizio del mutamento, se non della fine, del primato globale degli Stati Uniti. Il XXI secolo che nei suoi primi vent’anni ci ha regalato l’11 Settembre, una crisi finanziaria mondiale, le rivoluzioni arabe, l’emergenza migratoria e una pandemia, difficilmente sarà un secolo americano.

Osama bin Laden e i suoi accoliti non avrebbero mai potuto immaginare un successo così clamoroso della loro azione. Non tanto nell’organizzazione, nella colpevole distrazione dell’Fbi, e nell’esecuzione degli attentati, quanto nelle sue conseguenze politiche. E’ difficile pensare che il capo di al Qaeda avesse previsto la dinamica successiva degli eventi e soprattutto il comportamento dell’amministrazione americana. Già il 16 settembre parlando davanti alle macerie delle torri di New York, George Bush usò la definizione di “war on terror”; il 7 ottobre, a meno di un mese dagli attentati, iniziò l’offensiva in Afghanistan, una “guerra per necessità”: l’Afghanistan era il santuario di al Qaeda e i Talebani si rifiutavano di consegnare i suoi capi.

Tutto ciò che seguì, tuttavia, debordò dal concetto di necessità e progressivamente diventò una scelta ideologica sempre più impegnativa. Già il 26 ottobre del 2001 il presidente aveva presentato il Patriot Act fra le cui righe appariva chiara l’intenzione di intaccare le libertà civili americane in nome della sicurezza nazionale. Il 16 luglio dell’anno successivo, in una conferenza stampa alla Casa Bianca, Bush svelò i suoi piani per combattere il terrorismo sul suolo americano, chiarendo il prezzo che avrebbero pagato le libertà individuali e collettive degli americani. Il segretario di Stato Colin Powell e la consigliera per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice lo scoprirono guardando la conferenza stampa di Bush alla Cnn. A novembre, la nascita del dipartimento della Homeland Secutiry avrebbe garantito al nuovo grande apparato per della sicurezza interna la forza istituzionale di un ministero.

Powell e Rice non facevano parte del circolo ristretto di neoconservatori che stavano definendo le politiche e gli obiettivi della “war on terror” dentro e fuori i confini degli Stati Uniti: il vicepresidente Dick Cheney, il segretario alla Difesa Don Rumsfeld, Elliot Abram, Richard Perle. Soprattutto Paul Wolfowitz la cui importanza ideologica era di gran lunga superiore alla sua carica di vice segretario alla Difesa. Gli interessi dell’apparato militare-industriale e delle grandi imprese petrolifere si sovrapponevano all’idealismo neo-imperialista di Wolfowitz.

Il suo piccolo ufficio al Pentagono non svelava l’importanza del suo vero ruolo nell’amministrazione Bush. Dietro la scrivania c’era un quadro della battaglia di Antietam, la più sanguinosa della Guerra Civile. Era per questo che la teneva appesa al muro, “per ricordare che il nostro compito è impedire inutili massacri”. Nessuna potenza rimane tale per sempre, mi disse in un’intervista. “Come l’impero romano, anche quello americano è destinato a esaurirsi. Dobbiamo sfruttare i 20/40 anni che ci rimangono per mettere ordine nel mondo”. 

Per gli uomini attorno a Bush l’11 Settembre non era stata solo una tragedia nazionale ma anche un’insperata opportunità. L’invasione dell’Iraq, ufficialmente chiamata “liberazione”, era il frutto di questo ideale imperiale di diffondere il modello economico e politico americano attraverso l’uso della sua forza militare. “Imporre la democrazia con le armi è un ossimoro”, avrebbe fatto notare Madeleine Albright, segretaria di Stato della seconda amministrazione Clinton.

Era strana l’atmosfera nei primi anni successivi all’11 Settembre fino alla “liberazione” di Bagdad, avvenuta con un blitzkrieg che gli eventi successivi avrebbero disilluso. Ancora scossa dagli attentati, la stampa americana aveva abdicato al suo ruolo critico. In Campidoglio anche alcuni deputati e senatori avevano votato a favore della guerra in Iraq: fra questi Joe Biden e Hillary Clinton. “Il pericolo non è che stiamo facendo troppo”, scriveva il polemista neocon Bill Kristol. “Il pericolo è che stiamo facendo troppo poco”.

Anche in Italia chi criticava l’amministrazione Bush rischiava di essere denunciato come fiancheggiatore di Bin Laden e Saddam Hussein, volutamente affiancati come fossero sodali in uno stesso disegno. A Washington era in corso una gigantesca opera di disinformazione dalla quale una quindicina di anni più tardi Donald Trump avrebbe tratto grande ispirazione.

Il terrorismo di matrice islamica - prima al Qaeda e poi l’Isis - non avrebbe più avuto la forza di colpire il territorio americano. Ma la destabilizzazione dell’Iraq e le onde d’urto di quel conflitto nel resto della regione, gli aprirono in Medio Oriente spazi prima impensabili. E’ difficile affermare che se la contea di Dade avesse eletto Al Gore tutto questo non sarebbe accaduto. Ma è legittimo pensare che con lui la risposta americana all’attacco terroristico sarebbe stata più calibrata, più politica e meno militare. Alle elezioni successive, nel 2004, il candidato democratico era John Kerry: anche lui aveva votato a favore della guerra in Iraq. Ma come Biden e Clinton, aveva cambiato idea e incominciato a capire i pericoli della “War on terror” per lo stesso sistema americano.

In un’intervista al magazine del New York Times, il candidato democratico aveva affermato che bisognava “destrutturare” la minaccia terroristica, riducendola a una piaga come la droga o la prostituzione: da perseguire con l’azione poliziesca e politica, senza mobilitare le forze armate e cambiare il modo di vivere degli americani. Kerry non fu ascoltato, vinse di nuovo George Bush e gli effetti dell’11 Settembre continuarono a far danni per altri quattro anni. Quasi un ventennio più tardi, una conseguenza è anche Donald Trump che nel 2016 fece campagna elettorale contro “la palude di Washington” che aveva portato l’America al fallimento in Afghanistan e al disastro iracheno. In uno dei dibattiti finali della deprimente campagna contro Joe Biden, Trump certamente gli ricorderà il suo vecchio voto a favore della guerra in Iraq.

Verso la fine dell’età repubblicana, Cicerone scrisse che a Roma “la repubblica era simile a un quadro dipinto con arte suprema ma ormai sbiadito dal tempo. La nostra epoca non ha solo trascurato di portarla ai primitivi colori: non si è nemmeno presa la pena di preservarne i disegni e le linee di contorno”. E’ un epitaffio che potrebbe andar bene anche per gli Stati Uniti di oggi.

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AUTORI

Ugo Tramballi
ISPI Senior Advisor

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