Al centro delle cronache nell’ultima fase della Guerra fredda, quando fu teatro di conflitti armati tra movimenti di liberazione sostenuti dal blocco sovietico e regimi bianchi appoggiati dall’Occidente, la regione australe rappresenta oggi l’area più stabile del continente africano. Nell’era della democrazia e della liberalizzazione economica, il connubio tra la robustezza delle istituzioni politiche ed economiche ereditate dai regimi coloniali e la forte legittimazione dei nuovi governi neri ha risparmiato agli stati della regione gran parte delle tribolazioni che, nonostante i progressi iniziati dagli anni Novanta, continuano a caratterizzare l’area subsahariana. A sud dello Zambesi, “fallimenti dello stato”, interventi umanitari, insurrezioni armate e colpi di stato restano (quasi) sconosciuti.
Per quanto i paesi dell’Africa australe si posizionino nelle zone alte delle classifiche internazionali che misurano la salute delle istituzioni liberali e dell’economia di mercato – da quelle di Freedom House e Polity IV al Corruption Perceptions Index, fino all’indice di political risk dell’Ocse – le democrazie dell’area rimangono però “incompiute” rispetto a una dimensione cruciale che le dottrine sulle transizioni considerano la prova finale del consolidamento del modello liberale: l’alternanza al governo tra maggioranza e opposizione. Tutti i principali stati della regione, infatti, sono tuttora governati dai partiti saliti al potere al momento dell’indipendenza o dello smantellamento del regime segregazionista – l’African National Congress (Anc) in Sudafrica, il Botswana Democratic Party (Bdp), il Frente de Libertação de Moçambique (Frelimo), la South West African People’s Organization (Swapo) in Namibia, la Zimbabwe African National Union (Zanu-Pf).
Da questo punto di vista, la tornata elettorale che nel corso del 2019 interesserà la maggior parte dei paesi dell’area non sembra destinata a cambiare le cose. Le elezioni presidenziali e parlamentari tenute in Zimbabwe nel luglio scorso, le prime della serie, hanno sancito definitivamente la fine dell’era di Robert Mugabe, ma non quella dello Zanu-Pf, che sotto la guida del suo ex braccio destro Emmerson Mnangagwa ha avuto ancora una volta la meglio, in una votazione non immune da contestazioni, sull’opposizione del Movement for Democratic Change.
Più o meno lo stesso, salvo soprese clamorose, avverrà anche negli altri quattro stati attesi all’appuntamento elettorale. In Sudafrica, la chiamata alle urne prevista nella prima metà del 2019 porterà quasi certamente alla riconferma del nuovo leader scelto dall’Anc tra il 2017 e il 2018, Cyril Ramaphosa. Ex leader sindacale, ex negoziatore di Mandela ed ex imprenditore di successo gradito ai media finanziari internazionali, dopo aver scalzato Jacob Zuma dal vertice del partito e poi dall’ufficio presidenziale, Ramaphosa si avvia a ottenere anche l’investitura popolare. Le discussioni sulla fattibilità e le conseguenze della riforma agraria annunciata, un po’ a sorpresa, dal nuovo presidente non hanno destabilizzato un’economia cui l’agricoltura contribuisce oggi solo per il 3% del Pil, né minato la fiducia degli investitori, che nella mossa hanno visto un tentativo di tenere sotto controllo la frangia populista cresciuta a sinistra del partito di governo. Gli entusiasmi che negli ultimi anni dell’era Zuma avevano circondato la Democratic Alliance (Da), il principale partito di opposizione, inducendo una parte della classe media nera ad abbandonare l’Anc nelle elezioni municipali del 2016, sembrano essersi affievoliti: nonostante la scelta del giovane leader nero Mmusi Maimane, la Da continuerà probabilmente a mantenere il sostegno delle minoranze bianca e meticcia e il controllo della regione di Cape Town; ma difficilmente riuscirà a strappare ulteriori consensi all’Anc nella maggioranza nera e nel nord del paese.
Cambiamenti drammatici non sembrano in vista nemmeno in Botswana e Namibia, in cui le elezioni sono previste tra ottobre e novembre. In Namibia, dalle urne uscirà certamente la riconferma del presidente uscente Hage Geingob, subentrato nel 2015 a Hifikepunye Pohamba (successore, a sua volta, del padre della patria Sam Nujoma, ritiratosi dopo tre mandati presidenziali nel 2005). La Swapo, il partito sorto dal movimento di liberazione nero fondato nel 1960, può contare sul sostegno granitico della popolazione ovambo, che rappresenta metà dell’elettorato, e continua a guardare gli oppositori dall’alto di un consenso che, dopo la prima elezione nel 1990, si è sempre mantenuto al di sopra del 70%, superando nel 2014 addirittura la soglia dell’80%. Divisa e priva di leadership, l’opposizione ha perso negli anni la capacità di minacciare seriamente l’egemonia del partito di governo. La Democratic Turnhalle Alliance (Dta), il cartello moderato che negli anni Ottanta e Novanta sembrava poter rappresentare un’alternativa alla Swapo, si dibatte in una crisi da cui sta cercando di uscire sotto la guida del giovane leader McKinsey Venaani (classe 1977), anche attraverso il cambiamento del proprio nome.
Nemmeno in Mozambico, dove si voterà in ottobre, il lungo predominio del Frelimo, iniziato dopo l’indipendenza dal Portogallo nel 1975 e sopravvissuto anche al passaggio al regime multipartitico, in seguito agli accordi di Roma promossi dalla comunità di S. Egidio nel 1990, sembra essere prossimo a una conclusione. Dopo la fine degli scontri armati riaccesisi nel 2013 e il rientro della Resistência Nacional Moçambicana (Renamo) nella competizione elettorale, le recenti elezioni locali hanno confermato le difficoltà dell’opposizione di affermarsi al di fuori delle proprie roccaforti storiche nelle province centrali. Il presidente Filipe Nyusi, cresciuto all’interno del Frelimo e proveniente dal nord del paese, dove la scoperta di riserve di gas naturale ha attirato l’attenzione dell’Eni e di altri colossi dell’energia, pare poter garantire al partito di governo, dopo il ritiro di Armando Guebuza nel 2014, l’ulteriore prolungamento della propria egemonia.
Meno scontato appare il risultato in Botswana, sebbene siano alte le probabilità che il Bdp, al potere dal 1965, si confermi per l’ennesima volta alle urne. Nell’aprile scorso, il presidente Ian Khama, figlio del primo presidente Seretse Khama e dell’inglese Ruth Williams, ha ceduto il potere dopo dieci anni a Mokgweetsi Masisi, suo ministro dell’istruzione, che si è sforzato di modernizzare l’immagine del governo ponendo in cima ai suoi obiettivi la lotta alla disoccupazione e la diversificazione di un’economia caratterizzata da tassi di sviluppo “asiatici” ma basata sulla sola produzione di diamanti. Nonostante gli effetti della crisi mondiale, le buone condizioni complessive del paese, che fin dagli anni Sessanta ha sempre viaggiato su ritmi di crescita più alti della media africana, rendono più ardua la ricerca di un’alternativa. Il lancio di un fronte unitario tra i quattro maggiori partiti di opposizione, nella speranza di superare gli ostacoli posti dal sistema maggioritario, è stato incoraggiato dalla discesa del Bdp al di sotto del 50% dei seggi nelle ultime due tornate elettorali, ma potrebbe non bastare.
Non sembra dunque che, nell’Africa australe, il 2019 possa essere l’anno del tramonto del regime pluralistico a partito dominante affermatosi con l’avvento della democrazia. Come il caso dello Zimbabwe ha dimostrato bene, l’alternanza al governo sembra presentare ancora troppi rischi per la sopravvivenza dei delicati equilibri politici ed economici su cui si reggono le società della regione. Dalle urne potrà uscire un rinnovamento dei volti, non un cambio dei partiti al potere, la cui funzione stabilizzante appare tuttora priva di alternative.