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Commentary
25 marzo 1957, Trattati di Roma: una svolta anche per le donne
Valeria Palumbo
22 marzo 2017

Il trattato firmato a Roma il 25 marzo 1957, che segna la nascita della Cee, la Comunità economica europea, è un parto plurigemellare. Sancisce, per esempio, per la prima volta un principio economico fondamentale: la parità salariale. Che la Comunità europea si occupasse anche dei diritti delle donne era tutt’altro che scontato. Fu un grande risultato.

La dichiarazione universale dei diritti umani, proclamata dall’Onu il 10 dicembre 1948, conteneva una generica affermazione della parità dei diritti (art. 1: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza). La parola “donne” vi appariva una sola volta, all’articolo 16 e in riferimento al matrimonio. Per il resto parlava di “individui”.

A volte, si sa, non basta. E così, nel Trattato di Roma, all’articolo 119 – inserito nel capitolo sulle disposizioni sociali – si stabilisce l’obbligo per gli Stati membri di rispettare il principio della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici per uno stesso lavoro. L’articolo fu poi modificato con l’articolo 141 del Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997:

“Ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest’ultimo…”.

L’articolo 141 stabilisce poi nei dettagli che cosa implichi la parità di retribuzione:

“a. che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura.

b. che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro”

Nel 1957 l’articolo 119 fu inserito nel Trattato su richiesta della Francia che già riconosceva nel proprio ordinamento la parità salariale. Forse non furono soltanto motivi ideali a spingere il governo francese: Parigi temeva la concorrenza sleale. 

Nel 1951 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) aveva a sua volta approvato la “Convenzione sull’uguaglianza di retribuzione tra la manodopera maschile e la manodopera femminile”.

In questo modo aveva riaffermato sul piano internazionale un principio di cui si era discusso già nel Primo dopoguerra: nel corso della Prima guerra mondiale le donne avevano avuto accesso a molte professioni un tempo solo maschili. Per quanto, con il ritorno dei reduci, la maggioranza fosse stata rimandata a casa, molte erano rimaste al loro posto. E la Seconda guerra mondiale, accompagnata dall’evoluzione del costume e seguita dall’affermazione della democrazia, aveva rafforzato il fenomeno (benché gli anni Cinquanta furono, di nuovo, anni di “ritorno a casa” per le donne occidentali). 

In realtà, l’entrata in vigore del Trattato Cee non produsse alcun cambiamento di rilievo negli Stati membri. A metà degli anni Sessanta la differenza di retribuzione tra i sessi era ancora molto elevata. Così, nel quadro del primo programma d’azione sociale (1973), il Consiglio dei ministri della Cee approvò una direttiva sul

“ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile”.

L’articolo 3 della direttiva stabiliva, in particolare, che

“Gli Stati membri sopprimono le discriminazioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile derivanti da disposizioni legislative regolamentari o amministrative contrarie al principio della parità delle retribuzioni”. 

In più, l’articolo 4 della direttiva affermava che

“Gli Stati prendono le misure necessarie affinché le disposizioni contrarie al principio della parità delle retribuzioni e contenute in contratti collettivi, tabelle o accordi salariali o contratti individuali di lavoro siano nulle, possano essere dichiarate nulle o possano essere modificate”. 

Da allora la Cee prima, poi la Comunità europea e, infine l’Unione europea, sono dovute ancora tornare sul tema, con sempre più frequenza negli anni Duemila. Fra l’altro il Trattato di Amsterdam del 1997 ha chiarito che

“Allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedono vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”. 

I risultati non sono del tutto soddisfacenti. A tutt’oggi, secondo dati pubblicati nel 2016 dal Sole 24 Ore, e relativi all’Italia (che ufficialmente ha una discriminazione salariale molto più bassa rispetto a gran parte dei paesi Ue, compresi Svezia e Paesi Bassi), le italiane guadagnano in media il 12,2% meno degli italiani: la differenza scende al 10% fra i non laureati e sale addirittura al 36,3% tra i laureati. Ma il principio è ormai riconosciuto universalmente. A Roma, quel 25 marzo, si apriva davvero un’epoca nuova. Anche per le donne.

 

Valeria Palumbo, ISPI, RCS e storica del movimento femminile

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Valeria Palumbo
ISPI, RCS e storica del movimento femminile

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