Negli ultimi 40 anni l’11 settembre è stato foriero di due eventi fortemente traumatici: l’ultimo è stato l’attentato terroristico alle torri gemelle del 2001 che ha innescato una spirale di guerra ancora ben lungi dall’essersi conclusa.
Il precedente ci porta invece nel Cile del ’73, in cui un cruento colpo di stato militare mise brutalmente fine al governo di Allende e alla sua via cilena al socialismo, inaugurando la cupa dittatura di Pinochet, con il corredo di morte e persecuzione che le è valso un posto di eccellenza tra i regimi più spietati del dopo-guerra. Tutto ciò aggravato dal costo sociale di una sperimentazione economica che nessun beneficio postumo ha potuto risarcire.
La via al socialismo stava fallendo, certo; ma era stata spinta sul baratro anche dall’imperativo politico americano che non poteva accettare un Cile nell’orbita sovietica col rischio di contagio su altri pezzi del suo “dominio riservato” sudamericano.
I 40 trascorsi non possono far dimenticare questa fucilazione della democrazia; con le sue vittime e i suoi esuli, monito di puntuale attualità; con la nemesi che ha portato, dopo 15 lunghi anni, alla sconfitta di Pinochet con «una matita», come pubblicizzava la campagna del referendum nazionale indetto nel 1988; e con la simbolica coincidenza della fine della dittatura di Pinochet con quella della guerra fredda che l’aveva co-generata.
Il colpo di stato era stato accompagnato da un non trascurabile consenso trasversale che la dittatura cercò di consolidare, integrando repressione con maldestre strumentalizzazioni che finì per alimentare un clima di polarizzazione ai limiti della conflittualità civile, rispecchiandosi inoltre nella percentuale di voti raccolti dall’alleanza politico-militare che si riconosceva nel regime.
Altra ragione per dover ricordare è che il Cile ri-conquistato alla democrazia è riuscito a superare tutto ciò facendo del forte messaggio di riconciliazione della campagna elettorale un concreto impegno alla ricucitura della profonda divisione del paese. Obiettivo che implicava un tale sforzo di mediazione e di accettazione da sembrare irraggiungibile.
Lo affermo con cognizione di causa, giacché ho avuto il privilegio di rappresentare l’Italia tra l’86 e l’89, nella fase cioè che si sarebbe rivelata la più nevralgicamente positiva per il ritorno della democrazia: dalla furiosa reazione del regime al fallito attentato a Pinochet del settembre ’86, alle sue furbesche aperture alla cultura – dai teatri semiclandestini (ricordo “il postino” di Skarmeta) ai luoghi di ritrovo musicale dove si faceva mascherata campagna anti-regime – alla stessa attività politica dove giganteggiarono Alwyn, Ricardo Lagos, Frei, Silva Cimma, P. Hales, ecc.
Si dischiusero anche le porte a provvidenziali presenze politiche internazionali quali l’Assemblea parlamentare per la democrazia in Cile.
Ne beneficiò anche la chiesa, quella militante dell’indimenticabile Raul Silva Enriquez, fondatore della gloriosa Vicaria de la Solidaridad, e quella concertativa di Fresno, determinante nella unifica-zione delle forze politiche di opposizione.
Non ne ebbe mai bisogno la diplomazia vaticana, real-politicamente vicina al regime e all’origine della discussa visita del Papa – con l’infausta immagine del balcone con Pinochet – anche se penso che essa sia stata alla fine più a favore delle forze democratiche.
Sento tutto il mio orgoglio, anche adesso, per aver servito, assieme ai miei predecessori, la causa della democrazia e di averlo fatto da Incaricato d’affari, non da Ambasciatore, cioè da un gradino di rango inferiore ma per me di superiorità politico-morale anche perché l’altra scelta avrebbe implicato un previo gradimento del regime che dal ’73 in avanti l’Italia non aveva voluto più né richiedere né ottenere. Diversamente dai più grandi paesi occidentali che, pur critici del regime, sfoggiavano ambasciatori di rango e addetti militari.
Con la certezza esaltante che Governo, Parlamento, società civile, l’Italia tutta insomma, mi stessero permanentemente a fianco.
Grazie anche a ciò i miei rapporti con gli esponenti della futura democrazia cilena e con coloro che li sostenevano, laici e religiosi, intellettuali e artisti, ebbero un’intensità irripetibile; nei momenti propizi come in quelli più critici e pericolosi, più per loro, naturalmente, che per me. Con la storica Residenza d’Italia, che mi è felicemente toccato di riaprire, divenuta punto d’incontro e di riferimento per tutta quella società cilena. Al punto da essere scelta da esuli militanti come luogo dove attendere l’esito del referendum. In una notte di cui ricordo ogni istante e soprattutto l’interminabile momento in cui si sparse la voce di movimenti militari per soffocarne l’esito, impediti dall’intervento, si seppe dopo, del capo dell’aviazione.
Poi, le travolgenti ore di felicità liberatoria seguite alla conclamata, anche dal regime, vittoria del «no». Quindi la strada in discesa delle elezioni del presidente della Repubblica Alwyn, l’anno dopo.
All’epoca fui facile presago dichiarando a Ricardo Lagos, mattatore della campagna elettorale del 1988 ma anche spaventata vittima della polizia segreta, e a Eduardo Frei, degno erede del più famoso padre, che sarebbero stati i suoi successori.
Un’ultima annotazione: un grazie speciale ad Alessandro Cevese, mio prezioso collaboratore, deceduto prematuramente in Sud Africa.