70 anni di NATO: sfide e prospettive dell’Alleanza Atlantica | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Focus

70 anni di NATO: sfide e prospettive dell’Alleanza Atlantica

Annalisa Perteghella
|
Giorgio Fruscione
04 aprile 2019

La NATO celebra il suo settantesimo anniversario. Molte cose sono cambiate da quel 4 aprile del 1949: la Guerra fredda, motivo per cui era nata l’alleanza stessa, è finita da trent’anni; il continente europeo non è più l’unico teatro d’intervento. Ma, soprattutto, le relazioni transatlantiche attraversano oggi un momento di grandi incertezze. Non è un caso infatti che le celebrazioni dell’anniversario a Washington si siano tenute a livello di ministri degli Esteri, mentre la cerimonia tra i capi di stato e di governo si terrà a Londra in autunno.
Com’è cambiato il ruolo della NATO in questi 70 anni? Il suo compito è ancora attuale? Quali sono le sfide interne all’Alleanza?

 

Adattarsi per sopravvivere: perché la NATO è ancora importante?

Il commento di Giancarlo Aragona, ex Presidente ISPI

La NATO è tuttora indispensabile per la sicurezza dei suoi membri e quale sostegno della stabilità internazionale, ma l’avvento alla Casa Bianca di un Presidente isolazionista ed unilateralista, che si era spinto a mettere in discussione la clausola di difesa solidale dell’art.5 del Trattato Atlantico, ha rinfocolato gli interrogativi sulla ragion d’essere di una Alleanza nata con il confronto Est Ovest.

Dopo la scomparsa dell’URSS, il quadro strategico globale ha subito profonde modifiche, cui la NATO si è progressivamente adattata, tra salvaguardia della missione originaria di difesa collettiva e acquisizione di funzioni nuove, correlate alla comparsa di minacce o rischi alla sicurezza dei suoi membri di tipo diverso da quelli tradizionali.

Per essere rilevante anche in futuro, l’Alleanza dovrà continuare ad essere adattabile, non disperdendo il patrimonio acquisito e recependo nuove esigenze ed obiettivi. Dovrà anche evitare che lo sbiadirsi della memoria della massiccia minaccia sovietica, collante della solidarietà e della coesione, e, adesso, l’apparente minor impegno di Washington ad imprimere fermi indirizzi all’Alleanza favoriscano la manifestazione di differenti priorità e valutazioni tra i membri. Deve eliminare alcune fragilità come la bassa spesa militare degli Europei, trovare un giusto equilibrio tra industrie europee e americane per le commesse militari, la problematica posizione della Turchia. Leggi il commentary

 

I paesi europei dovrebbero spendere di più?

Il presidente statunitense Donald Trump ha più volte rinfacciato agli alleati europei il fatto che gli Stati Uniti siano costretti a sostenere la spesa più alta per la NATO facendo di fatto pagare la sicurezza europea ai contribuenti americani. Tuttavia è bene fare delle precisazioni. Ciò a cui fa riferimento Trump è in realtà il budget statunitense stanziato per la propria difesa, intorno al 3,5% del PIL, cioè circa 706 miliardi di dollari.

La questione del burden sharing è stata un tasto dolente sin dalla creazione dell’Alleanza atlantica negli anni Cinquanta. Ancora oggi, sono solo quattro i paesi UE che superano la soglia di spesa del 2% del PIL: Grecia, Regno Unito, Estonia e Lettonia. Negli ultimi anni gli stati europei si sono impegnati ad avvicinarsi gradualmente a tale soglia, simbolo delle richieste americane verso chi spenderebbe troppo poco. È tuttavia significativo che la Germania abbia annunciato di volere raggiungere la soglia del 2% solo entro il 2030.

Le spese per la difesa nazionali non sono però un buon indicatore dell’effettivo contributo di ciascun paese alla NATO: ogni membro potrebbe infatti spendere di più o di meno per ragioni di sicurezza nazionale che poco hanno a che fare con la sicurezza collettiva degli alleati (per esempio, le spese americane per le missioni in Afghanistan e Iraq, o le spese turche per l’impegno in Siria e la difesa di Cipro nord). Un indicatore migliore potrebbe essere la percentuale del budget per la difesa che viene effettivamente destinato alle spese dirette dell’Alleanza. Nel caso degli Stati Uniti, la spesa a favore del Patto Atlantico nel 2018 ammontava a circa il 22% del totale delle spese NATO. La spesa comprende: contributi diretti per finanziare alcune funzioni collettive dell’Alleanza come la difesa dello spazio aereo Nato, i sistemi di comando e controllo, le spese amministrative e di gestione fino ai costi della presenza militare statunitense nella basi militari in Europa. I contributi diretti vengono formalmente suddivisi tra i paesi membri in base al Reddito nazionale lordo (RNL), ripartizione che spesso però non viene rispettata. Infatti, sulla base del RNL gli Stati Uniti dovrebbero contribuire per oltre il 50% alle spese comuni, mentre (come detto) i loro versamenti coprono solo il 22% del totale. Secondo questo criterio, l’Italia dovrebbe contribuire per il 5%, mentre i suoi contributi ammontano a oltre l’8% del totale.

Un secondo indicatore per valutare il contributo di ciascun alleato alla NATO potrebbe essere il numero di soldati che mette a disposizione nelle missioni dell’Alleanza, messo in relazione alle sue dimensioni economiche. I dati mostrano che molti paesi europei fanno più di quanto dovrebbero in rapporto alla propria forza economica. In questo senso l’Italia è tra i più “virtuosi”, insieme a Romania e Turchia. Tra i meno virtuosi ci sono invece la Francia (che preferisce destinare i propri soldati unicamente a missioni a guida francese) e altri paesi europei come Germania e Spagna.

 

 

Non solo Europa: la NATO e le operazioni Out of Area

I Balcani, a vent’anni dal primo intervento

È nella regione balcanica che inizia l’impegno attivo della NATO in Europa, imponendosi di fatto sulla diplomazia targata UE. Nel 1995, l’aviazione atlantica interviene nel conflitto in Bosnia-Erzegovina colpendo le postazioni serbo-bosniache che da quattro anni tenevano Sarajevo sotto assedio e portando le parti agli Accordi di pace di Dayton. Nel 1999, invece, l’alleanza atlantica interviene, senza avallo della Nazioni Unite, per mettere fine alle operazioni di pulizia etnica portate avanti dalla Serbia di Slobodan Milosevic contro gli albanesi del Kosovo. Vent’anni fa, quindi, il bombardamento della Jugoslavia – ridotta a Serbia e Montenegro – inaugurò una nuova era per le relazioni internazionali, dettata dall’interventismo. Fu la prima volta che, di fatto, l’alleanza atlantica aprì un fronte di guerra in Europa. Da allora, la NATO ha intensificato la propria presenza nei Balcani. Prima nel 2009, con l’ingresso di Albania e Croazia, e poi nel 2017 con l’inclusione del Montenegro, con la quale l’alleanza si è garantita la presenza su tutti gli sbocchi europei sul mar Mediterraneo. Una strategia geopolitica che sfida indirettamente il soft power della Russia, che da sempre vede nei Balcani una propria naturale zona d’influenza. Ad oggi, questa è limitata alla sola Serbia, dove la NATO rimane altamente impopolare per via del ricordo vivo dei bombardamenti, anche se nel 2016 Belgrado ha firmato un accordo di collaborazione con l’Alleanza.

Una piena integrazione è invece prevista per la Macedonia del Nord, dopo la ratifica dell’Accordo di Prespa che ha messo fine alla ventennale disputa del nome con la Grecia, che ne bloccava l’accesso.

Quanto al Kosovo, paese che ha proprio nella NATO e negli Stati Uniti i principali sponsor della sua indipendenza, la presenza è garantita dalla base militare di Bondsteel, quartier generale della missione internazionale KFOR, a guida NATO. Tuttavia, la nascita lo scorso dicembre di un esercito kosovaro non ha incontrato l’approvazione dell’Alleanza che, per voce del suo segretario generale Jens Stoltenberg, ha espresso preoccupazione non solo per le ripercussioni nei rapporti con la Serbia, ma per la stabilità di tutta la regione balcanica.

 

Dall’Afghanistan al Mediterraneo: le operazioni in Medio Oriente

Quanto al Medio Oriente e al Nord Africa, la NATO è o è stata impegnata nella regione con diverse missioni. In Afghanistan, su mandato del Consiglio di Sicurezza ONU, venne costituita nel 2001 la missione ISAF, che è rimasta attiva fino al 2014 con il compito di proteggere Kabul e la vicina base aerea di Bagram. Questa è stata sostituita nel 2015 dalla missione “Operazione Supporto Risoluto”, che affianca le forze afghane nel mantenere la stabilità del paese senza ingaggiare combattimenti diretti ma attraverso attività di supporto logistico, tecnico e di addestramento del personale militare locale.

Di natura simile è stata la “NATO Training Mission Iraq” costituita nel 2004 e chiusa nel 2011. Come richiesto dal governo iracheno, questa aveva l’obiettivo di coordinare lo sviluppo e la formazione delle forze armate di Baghdad attraverso la costruzione di accademie militari e la condivisione del proprio know-how. L’obiettivo di lungo termine era quindi lo sradicamento della minaccia terroristica nella regione, nonché una sua stabilizzazione, volta anche al contrastare gli effetti di spill-over all’interno del continente europeo.

In Libia, invece, la NATO è intervenuta militarmente con l’operazione “Unified Protector” durata dal marzo all’ottobre 2011, quando venne ucciso il colonnello Muammar Gheddafi, e aveva l’obiettivo di salvaguardare l’embargo sulle armi e la zona d’interdizione al volo, così come proteggere la popolazione civile.

Di natura meno intensiva sono invece le missioni NATO previste dalla Istanbul Cooperation Initiative nata nel 2004 e volta alla condivisione delle pratiche migliori in campo militare e di polizia tra l’alleanza atlantica e quattro paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC): Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Qatar e Kuwait. A ciò si aggiungono numerosi accordi di cooperazione bilaterale tra la NATO e i paesi non membri affacciati sul mar Mediterraneo. Lo stesso Mediterraneo è protetto dalla missione “Sea Guardian” condotta in sinergia con l'operazione “Sophia” dell’Unione Europea e in coordinamento con le iniziative della Guardia Costiera e di Frontiera “Frontex”, ai fini di supporto e assistenza nel contesto della gestione delle crisi migratorie nel mar Egeo.

 

Le spaccature interne all’Alleanza

Se è vero che per sopravvivere l’Alleanza deve adattarsi ai cambiamenti dello scenario internazionale, è vero anche che esistono diversi nodi da sciogliere all’interno dell’Alleanza stessa. In particolare, sono tre le questioni che sembrano mettere sotto pressione la coesione interna tra i membri NATO: il ruolo degli Stati Uniti ai tempi dell’ ”America first”, le divergenze tra i membri più esposti alle minacce provenienti dal fianco est dell’Alleanza (la Russia) e quelli più esposti invece alle nuove minacce provenienti dal fronte sud (traffici illeciti, terrorismo), e infine il ruolo sempre più ambiguo giocato dalla Turchia all’interno dell’Alleanza.

Per quanto riguarda l’incertezza sollevata dall’attuale postura statunitense nei confronti dell’Alleanza, essa è strettamente connessa alla fase di incertezza che attraversa in questo momento le relazioni transatlantiche stesse. La preferenza del presidente Trump per un approccio unilaterale e transazionale alle relazioni internazionali – che lo ha portato ad esempio a ritirare gli Usa dall’accordo di Parigi sul clima e da quello sul nucleare iraniano – ha sollevato timori tra gli alleati circa il fatto che Trump potesse effettivamente dare seguito alla minaccia di ritirare gli Usa dalla NATO in quanto giudicata troppo costosa e poco conveniente per gli interessi statunitensi. Se a rassicurare gli alleati è intervenuto il Congresso – che lo scorso gennaio ha approvato 357 a 22 un atto che reitera il sostegno Usa alla NATO e che impedisce che fondi federali vengano utilizzati per abbandonare l’organizzazione – permane comunque un senso di smarrimento che contribuisce a convogliare all’esterno l’immagine di un’Alleanza non più così coesa, e di un paese, gli Usa, pronti a mettere in dubbio la possibilità di intervenire effettivamente a sostegno degli alleati qualora questi fossero effettivamente minacciati. La retorica molto aspra di Trump nei confronti dell’Alleanza diverge in qualche modo dalla realtà dei fatti. Infatti, dall’inizio dell’amministrazione Trump, gli Usa hanno aumentato la loro presenza militare in Europa: il budget dedicato alla “European Deterrence Initiative” è quasi raddoppiato, passando dai 3,4 miliardi di dollari del 2017 ai 6,5 del 2019. Tuttavia, l’Europa non può non prendere atto di una tendenza in atto ormai da diversi anni all’interno del dibattito politico statunitense, solo portata all’estremo – e su un piano retorico più aspro – da Trump: la percezione di dedicare troppe risorse ad alleati che avrebbero la possibilità di fare di più per la propria difesa, mentre altrove sorgono attori – come la Cina – che rappresentano la vera sfida per gli Usa del futuro.

Ulteriore faglia interna all’alleanza è quella che vede da una parte i paesi dell’est – i Baltici e la Polonia – e i paesi del Sud. Per i primi è ancora la Russia a rappresentare la principale minaccia alla propria sicurezza e integrità territoriale. Una percezione, questa, che si è rafforzata dopo gli eventi in Ucraina e Crimea del 2014, e che è alimentata dall’attuale clima di reciproco sospetto nelle relazioni tra l’Occidente e la Russia in seguito al caso Skripal e allo spinoso dossier dell’interferenza russa nelle elezioni presidenziali americane del 2016. Per i secondi, la minaccia principale è invece rappresentata dalle ricadute negative delle situazioni di instabilità e conflitto nel Medio Oriente e nel Nord Africa, ovvero l’aumento della pressione migratoria, l’incremento della minaccia terroristica, così come la minaccia rappresentata da traffici illeciti di altra natura – narcotraffico e traffico di esseri umani – che proliferano in contesti di frammentazione delle strutture statuali. Va da sé che le risposte a questi due tipi di minacce – la Russia da una parte e attori non statuali dall’altra – sono diverse, e pertanto è richiesta una riflessione circa quali strumenti predisporre per rispondere in modo efficace a entrambi i tipi di minaccia.

Infine, la trasformazione del ruolo della Turchia nell’Alleanza, che va di pari passo con la trasformazione impressa dal presidente Recep Erdogan alla politica estera e di difesa del paese, attraverso una postura sempre più assertiva. L’intervento militare diretto di Ankara nel conflitto siriano allo scopo di contrastare la presenza curda lungo i suoi confini meridionali – percepita come una minaccia alla sicurezza nazionale – ha sollevato timori di uno scontro con Washington, alleata invece delle forze curde nella lotta allo Stato islamico; questo elemento, insieme alla possibilità ventilata da Erdogan negli scorsi mesi di acquistare missili S-400 dalla Russia, ha ulteriormente contribuito al deterioramento della fiducia reciproca all’interno dell’Alleanza. Se da una parte la Turchia continua a guardare alla NATO come un’alleanza indispensabile per la propria sicurezza, dall’altra Erdogan è arrivato negli scorsi mesi a mettere in discussione la permanenza della Turchia nell’Alleanza se Trump non avesse rimosso le sanzioni imposte nell’agosto 2018 ai ministri della Giustizia e degli Interni turchi in seguito alla detenzione in Turchia del pastore Brunsen. Il caso si è risolto nel novembre scorso, ma le relazioni tra Ankara e Washington rimangono tese, con evidenti ripercussioni sull’Alleanza.

 

La NATO e le sfide del futuro

L’Europa tra Cina e Usa

Ma tra le evoluzioni necessarie alla sopravvivenza dell’Alleanza vi è quella dell’adattamento all’evoluzione dell’ordine internazionale. Un ordine internazionale che riflette sempre meno il ruolo degli Usa come egemone globale, e sempre più l’ascesa di nuovi attori, portatori di istanze e valori diversi da quelli dell’ordine liberale. L’ascesa cinese e la crescente penetrazione economica e commerciale di Pechino nel continente europeo rappresenta una tendenza in atto da anni recenti e destinata ad aumentare, con chiare implicazioni anche sul piano politico e, in futuro, anche militare, dal momento che la Cina rappresenta il principale competitor di Washington nella realizzazione di tecnologie per la difesa. Per il momento l’interesse cinese per l’Europa è prettamente di natura economica e commerciale: gli investimenti diretti esteri annuali di Pechino nel nostro continente sono aumentati vertiginosamente nell’ultimo decennio, passando da 840 milioni di dollari nel 2008 a 42 miliardi nel 2017, e il mercato europeo, con i suoi 500 milioni di persone e il 25% del pil globale, rappresenta una delle destinazioni di maggiore interesse per il progetto infrastrutturale cinese di Nuova via della seta (Belt and Road Initiative, BRI). In Europa, e in misura ancora maggiore a Washington, vi è il timore che la crescente interconnessione economica e commerciale possa trasformarsi in influenza politica, fino a creare situazioni di vera e propria dipendenza da Pechino. In parte, alcuni esempi in questo senso si sono già manifestati, come nel caso del veto della Grecia (uno dei paesi maggiormente esposti all’influenza cinese), nel giugno 2017, a una dichiarazione europea presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) sulle violazioni dei diritti umani da parte della Cina, che ha rappresentato il primo caso nella storia in cui l’Unione Europea non è riuscita a produrre una dichiarazione comune presso l’UNHRC. L’erosione della coesione politica all’interno dell’Alleanza anche in risposta al cambiamento degli equilibri economici e commerciali all’interno del continente europeo è dunque uno dei trend da tenere in considerazione per determinare le linee di sviluppo futuro dell’Alleanza; strettamente connesso a questo è l’esigenza di potenziare la coesione transatlantica in considerazione del fatto che la grande sfida geostrategica del 21° secolo è destinata a essere proprio la competizione tra Usa e Cina.

La minaccia cyber

Ulteriore evoluzione internazionale è la crescente importanza dell’elemento cyber, che sta diventando sempre più rilevante nell’agenda per la sicurezza della NATO, tanto che già nel 2016 i paesi membri avevano riconosciuto lo spazio cibernetico come il quinto dominio delle operazioni militari e dunque parte integrante delle priorità dell’alleanza in termini di difesa collettiva. A partire da quel momento sono state sviluppate diverse iniziative volte a garantire una capacità operativa e strategica dell’organizzazione nello spazio cibernetico. Tra queste, vi è stata l’adozione del Cyber Defense Pledge, per sincronizzare e coordinare i vari paesi che però agiscono e rispondono in virtù della loro sovranità nazionale, e l’istituzione dei Counter Hybrid Support Teams volti a supportare gli stati membri nel rispondere efficacemente ad aggressioni di natura ibrida. Tuttavia, vi sono delle sfide peculiari in questo dominio sulle quali la NATO dovrà lavorare a fondo nel prossimo futuro.

In primo luogo, nonostante la NATO abbia affermato che le norme di diritto internazionale si applicano anche al mondo cyber, rimane aperta la questione dell’attribuzione dei responsabili di un attacco cibernetico in un ambiente dove l’ambiguità e l’incertezza sono diffuse. Le difficoltà in materia sono molte, in primis l’incapacità molto spesso di comprovare il mandante di un attacco cyber che nel caso di uno stato si serve di attori non statali per effettuarlo. A ciò si lega la questione di quali contromisure siano legittime per rispondere ad un attacco in questo dominio.  

Il secondo aspetto sul quale la NATO dovrà concentrare i suoi sforzi in ambito cibernetico è quello di aumentare il coinvolgimento di altri paesi al di fuori dell’organizzazione. Infatti, la cooperazione internazionale è cruciale in questo dominio per almeno due motivi. Da un lato per la necessaria raccolta di dati di intelligence che rappresentano un elemento prezioso per contrastare le minacce cibernetiche. Dall’altro la cooperazione internazionale è necessaria per condividere best practices, ricerca e formazione al fine di migliorare interoperabilità e coordinamento per la sicurezza dello spazio cibernetico. La NATO, perciò, dovrà non solo intensificare le relazioni, già consolidate, con l’Unione Europea e con altre nazioni chiave (come Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud), ma anche con nuovi paesi e attori privati.

Ti potrebbero interessare anche:

Tempesta d’Europa
Inflazione, clima, salute: il piano Biden è legge
Trumpeide
Ugo Tramballi
ISPI senior advisor
FBI a caccia di documenti in casa Trump
Capitol Hill: “Trump scelse di non agire”
L'inflazione è qui per restare?

Tags

relazioni transatlantiche Nato Donald Trump
Versione stampabile
 
EUROPA 2019

A cura di

Annalisa Perteghella
ISPI Research Fellow
Giorgio Fruscione
ISPI Associate Research Fellow

Ricerca e redazione

Giorgia Gusciglio, ISPI Research Trainee

Uberto Marchesi, ISPI Research Assistant

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157