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Regno Unito

Accordo Brexit: un altro no da Westminster

Antonio Villafranca
30 marzo 2019

Nel giorno che avrebbe dovuto sancire l’uscita di Londra dall’Unione europea la situazione è più incerta che mai. Anzi se possibile si fa ancora più complicata. Il governo inglese era andato alla disperata ricerca di un cavillo giuridico che gli fornisse una via fuga da una empasse da cui nessuno sa come uscire.

Dopo aver offerto nei giorni scorsi le proprie dimissioni se l’accordo di recesso raggiunto con l’Unione europea (già clamorosamente bocciato due volte) venisse finalmente approvato, Theresa May ha cercato di ottenere il sì di Westminster aggiungendo che si sarebbe limitata a chiedere di approvare almeno una parte dell’accordo stesso.

In effetti l’accordo si compone di due parti. La prima è l’accordo di recesso propriamente detto che è la parte giuridicamente vincolante e definisce i termini del divorzio dall’Ue: diritti dei cittadini, ammontare che Londra deve alle casse di Bruxelles, periodo di transizione fino a dicembre 2020, ma anche il controverso ‘backstop’ sull’Irlanda del Nord che nei fatti prevede che la regione rimanga nel Mercato unico europeo, mentre il resto del Regno Unito ne potrebbe restare fuori.

La seconda parte è la Dichiarazione politica, che non è giuridicamente vincolante e indica il futuro dei rapporti tra Regno Unito e Unione Europea. Per evitare che il backstop sull’Irlanda del Nord si traduca in una regolamentazione differente tra la regione e il resto del Regno Unito (e quindi anche in controlli sulle merci che transitano tra i due) questa Dichiarazione prevede che il Regno Unito rimanga all’interno di una unione doganale con l’Ue finché un’altra soluzione (al momento non meglio specificata) non verrà trovata. Una soluzione - definita in un crescendo di complessità il ‘backstop al backstop’ - che quindi non mette limiti di tempo a un rapporto piuttosto stretto tra Londra e Bruxelles e che non piace per nulla ai Brexiteers.

La May ha così tentato la carta dello ‘spacchettamento’ anche perché l’approvazione del solo accordo di recesso le avrebbe permesso di rispettare la richiesta del Consiglio europeo per la concessione di una proroga di Brexit fino al 22 maggio.

Ma è stato tutto inutile perché Westminster ha detto per la terza volta no all’accordo con l’Ue con 344 voti contrari e 286 a favore.

In questo scenario lo spetto di un Brexit senza accordo si avvicina di nuovo. Il 12 aprile è la data ultima concessa dal Consiglio europeo a Londra per chiarire che strategia alternativa intenderà perseguire su Brexit per ottenere una proroga più lunga. Questa data di metà aprile rappresenta il limite temporale massimo, perché in caso di una proroga lunga (qualunque periodo oltre maggio) il Regno Unito rimarrà all’interno dell’Unione europea e quindi, in quanto Paese membro, dovrà partecipare alle elezioni del Parlamento europeo del prossimo maggio. E un mese circa è proprio quanto necessario alla Gran Bretagna per prepararsi alle elezioni europee.

A questo punto a Londra si continuerà a discutere e a votare, ancora e ancora, su proposte alternative, e non sono esclusi ulteriori colpi di scena (come le dimissioni della May già chieste dai laburisti). A Bruxelles ci si appresta a decidere il da farsi (concedere o meno una proroga ‘lunga’ alla Gran Bretagna) attraverso un Consiglio straordinario che il Presidente Tusk ha già annunciato per il 10 aprile.

Due anni di inutili negoziazioni sono quindi passati, ma Londra non è ancora riuscita a capire né come fare ad uscire dall’Unione né quando farlo.

Rispetto alla promessa dei Brexiteers - “let’s take back control” - il risultato a oggi è quello di un Paese che sembra andato fuori controllo.

 

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Corrispondente RAI per il Regno Unito

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EUROPA 2019

AUTORI

Antonio Villafranca
ISPI Research Coordinator and Co-Head, Europe and Global Governance Centre

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