Dall’intesa con l’Australia (novembre 2011) sull’invio di 2500 marines nella base di Darwin, primo passo verso la costruzione di una cornice militare per la strategia del Pivot to Asia, sono dovuti trascorrere quasi tre anni – a parte le facilities ottenute da Singapore – perché il presidente Barack Obama facesse il secondo passo: l’accordo di “difesa rafforzata” con le Filippine stipulato il 28 aprile a margine della sua visita nell’arcipelago. E un tempo così lungo può apparire un segnale della difficoltà dell’Amministrazione americana nell’individuare i mezzi più congrui per dare sostanza a un obiettivo – il rebalance a favore dell’Asia – che, come ricordavano su Foreign Affairs Kurt Kampbell ed Ely Ratner, è una necessità imposta dagli eventi più che una scelta.
Pur simili per quanto riguarda l’acquisizione del diritto di far stazionare uomini e navi in basi di paesi amici, i due accordi presentano per di più una differenza sostanziale, indicativa della mancanza di una linea precisa lungo la quale muoversi. Una partecipazione più attiva dell’Australia nel sostenere e affiancare gli impegni militari americani, di cui peraltro l’accordo su Darwin rappresentava solo un aspetto e neppure il più importante, è infatti una novità che ben si armonizza con i presupposti del secolo del Pacifico. Fino a un decennio fa Canberra aveva un ruolo marginale nella determinazione degli equilibri strategici che gli Stati Uniti, in chiave bipolare (ai tempi dell’ANZUS - Australia, New Zealand, United States Security Treaty) o più di recente nelle vesti di unica potenza globale, volevano mantenere nel settore Asia-Pacifico. La crescita di questo ruolo dava e dà il senso di un rinnovamento di prospettive e responsabilità tra due paesi non solo alleati, ma anche ideologicamente e politicamente coesi sia sugli obiettivi di sicurezza sia sulla condivisione delle spese.
L’EDCA (Enhanced Defense Cooperation Agreement) con le Filippine suona invece come un ritorno al passato, quello della guerra fredda. In quanto tale, è di difficile gestione dal punto di vista diplomatico per Obama, poiché ripropone un’idea di “contenimento” che va a collidere con la costruzione di un rapporto di fiducia con la Cina. Tornano, infatti, a disposizione delle truppe americane le basi che nell’era Marcos erano la punta di diamante della presenza americana nel settore. Non vengono riconsegnate agli americani Subic Bay e Clark, una possibilità negata dalla Costituzione filippina, ma il ritorno di truppe statunitensi ha un profondo significato simbolico su cui il governo di Manila sembra intenzionato a puntare per dare credibilità al braccio di ferro con Pechino circa i territori contesi nel Mar Cinese Meridionale. Obama ha fatto del suo meglio per negare che attraverso le Filippine gli Stati Uniti vogliano “contrastare o contenere” la Cina, con la quale anzi intendono rafforzare la collaborazione. Inoltre, pur avendo definito l’impegno di proteggere le Filippine «a prova di bomba», si è ben guardato dal chiarire se il Trattato di mutua difesa (TMD, 1951) includa o meno l’obbligo per gli americani d’intervenire anche nel caso in cui a essere attaccate siano le isole Spratly o le secche di Scarborough, la cui sovranità è rivendicata dai cinesi. Un’ambiguità che non poteva non saltare all’occhio e mostrare la sua reale essenza di scelta ponderata, poiché contrastava con la chiarezza sciorinata solo quattro giorni prima nel corso della visita a Tokyo, quando il presidente americano aveva dichiarato che il Trattato di difesa del 1960 con il Giappone copre anche i territori “amministrati”, ovvero le isole Senkaku. Opinionisti attendibili hanno poi chiosato i silenzi di Obama, facendo notare che il TMD risale al 1951 e che quindi non garantisce esplicitamente l’intervento americano in difesa di quei territori sui quali le Filippine non avevano ancora accampato pretese specifiche.
È un fatto, comunque, che le manovre congiunte cominciate il 5 maggio, una settimana dopo la firma dell’accordo, abbiano assunto un aspetto particolare, riproponendo vecchi temi e vecchie paure, con il risultato di accrescere la tensione. «Sono necessarie per rispondere alle minacce rappresentate dagli aggressivi vicini di Manila», ha dichiarato il ministro degli Esteri filippino Albert Del Rosario.
È stato sequestrato dalle autorità filippine un peschereccio cinese che si trovava nelle acque contese e pescava specie marine protette dalla legge filippina. Contemporaneamente – quasi che l’accordo Usa-Filippine lanciasse messaggi minacciosi anche per i paesi limitrofi – due navi cinesi ne attaccavano una vietnamita che tentava di ostacolare le perforazioni petrolifere cominciate nei giorni scorsi dalla China National Offshore Oil Corp. intorno a un altro territorio conteso, le isole Paracel (Xisha). Un brutto segnale per Obama, che sta sfruttando le beghe territoriali che coinvolgono la Cina per guadagnare sicuri alleati, dovendo però evitare che queste si traducano in scontro aperto. Non per nulla l’opposizione interna filippina è stata rapida a rinfacciare al governo del presidente Benigno Aquino di non avere ottenuto alcuna reale copertura militare dagli Stati Uniti, interessati solo alla libertà di navigazione lungo la rotta che conduce allo stretto di Malacca ed esplicitamente neutrali sui diritti di sovranità e di sfruttamento delle risorse dei mari e dei fondali. Sulla medesima lunghezza d’onda sono stati alcuni editoriali di giornali ufficiosi cinesi, dove è apparsa la tesi che quello di Obama è un bluff: di fronte a una drammatica crisi nel Mar Cinese Meridionale, gli Stati Uniti non penserebbero mai d’intervenire militarmente.
Ciò non significa che Obama nelle Filippine abbia compiuto un passo avventato. Forse, anzi, non aveva alternative, in particolare ora che la “guerra fredda” bussa dall’Ucraina. Più che preoccuparsi di un ritorno al passato, avvertiva la necessità di “mostrare la bandiera”, in modo da rassicurare gli alleati circa la concreta capacità e volontà di Washington di proteggerli. Destinatari del messaggio in primo luogo Giappone e Corea del Sud, colonne della presenza americana in Asia Orientale, con i quali in effetti, nel corso della missione asiatica che lo ha portato anche a Manila, ha rinsaldato i legami. Con il Giappone in particolare, se da un lato ha criticato quell’aspetto della rinascita nazionalistica che si traduce nella mancanza di autocritica verso gli errori del passato, ha gradito, dall’altro, l’ormai scontato superamento del pacifismo nato dalla sconfitta e la sua trasformazione in “pacifismo attivo”. Questo significa vendere armamenti (preferibilmente agli amici) e difendere gli alleati in pericolo; e non è un caso che questi nuovi capisaldi della politica estera del governo Abe si traducano proprio in armi e protezioni offerti alle Filippine, ovviamente in chiave anti-cinese.