Seppur inatteso, ma non del tutto imprevedibile per le dinamiche sempre fluide della politica regionale, l’accordo di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (EAU) rischia di aprire nuovi scenari nell’area MENA, già alle prese con molteplici linee di faglia. Un’intesa molto importante che, oltre allo scambio degli ambasciatori, prevede la firma di importanti protocolli bilaterali sul piano del commercio internazionale e marittimo, della sicurezza, del turismo, della tecnologia e delle telecomunicazioni, ma anche nei settori dell’agricoltura, dell’intelligence, della difesa, della sanità e dell’energia[1]. Un accordo in grado di imprimere una certa svolta agli allineamenti regionali, soprattutto per quel che riguarda i rapporti tra Israele e i paesi arabi del Grande Medio Oriente. Infatti, è probabile che l’intesa porti altri membri del Gulf Cooperation Council (il Bahrain in primis, mentre è meno plausibile in tempi stretti la normalizzazione con l’Arabia Saudita) e attori arabo-africani (Sudan e Marocco) ad adottare soluzioni simili a questa, ma senza stravolgere i modelli regionali di conflitto e cooperazione già ben delineati dal post-JCPOA, nel 2015. Non a caso i primi tentativi di convergenza e collaborazioni ufficiose tra israeliani e attori arabi del Golfo risalgono proprio agli anni delle trattative sul nuclear deal iraniano, tanto da lasciare sbigottiti alcuni commentatori politici quando ad un incontro pubblico organizzato dal Council on Foreign Relations a Washington (giugno 2015) si trovarono a discutere delle sfide e delle minacce del futuro Medio Oriente il generale saudita Anwar Eshki e l’ambasciatore israeliano Dore Gold, figure molto rilevanti e influenti nei rispettivi establishment di riferimento[2]. Da quell’incontro e seguendo questa prospettiva, quindi, l’accordo non rappresenta un fattore di novità assoluta, poiché le relazioni bilaterali tra Israele ed EAU sono ufficiosamente solide già da almeno un decennio e le convergenze tattiche e strategiche tra i due paesi sono altrettanto palesi in diversi dossier regionali (fronte anti-iraniano, anti-turco e contro i regimi sensibili all’Islam politico). Ciononostante, l’intesa presenta una sequela di effetti e conseguenze stratificate a cascata, che interessano più dimensioni simultanee che colpiscono, in particolar modo, il principale convitato di pietra di queste discussioni, ossia il processo di pace mediorientale (MEPP).
Benché la questione israelo-palestinese sia un tema molto vivo e sentito nell’opinione pubblica mediorientale, anche negli anni successivi agli accordi di Oslo (1993), come ad esempio con il fallimento degli accordi di Camp David II (2000), sin dagli anni Duemila il dossier ha smosso poco le agende politiche delle principali cancellerie regionali, risultando a tratti un onore troppo gravoso da sostenere, nonostante la retorica ufficiale suggerisse una grande attenzione e attaccamento alle condizioni dei palestinesi. Anche in virtù di ciò, il MEPP si è sempre presentato funzionale alle ambizioni e alle aspirazioni della potenza regionale di turno: in passato l’Egitto, mentre oggi risulta vincente nelle visioni della diarchia saudita-emiratina. Seppur non citato direttamente nel testo, il MEPP viene tirato in ballo proprio dai firmatari dell’accordo del 13 agosto, riconfermando come l’ultradecennale questione sia non solo il tassello mancante dell’intesa, ma che è stata usata da israeliani ed emiratini come “merce di scambio” per definire altri dibattiti e aspetti ben più salienti nelle rispettive agende di politica estera. In sostanza, il processo di pace mediorientale ha funto ancora una volta da strumento di legittimità politica più che da obiettivo finale per garantire e tutelare le giuste ambizioni palestinesi. Per Israele vi era in gioco una partita diplomatica di più ampie prospettive che vedeva coinvolta direttamente la seconda economia araba e un attore arabo importante per puntellare le strategie mediorientali di Tel Aviv. Altresì, l’intesa è stata strumentale anche per la “piccola Sparta”, che si è garantita un accesso privilegiato ad alcuni asset (sicurezza, tecnologie, sicurezza e telecomunicazioni) in cui Israele è l’autentica potenza regionale. In entrambi i casi, l’uso funzionale del nodo palestinese è stato necessario al rispettivo fine: per gli EAU, l’intesa doveva mostrare come l’immagine di un paese non succube di Israele ma allo stesso tempo un attore risoluto e in grado di costruire una narrazione, domestica e regionale, positiva dell’accordo in favore delle presunte aspirazioni palestinesi; viceversa, tale accordo è stato un grande successo soprattutto in chiave interna israeliana, al fine di distogliere l’attenzione dai problemi giudiziari di Benjamin Netanyahu e dalle tensioni esistenti nel governo dopo il momentaneo stop al progetto di annessioni dei territori della Cisgiordania che doveva avvenire a luglio e la cui sospensione ha fatto infuriare l’estrema destra israeliana. Un’intesa che in un certo senso si pone in continuità con tutte le altre esperienze del passato, anche recente, nelle quali sono gli attori regionali e internazionali a far pesare gli interessi di parte, decidendo al contempo le sorti dei palestinesi sempre più frazionati al loro interno. Chiaramente l’intesa israelo-emiratina è stata percepita dai palestinesi come un tradimento, nel quale essi vedono svanire non solo le opportunità per una pace vera nella regione, ma anche e soprattutto la possibilità di vedersi riconosciuta la costituzione di un autentico stato indipendente in Cisgiordania, senza che Israele porti avanti i progetti di annessioni previsti dallo stesso “accordo del secolo” (o piano Trump). In altre parole, questo accordo riconosce e determina in maniera inequivocabile una normalizzazione dello status quo, ossia l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania, sebbene nella retorica dell’accordo israeliani ed emiratini esprimano una rilettura di parte circa il tema dell’annessione. Infatti, secondo gli emiratini, Israele non porterà avanti ulteriori annessioni, riconoscendo de facto come legittime quelle condotte sino ad ora (in questo senso devono essere intese come tali sia il Golan sia Gerusalemme Est?) e favorendo indirettamente una riedizione del piano Abdallah del 2002[3]. Viceversa, nell’ottica di Tel Aviv, l’accordo con Abu Dhabi non mette in dubbio il progetto di annessione del 30-40% della Cisgiordania, come previsto anche dal piano Trump[4]. Anche alla luce di ciò non è da scartare l’ipotesi che l’accordo firmato tra Israele ed EAU possa prestare il fianco a quell’ipotesi sia di stato binazionale sia di modello federale (accennate anche nelle prime bozze del piano Trump), in passato tanto rigettate nel mondo arabo, ma oggi considerate come un’opzione[5].
In questo senso l’intesa del 13 agosto tra israeliani ed emiratini accoglie in pieno le evidenze indirette del progetto americano: 1) spaccare il fronte arabo; 2) favorire un’interdipendenza tra i paesi vicini a Washington e Tel Aviv, anche attraverso una serie di accordi economici; 3) creare un contesto regionale nuovo con il “fronte arabo pragmatico” primo scudo militare contro i nemici degli Stati Uniti e di Israele (è evidente qui il richiamo alla Middle East Strategic Alliance, meglio nota come “Nato araba”). Se il riferimento principale sono l’Iran e i suoi proxies regionali (Hezbollah in primis), non sono da meno i richiami sottesi alle forze dell’Islam politico e agli stati che hanno negli anni accolto queste istanze (Qatar e Turchia). Sebbene Doha e Ankara siano alleati degli USA e intrattengano rapporti altalenanti con Tel Aviv, le rispettive posizioni e interessi geopolitici rischiano di cadere in conflitto con Israele e gli USA. Anche per questo è molto importante per Washington e Tel Aviv creare un nuovo scenario favorevole di allineamenti regionali, nei quali i paesi arabi più importanti (Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) supportino le iniziative israeliane spaccando ulteriormente il fronte non allineato (come nel caso della delicata posizione giordana, contraria al piano Trump[6] e indirettamente all’accordo tra Abu Dhabi e Tel Aviv), ma anche sostenendo le insolite sinergie israelo-emiratine nel Mediterraneo, tra Libano e Striscia di Gaza. In quest’ottica, Israele punta sempre più a legarsi agli EAU anche per contenere le influenze turco-qatariote e iraniane nella Striscia di Gaza, dove negli anni Ankara, Doha e Teheran hanno stretto forti legami con Hamas. Di fatto, Israele intravede negli Emirati la possibilità di penetrare Hamas in maniera strumentale al suo interesse di sicurezza, dividendo ulteriormente il campo palestinese e permettendo ad Abu Dhabi di giocare un ruolo importante nel bacino mediterraneo-vicino-orientale[7].
In conclusione, l’accordo presente è decisamente qualcosa di diverso che non ha confronti con il passato e che vive gli effetti della contemporaneità, legati a fattori non direttamente centrali alla questione palestinese e molto più attinenti, invece, a elementi di geopolitica, geo-strategia regionale o, più semplicemente, di indirizzo di politica estera da parte degli attori mediorientali. In questo senso, l’accordo sembra prefigurarsi come un moltiplicatore e un amplificatore di situazioni limite, con effetti ben visibili già nel breve-medio periodo. In sostanza, un accordo che ingarbuglia e allo stesso tempo apre nuove faglie di tensioni, nelle quali però il nodo palestinese scivola sempre più in una condizione di anonimato, aprendo una stagione di nuova normalità.
[1] “Joint Statement of the United States, the State of Israel, and the United Arab Emirates”, US Embassy in Israel, August 13, 2020, https://il.usembassy.gov/joint-statement-of-the-united-states-the-state-....
[2] D. Sanger, Saudi Arabia and Israel Share a Common Opposition, The New York Times, June 4, 2015.
[3] Nel 2002, Riyadh ha provato a dialogare con il governo israeliano sulla cosiddetta “road map per la pace” proponendo un piano saudita per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, che prevedeva essenzialmente un riconoscimento dei confini post-1967. Per maggiori dettagli sull’iniziativa diplomatica, si veda il seguente link: https://ncusar.org/publications/Publications/2002-06-24-Crown-Prince-Abd...
[4] K. Elgindy, “Normalizing Israeli occupation”, in Paul Salem, Khaled Elgindy, Gerald M. Feierstein, Nazila Fathi, Birol Baskan, Mirette F. Mabrouk, Roie Yellinek, Special briefing: Regional reactions to the Israel-UAE deal, Middle East Institute, August 17, 2020.
[5] E.P. Djerejian, M. Muasher, N.J. Brown, S. Al-Abid, T. Dana, D. Scheindlin, G. Sher, K. Shikaki, “Two States or One? Reappraising the Israeli-Palestinian Impasse”, Carnegie Endowment for International Peace, September 2018.
[6] J. Al-Anani, “Six Reasons Why Jordan Rejects Netanyahu’s Plan”, in Anna Maria Bagaini e Giuseppe Dentice (eds.), Israel’s Annexation Plan: A Middle Eastern Perspective, Dossier, Italian Institute for International Political Studies (ISPI), July 1, 2020.
[7] “Emirati-Israele, Dentice (Ispi): ‘L'accordo per la normalizzazione ha rilevanza internazionale’”, Agenzia Nova, 14 agosto 2020. Per maggiori approfondimenti sul ruolo emiratino nel bacino mediterraneo-vicino-orientale si veda anche: E. Ardemagni, G. Dentice, “Emirati Arabi: ‘lunga mano’ su Gaza con placet saudita”, AffarInternazionali, 22 ottobre 2017.