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La firma a Doha

Accordo storico USA-Talebani, ma la pace è ancora incerta

Giuliano Battiston
28 febbraio 2020

Dopo quasi 19 anni di guerra, mesi di negoziati e una settimana di tregua parziale in Afghanistan, sabato 29 febbraio gli Stati Uniti e i Talebani dovrebbero firmare uno storico accordo a Doha, in Qatar, alla presenza dei rappresentanti delle Nazioni Unite, dell’Unione europea, dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, oltre che dei principali attori dell’area, Russia, Cina, Pakistan, forse Iran.

L’accordo, che probabilmente verrà sottoscritto dall’inviato speciale del presidente Usa Trump, Zalmay Khalilzad, e dal numero uno della delegazione politica dei Talebani, mullah Abdul Ghani Baradar, è il preludio diplomatico al processo di pace vero e proprio, quello tra gli studenti coranici e i rappresentanti della politica e della società afghana.

Soddisfa però le richieste dei due attori principali del conflitto militare, perché prevede il ritiro delle truppe straniere dal paese, la prima e più importante rivendicazione dei Talebani, e l’impegno di questi ultimi a rinunciare a ogni legame con il jihadismo transnazionale, oltre che a combattere contro la branca locale dello Stato islamico, come chiesto dagli Stati Uniti.

L’accordo è l’esito dei negoziati inaugurati nel settembre 2018 da Khalilzad, su iniziativa del presidente USA Donald Trump, il quale ha forzato la mano rispetto alle amministrazioni precedenti, puntando sul dialogo bilaterale, tra americani e Talebani, anche a rischio di compromettere le relazioni con il governo di Kabul, il quale rivendica da sempre un posto al tavolo delle trattative. La riluttanza dei Talebani a negoziare con i rappresentanti istituzionali afghani prima dell’accordo con gli Usa ha infine convinto l’amministrazione Trump che l’unica strada percorribile fosse il dialogo bilaterale. Una posizione che ha provocato diversi attriti e problemi, ma l’unica ad aver condotto alla firma del trattato.

L’accordo è certamente imperfetto, non assicura la pace. Riserva anzi molte incognite, ma è l’unica opzione praticabile, nelle condizioni attuali, per tentare di ridurre la violenza in Afghanistan, dove secondo le Nazioni Unite nel corso del 2019 si sono registrati più di 10.000 vittime, tra morti e feriti.

Per capire cosa accadrà ora, occorre volgere lo sguardo al calendario. Secondo quanto trapelato ufficiosamente, l’accordo prevede che le truppe americane passino dalle attuali 13.000 circa a 8.600 entro 135 giorni dalla firma. Riduzioni successive sono condizionate al rispetto degli impegni di contro-terrorismo assunti dai Talebani, con gli Stati Uniti che mantengono la facoltà di modificare il calendario e aiutare le forze di sicurezza afghane. Alcune fonti talebane hanno fatto sapere che il ritiro completo dovrebbe avvenire entro 14 mesi dalla firma, ma non c’è conferma. Quel che è certo è che il presidente Trump intende capitalizzare il ritiro durante la campagna elettorale per le presidenziali del novembre 2020, pur mantenendo margini di tempo e operativi per invertire la rotta, nel caso le cose si mettano male. Il ritiro potrebbe tradursi per Trump in un ottimo biglietto da visita elettorale, che nasconde però il fallimento degli Stati Uniti nella guerra al terrore, maldestramente inaugurata e condotta proprio in Afghanistan.

L’accordo prevede che, entro 10 giorni dalla firma, i Talebani – dopo il rilascio di circa 5.000 militanti dalle carceri governative – comincino a dialogare ufficialmente, non solo in via ufficiosa come già fatto nei mesi passati, anche con i rappresentanti della politica – governo e opposizione – e della società afghana. Lo faranno da una posizione di forza, proprio grazie all’accordo siglato con Washington, che li consolida e, per la prima volta nero su bianco, li legittima politicamente.

Sta qui, nel rapporto con la politica e la società afghana, il vero nodo della questione.

La tregua parziale di sette giorni inaugurata il 22 febbraio e conclusa nella notte tra il 28 e il 29 febbraio ha tenuto. Non era affatto scontato. Era stata chiesta con insistenza dal governo di Kabul, attraverso Khalilzad, come prova che i Talebani – movimento policentrico – fossero in grado di esercitare controllo e autorità sulle varie anime del gruppo. I Talebani hanno dimostrato di riuscirci. Ma la compagine politica afghana si presenta profondamente divisa, con spaccature durissime legate alla contesa sull’esito delle elezioni presidenziali del 28 settembre 2019. Contese che potrebbero compromettere l’unitarietà di intenti e obiettivi della delegazione che dovrà incontrare i Talebani a marzo, ma che potrebbero anche essere ricomposte grazie agli incentivi legati al nuovo assetto politico che dovrà nascere in futuro, nel quale potrebbero trovare posto anche quanti oggi sono all’opposizione del presidente Ashraf Ghani.

Rimarranno importanti problemi di fondo. I Talebani si dicono contrari alla Costituzione attuale. Ma non hanno ancora fatto sapere chiaramente con cosa vorrebbero sostituirla. Da questo punto di vista, anche il loro fronte è destinato a subire importanti scosse di assestamento, nei prossimi mesi. Tutti condividono l’obiettivo ultimo di liberare il paese dalle forze di occupazione, ma le varie anime del movimento potrebbero avere idee diverse sull’alternativa da costruire. Per ora, ci sono ripetute dichiarazioni ufficiali secondo le quali i Talebani non cercano il monopolio politico e sono pronti a condividere il potere con altri soggetti.

Per molti, non sono rassicurazioni sufficienti. I Talebani hanno dimostrato agli interlocutori statunitensi – e alla popolazione afghana – di essere in grado di controllare l’intera catena di comando, in tutto il paese, evitando violenza e scontri, se non marginali, durante la tregua. Sabato 29 febbraio incassano questa dimostrazione di buona volontà e di governo della militanza firmando il trattato con gli Stati Uniti. Ma poi verrà la parte più difficile. Dovranno dimostrare al governo afghano, e alla società ancora meglio, di volere davvero la pace. Di non aver negoziato con Khalilzad soltanto per ottenere un beneficio sul campo di battaglia, dove il ritiro delle truppe americane farà oscillare il pendolo dello stallo militare dal loro lato.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, dovranno dimostrare alla popolazione afghana che l’accordo sul ritiro non è un’abdicazione di responsabilità, né un modo per eludere la presa d’atto che la guerra è persa. Ai rappresentanti istituzionali afghani spetta invece il compito di dimostrare di saper rappresentare davvero una società plurale, accomunata dalle sofferenze ma divisa da risentimenti e rivendicazioni inevase di giustizia.

L’accordo tra Stati Uniti e Talebani del 29 febbraio è solo l’inizio di un lungo percorso che aumenta le responsabilità dei principali attori del conflitto, affinché lo risolvano per via diplomatica, non più militare.

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AUTORI

Giuliano Battiston
Giornalista e ricercatore freelance

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