Accordo sul nucleare iraniano: il trionfo della Realpolitik | ISPI
Salta al contenuto principale

Form di ricerca

  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED

  • login
  • EN
  • IT
Home
  • ISTITUTO
  • PALAZZO CLERICI
  • MEDMED
  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Digitalizzazione e Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI

  • Home
  • RICERCA
    • OSSERVATORI
    • Asia
    • Digitalizzazione e Cybersecurity
    • Europa e Governance Globale
    • Geoeconomia
    • Medio Oriente e Nord Africa
    • Radicalizzazione e Terrorismo Internazionale
    • Russia, Caucaso e Asia Centrale
    • Infrastrutture
    • PROGRAMMI
    • Africa
    • America Latina
    • Global Cities
    • Migrazioni
    • Relazioni transatlantiche
    • Religioni e relazioni internazionali
    • Sicurezza energetica
    • DataLab
  • ISPI SCHOOL
  • PUBBLICAZIONI
  • EVENTI
  • PER IMPRESE
    • cosa facciamo
    • Incontri su invito
    • Conferenze di scenario
    • Formazione ad hoc
    • Future Leaders Program
    • I Nostri Soci
  • ANALISTI
Commentary

Accordo sul nucleare iraniano: il trionfo della Realpolitik

16 luglio 2015

Se qualcuno avesse dubbi sul senso più profondo, e sulle implicazioni geopolitiche, dell’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna, basterebbe notare che il suo più accanito avversario, il primo ministro israeliano Netanyahu, invece di tracciare a cupe tinte lo scenario di un Iran genocida intenzionato a dotarsi di bombe atomiche per annientare Israele, si preoccupa che grazie all’accordo Teheran possa disporre di maggiori mezzi, e di minori limitazioni, per portare avanti il proprio disegno di egemonia regionale.

Il discorso è cambiato. Emerge ora la vera natura della questione – una questione in cui il nucleare era più un mezzo che un fine: per l’Iran, utilizzato per convincere soprattutto gli Stati Uniti a prenderlo in considerazione; per i suoi nemici, per mantenerlo in isolamento.

Ed è proprio la dimensione regionale a spiegare i motivi che hanno indotto il presidente Obama (e non solo lui, visto che l’accordo è stato raggiunto con la partecipazione dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, della Germania e dell’Unione Europea) a perseguire un accordo attraverso un negoziato estenuante, difficile ma condotto dalle due parti con grande abilità diplomatica e sostanziale buona volontà.

Uno degli argomenti più inconfutabili a favore di un accordo è stato ribadito da Obama nel suo commento a caldo dopo la conclusione dei negoziati: se non un accordo, che comporta inevitabilmente dei compromessi, quale altra soluzione ci poteva essere, se non la guerra?  La grandezza degli uomini politici è a volte quella di prendere atto della realtà e desistere dal perseguire disegni e strategie chiaramente fallimentari: come dicono gli americani, "If you fell into a hole, stop digging".  Incidentalmente, si tratta della stessa logica che ha portato Obama all’inizio di una normalizzazione con Cuba dopo decenni di sterile contrapposizione.   

Altro che ingenuità, come tuonano Netanyahu e i repubblicani nel Congresso degli Stati Uniti.  Realismo, piuttosto, visto il risultato disastroso di interventi militari dall’Iraq (la madre di tutte le destabilizzazioni) alla Libia. 

Oltre all’opzione razionale di evitare un’ennesima guerra in Medio Oriente, la svolta americana – che coincide con le valutazioni e gli interessi delle principali potenze mondiali – si basa anche sulla considerazione, anch’essa razionale piuttosto che ideologica, che il regime iraniano costituisca oggi un pericolo di destabilizzazione regionale molto minore di quanto non sia il caso per lo Stato Islamico.  È falso che l’alternativa sia quella fra un Iran nemico e un Iran alleato. In politica internazionale, ci sono molte posizioni intermedie fra questi due estremi. Nessuno direbbe che Nixon e Kissinger hanno trasformato la Cina da nemico ad alleato. Anche se le cose funzionano come previsto e se l’intesa verrà approvata dal Congresso e applicata correttamente, i rapporti con l’Iran resteranno caratterizzati, in attesa di una possibile evoluzione interna del paese,  da una miscela di dialogo e contrapposizione, deterrenza e rispetto reciproco di alcuni fondamentali interessi nazionali.

La violenta e ampia offensiva del jihadismo, di cui lo Stato Islamico costituisce la più minacciosa ma non l’unica manifestazione, ha inoltre convinto sia americani sia europei del fatto che sarebbe assurdo schierarsi dalla parte del radicalismo sunnita contro gli sciiti in una fantomatica guerra di religione che nasconde altre dinamiche sia politiche che economiche. Un radicalismo sunnita che non da oggi  viene sostenuto dall’Afghanistan all’Algeria da parte dell’Arabia Saudita, alla quale troppo a lungo sono state fatte da parte di Washington straordinarie concessioni invece di richiamarla alla responsabilità.  Sia per quanto riguarda i rapporti con i sauditi, sia per quelli con gli israeliani, Obama rivela, con questa ricerca di una diversa e meno unilaterale configurazione regionale, una crescente insopportazione nei confronti di alleati che esigono e non fanno concessioni, che prendono unilateralmente decisioni che gli Stati Uniti non condividono (pensiamo alla questione palestinese, e in particolare ai settlements), e poi esigono un avallo incondizionato da parte di Washington.

L’Iran non diventerà certo un alleato degli Stati Uniti, ma dopo Vienna tutti dovranno rendersi conto, in Medio Oriente, che gli americani non sono disposti a combattere per conto terzi, e soprattutto a sostenere strategie che non condividono.  In un certo senso, rinasce una politica internazionale meno ideologica e se vogliamo più classica: quella fatta di equilibri di forze, tensioni, ricerca di compromessi, e soprattutto fondata sull’interesse nazionale e sul realismo. Lo stesso interesse nazionale e realismo che ispirano l’attuale governo di Teheran e un presidente, Rouhani, deciso ad abbandonare l’assurdo islamo-populismo che ha caratterizzato gli otto anni, anni persi, della presidenza Ahmadinejad. I conservatori nel regime, minoritari ma sempre potenti, temono che un’apertura al mondo e l’inizio di una normalizzazione con gli Stati Uniti possano mettere in moto spinte interne verso il conseguimento di quegli obiettivi riformisti che né il presidente Khatami né la protesta di massa del Movimento Verde sono riusciti a concretare. Non ce la sentiamo di dar loro torto. L’entusiasmo popolare per l’accordo di Vienna, certamente ispirato dall’orgoglio nazionale di un popolo che si sente ingiustamente ignorato e disprezzato, si spiega anche con questo. I conservatori non hanno tutti i torti a essere preoccupati. Per loro, l’ideale sarebbe stata una tensione permanente con il Grande Satana.

L’Iran, accantonato l’handicap della questione nucleare, sarà sempre più in grado di svolgere nella regione un ruolo di peso sia economico sia politico. I sauditi e gli altri arabi del Golfo temono l’egemonia iraniana (va detto, fin dai tempi della monarchia dei Pahlavi), e si tratta di una preoccupazione legittima, ma che andrà affrontata con la politica e non con le armi, partendo dalla constatazione che, se l’egemonia dell’Iran è inaccettabile, il suo isolamento non risulta più possibile.

Roberto Toscano, già Ambasciatore d'Italia in Iran (2003-2008) e in India (2008-2010)

 
VAI AL DOSSIER

Ti potrebbero interessare anche:

Le mani di Pechino su Aden
Eleonora Ardemagni
ISPI e UNICATT
Podcast Globally: nuovi scontri tra Israele e Palestina, un film già visto?
Escalation Israele-Palestina: verso un nuovo conflitto?
Blinken’s Israel-Palestine Tour: An Empty Shell?
Iran: tra proteste e guerra in Ucraina: una tempesta perfetta?
Jacopo Scita
Bourse and Bazar Foundation e Durham University
Israele: il ritorno di Netanyahu
Anna Maria Bagaini
Hebrew University

Tags

Accordo sul nucleare Iran Stati Uniti Unione Europea Rouhani Israele Benjamin Netanyahu Medio Oriente
Versione stampabile
Download PDF

SEGUICI E RICEVI LE NOSTRE NEWS

Iscriviti alla newsletter Scopri ISPI su Telegram

Chi siamo - Lavora con noi - Analisti - Contatti - Ufficio stampa - Privacy

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) - Palazzo Clerici (Via Clerici 5 - 20121 Milano) - P.IVA IT02141980157