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Commentary

Accordo USA-Talebani e ritiro: in Afghanistan è finita la guerra?

Andrea Carati
30 gennaio 2019

Sono trascorsi quasi diciotto anni da quando Zalmay Khalilzad – attuale negoziatore da parte americana a Doha con i talebani – veniva nominato da G.W. Bush Special Assistant del presidente per l’Asia meridionale e Vicino Oriente. Il ruolo ricoperto oggi e gli obiettivi politici che persegue sembrano trasfigurati se paragonati all’ambiziosa agenda politica neo-conservatrice, sostenuta attivamente da Khalilzad stesso, perseguita nell’intervento americano in Afghanistan nel 2001. Se allora gli obiettivi erano la destituzione del regime dei talebani, la loro cacciata e impedire che l’Afghanistan potesse tornare a essere un luogo ospitale per lo jihadismo globale, oggi nelle prime bozze di accordo si chiede nientemeno che ai Talebani di garantire che i territori da loro controllati (circa il 35% del territorio afgano) rimangano inospitali per al-Qaeda e lo Stato Islamico.

Il tipo di accordo che si profila, da almeno dieci anni considerato da molti osservatori come inevitabile per immaginare una qualche forma di exit strategy, ci dice inequivocabilmente che la guerra è persa. Non solo perché scendere a patti coi talebani è di per sé l’ammissione che l’illusione di averli cancellati dalla geografia politica dell’Afghanistan è stata credibile solo un paio d’anni nel 2002-2003, a seguito dell’operazione Anaconda che sembrava averli dispersi o almeno cacciati definitivamente nelle aree tribali pakistane. Nel decennio successivo (2004-2014) a quell’illusione si è sostituita una speranza: ammesso il ‘ritorno’ dei talebani, l’obiettivo è diventato quello di sconfiggerli militarmente, o almeno contenerli e logorarli al punto di indebolirli al tavolo di un negoziato, che dal 2008 si ritiene sostanzialmente inevitabile, e imporre loro delle condizioni da una posizione di forza. Il surge di Obama, il quale ha portato la presenza della Nato in Afghanistan a 150mila unità, ha rappresentato il culmine di quella strategia.

Dal 2014, con il ritiro della missione Nato-Isaf e la riduzione a un decimo della presenza militare, il destino del paese e dell’intervento internazionale è stato segnato. La exit strategy immaginata da Obama e perseguita successivamente da Trump prevedeva un piano B: assistere le forze di sicurezza nazionali afgane – addestrate, finanziate e equipaggiate dagli Usa e la Nato – con l’obiettivo di contenere i Talebani. Ma il negoziato con i Talebani, la sua accelerazione delle ultime settimane e l’urgenza che vi pone l’amministrazione Trump ci dicono che è fallito anche il piano B. A confermarlo sono inoltre le condizioni di sicurezza dell’Afghanistan, che peggiorano costantemente dal 2012, e la porzione di territorio che i talebani controllano o su cui esercitano una forte influenza (poco meno della metà dell’Afghanistan).

I punti essenziali su cui si basa l’attuale negoziato e su cui sembra esserci un’intesa di massima rivelano la posizione di forza da cui trattano i talebani. In primo luogo, la previsione di un ritiro pressoché totale delle truppe internazionali. Nientemeno che l’obiettivo politico perseguito con determinazione e persistenza dagli studenti coranici negli ultimi quindici anni e posto come prerequisito indispensabile per un accordo. In secondo luogo, la garanzia che i talebani contrastino la presenza dello Stato Islamico della provincia del Khorosan (cosa che in realtà stanno già facendo da qualche anno) e di al-Qaeda (una promessa molto meno credibile). In terzo luogo, un cessate-il-fuoco il quale è senz’altro nell’interesse sia degli Stati Uniti sia dei talebani. Per i primi agevolerebbe un ritiro il più possibile ordinato e (seppur ipocritamente) motivato, per i secondi significherebbe mostrare la loro capacità di controllo del territorio.

Sebbene le trattative con i talebani rappresentino l’ultima partita per poter chiudere una guerra persa, una partita che sarebbe insensato non giocare, sul negoziato pesano alcune ombre. Gli accordi finora raggiunti arrivano fuori tempo massimo: i talebani con cui si tratta non sono più quelli dell’inizio dell’intervento internazionale nel 2001-2002. La loro inimicizia con i militanti di al-Qaeda, all’apogeo proprio a seguito dell’intervento americano, è andata stemperandosi nel corso degli anni. È stato proprio l’intervento internazionale – il quale ha combattuto talebani e jihadisti come fossero la stessa cosa – che ha incentivato un’alleanza fra i due gruppi contro il nemico comune. Chiedere oggi ai talebani di contrastare al-Qaeda in Afghanistan è equivoco. Agli occhi dei talebani senz’altro appare come una debacle politica ancora prima che militare: nel 2002 quando loro erano disposti a sganciarsi da al-Qaeda e forse pronti ad aiutare gli americani a catturare Osama Bin Laden (in cambio dell’amnistia e della riabilitazione politica), gli americani li hanno cacciati dal loro paese. Inevitabilmente la fuga dei due gruppi nelle aree tribali in Pakistan e la lotta comune contro l’occupante hanno rinsaldato legami che potevano essere recisi credibilmente solo molti anni fa, non oggi dopo diciotto anni di insorgenza.

Inoltre, i talebani di oggi – quelli con cui si tratta a Doha – sono meno rappresentativi e controllano i gruppi di opposizione armata in Afghanistan molto meno di quanto lo facevano quindici anni fa. Il mullah Abdul Ghani Baradar, capo dell’ufficio di Doha che guida il negoziato da parte talebana, rappresenta la vecchia leadership talebana, legata all’eredità del mullah Omar (la Shura di Quetta). Ma rispetto ai tempi del mullah Omar questa leadership non esercita più un ruolo egemonico nel quadro dei gruppi armati, i quali ora formano invece una galassia composita di qualche decina di gruppi semi-autonomi che solo per comodità possiamo chiamare talebani. Questa realtà naturalmente getta un’ombra sulle aspettative che un accordo possa poi essere fatto rispettare sul territorio da parte di una rappresentanza talebana, quella della Shura di Quetta, non del tutto rappresentativa.

A questo si aggiunge, un altro elemento di evoluzione del movimento dei talebani degli ultimi quindici anni. Se negli anni ’90 e ancora nelle prime battute dell’intervento americano i talebani erano un gruppo di natura nazionale, essenzialmente afgano e intenzionato a difendere il proprio territorio dagli occupanti (non necessariamente dagli infedeli) come un qualsiasi movimento di liberazione nazionale, oggi i talebani sono inseriti in un network più allargato, se non di natura globale, senz’altro con ambizioni regionali. Questo elemento complica il quadro degli esiti dei negoziati: quanto più rivendicazioni politiche nazionali lasciano spazio a rivendicazioni religiose trans-nazionali, tanto più i margini di intesa tendono a ridursi.

Infine, i negoziati complicano inevitabilmente i rapporti con il governo di Kabul. Infatti, gli accordi bilaterali Usa-talebani si svolgono in realtà in quadro tripartito, in cui va aggiunto il governo di Ghani. Il gioco inevitabilmente implica dei dilemmi: quel che si guadagna con i talebani va a discapito della tenuta del governo di Kabul (della sua legittimità), della tenuta delle forze di sicurezza afgane (addestrate dalla Nato per anni per combattere i talebani). Dalla tenuta del governo nazionale dipenderà naturalmente il margine di manovra che avranno i talebani, sia politicamente sia nella loro capacità di controllare il territorio.

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Tags

Afghanistan talebani relazioni transatlantiche
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AUTORI

Andrea Carati
Università di Milano e ISPI

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