Kabul e Jalalabad - “Sì, sono disposta a parlare con i Talebani, anche se hanno ucciso mio cugino. Ma prima pretendo un cessate il fuoco, un segno della loro reale disponibilità al dialogo e all’incontro”. Negina Yari è una giovane attivista, esponente dell’Afghanistan Peace House, un’organizzazione-ombrello che raccoglie più di 1.000 aderenti, attivi nelle 34 province afghane. Tra di loro ci sono i messaggeri di pace, “studenti universitari, ma non solo, che diffondono un messaggio di pace e di riconciliazione sociale”. La sua opinione – prima il cessate il fuoco, poi il negoziato – ricorda quella ufficiale del governo di Kabul, che pure Negina Yari critica perché litigioso, inefficiente, corrotto: “I Talebani sfruttano le nostre divisioni e debolezze. Senza un governo forte, è difficile negoziare”.
Nelle ultime settimane, il cessate il fuoco è diventato argomento di discussione qui a Kabul, la capitale afghana avvolta da una densa cappa di smog da cui ci si protegge con mascherine colorate. Il cessate il fuoco è una tessera importante del più ampio mosaico del processo di pace con i Talebani. Prima voluto, poi interrotto, poi di nuovo cercato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Il cui inviato Zalmay Khalilzad è tornato a Doha, in Qatar, per tirar fuori dal cassetto quell’accordo già concordato con i Talebani e congelato il 7 settembre 2019 da Trump. Il quale il 28 novembre 2019, durante una visita a sorpresa ai soldati statunitensi nella base afghana di Bagram, ha deciso di riaprire la partita. Ripartendo proprio da quell’accordo in 4 parti. Due riguardano il rapporto con gli Stati Uniti – ritiro delle truppe americane in cambio della garanzia talebana a non sostenere i jihadisti globalisti – e due quello con il governo di Kabul. Un governo in profonda crisi.
Una veduta dall’alto di Kabul, città da 6 milioni di abitanti (foto: G. Battiston)
Elezioni e crisi politica
“Se anche dovessero accettare di negoziare con il governo, con chi parlerebbero i Talebani?”, si chiede Negina Yari. A Kabul la crisi è acclarata, ritualizzata. Per cinque anni, il governo di unità nazionale è stato paralizzato dall’antagonismo tra il presidente Ashraf Ghani e il primo ministro Abdullah Abdullah, i due candidati favoriti alle presidenziali del 28 settembre 2o19. Elezioni che hanno prodotto accuse reciproche e tante contestazioni. Ma ancora nessun vincitore. “Stanno distruggendo la fiducia nelle istituzioni democratiche. Dopo settimane e settimane, i due gridano ancora ai brogli e litigano. Non si accorgono che i veri sconfitti siamo noi, i cittadini”, sostiene Najiba Ayubi, volto noto della società civile e direttrice di The Killid Radio, network di radio indipendenti.
“Meglio un risultato accurato che uno affrettato”, aveva dichiarato il 15 ottobre 2019 la diplomatica statunitense Alice Wells, dando voce alla posizione dell’amministrazione Trump e della comunità internazionale, che chiedeva trasparenza, certezza dei risultati. La ricerca della trasparenza si è però fatta groviglio politico, difficile da districare. Secondo i risultati preliminari, arrivati dopo quasi 3 mesi dal voto, il 50,64% dei voti totali (1 milione e 840 mila), pari a circa 924 mila, è andato a Ghani, che ha raccolto consensi in particolare nelle province meridionali del paese, a maggioranza pashtun. Il 39,52% dei voti – circa 721 mila – è andato invece ad Abdullah, rappresentante del Jamiat-e-Islami, il partito a maggioranza tagica, forte soprattutto nelle province settentrionali. Ma ci sono 300.000 voti contestati da Abdullah e da altri candidati minori. E la Commissione per i reclami ha a disposizione alcune settimane per verificare le segnalazioni ricevute. Le sue decisioni potrebbero condurre a un ballottaggio. Da svolgersi la prossima primavera.
L’intreccio tra elezioni e processo di pace
La confusione di questa delicata fase politica è accentuata dalla sovrapposizione con il processo di pace. Un intreccio che ha preceduto le elezioni e continua a condizionarne l’esito. Un ricercatore che preferisce l’anonimato delinea due scenari plausibili: “Il primo è che senza un attore istituzionale chiaro e legittimo il processo di pace con i Talebani venga congelato per un po’, il secondo è che qualcuno approfitti di questa ambiguità per prenderne le redini”. Sembra che stia prevalendo il secondo scenario. Quel qualcuno siede all’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul. È Ashraf Ghani.
Gli Stati Uniti lo pressavano affinché rinunciasse alle elezioni in favore di un governo ad interim, che secondo l’amministrazione Trump avrebbe favorito il processo di pace, ma Ghani ha tenuto il punto. “Cercava una legittimazione popolare per condurre il negoziato da una posizione di maggiore autorevolezza, ma i risultati elettorali non gli sono favorevoli”, ci spiega il ricercatore Ali Yawar Adili, dell’Afghanistan Analysts Network, accreditato centro di ricerca con sede nella capitale. Ghani non ha ricevuto il mandato popolare che auspicava, la forza contrattuale al tavolo negoziale non sarà quella auspicata. Ma l’importante è che sia lui – o i suoi rappresentanti – a sedersi a quel tavolo. O a posticiparlo.
Per farlo, ha abbassato asticelle morali e alzato pretese materiali. Lo scorso novembre ha infatti accettato lo scambio di prigionieri tra tre autorevoli esponenti degli Haqqani – la rete affiliata ai Talebani guidata dal numero due degli studenti coranici, Sirajuddin Haqqani – e due ostaggi occidentali (lo statunitense Kevin King, 63 anni, e l’australiano Timothy Weeks, 50) e 10 poliziotti afghani. A Washington serviva un gesto simbolico con il quale ricucire in fretta lo strappo diplomatico causato dallo stop al negoziato del 7 settembre 2019. Così Ghani, prima riluttante, ha avallato lo scambio, fonte di critiche interne, in cambio del sostegno di Washington a un secondo mandato e alla richiesta del cessate il fuoco. A Kabul e Jalalabad gli osservatori più smaliziati sintetizzano così le vicende degli ultimi due mesi.
Traffico all'ora di punta nel centro di Kabul (foto: G. Battiston)
Il cessate il fuoco
Il cessate il fuoco è una delle richieste avanzate dal governo ai Talebani nel piano in 7 punti reso pubblico a fine ottobre 2019 dal consigliere per la sicurezza nazionale, il giovane e ambizioso Hamdullah Mohib, poco amato da Washington e in particolare dal negoziatore Usa Zalmay Khalilzad, accusato da Mohib di aver escluso il governo dai negoziati con i Talebani e di coltivare progetti personali in Afghanistan. Un cessate il fuoco di 1 mese, insiste Mohib, serve a “dimostrare l’unità del movimento talebano”. I delegati dell’ufficio politico dei Talebani a Doha rappresentano davvero la leadership? La leadership è in grado di mantenere il controllo sull’intera linea di comando, giù giù fino ai militanti sul terreno? I ricercatori che da anni studiano le forme organizzative dei Talebani dicono di sì, nonostante la natura policentrica del movimento. I tre giorni di cessate il fuoco dell’estate 2018, quando in tutto il paese i Talebani non hanno sparato un solo colpo (o quasi), suggeriscono di sì. Ma qualcuno ne dubita ancora.
È difficile che Ghani – uomo dalla formazione accademica che ambisce non senza frustrazioni a piegare la realtà ai modelli dei suoi libri – ottenga un cessate il fuoco di 1 mese, come chiesto. Ma secondo alcune fonti di Doha e del Pakistan, la stessa Rahbari shura, il massimo organo di governo del movimento, avrebbe accettato un cessate il fuoco, forse di 10 giorni, durante i quali siglare il trattato con gli americani. Concedendo un po’ di respiro, e un risultato concreto da rivendicare, anche all’odiato Ghani. Se confermato, sarebbe un successo per il presidente Ghani e un cedimento dei Talebani. Due degli attori di un conflitto plurale.
Proxy war
“Tutti vogliamo la pace. La chiedono i marciatori per la pace, la chiede la società civile, la chiedono i cittadini. È la richiesta di tutti. Ma questa è una proxy war, una guerra per procura, siamo terreno di battaglia di molti attori. Ce ne fossero soltanto due, risolvere il conflitto sarebbe facile”, sostiene Orzala Ashraf Nemat, energica direttrice del centro di ricerca Areu, Afghanistan Research and Evaluation Unit. L’abbiamo incontrata prima che l’uccisione di Qassem Soleimani, generale iraniano a capo delle forze al-Qods delle Guardie della rivoluzione, dimostrasse ancora una volta quanto sia vulnerabile agli scossoni internazionali il fronte afghano.
A Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, al confine con il Pakistan, la questione di quanto il quadro regionale condizioni il conflitto locale appare più concreta. Il vicino è ingombrante. Qui si dà per scontato che l’establishment militare di Islamabad, in particolare i servizi segreti dell’Inter-Services Intelligence, aiuti i Talebani. “Fino a quando il Pakistan sosterrà i Talebani non ci sarà modo di mettere fine alla guerra”, ripetono in molti, commercianti, giornalisti, attiviste. Le interferenze esterne, l’intrusione maligna dei governi regionali e stranieri, qui è un dato di fatto riconosciuto, a volte una scusa, un pretesto per nascondere responsabilità interne. Mohammad Anwar Sultani, analista politico molto conosciuto a Jalalabad, sostiene che “è tutta colpa degli americani, che armano i Talebani e allo stesso tempo aiutano il governo afghano”. Per lui “gli americani e i pachistani non vogliono un governo forte e legittimo a Kabul, ma debole, così da controllarlo meglio. Il Pakistan per ottenere il riconoscimento della Durand Line”, la linea di confine con l’Afghanistan, “gli Stati Uniti per i loro interessi strategici”.
La diffidenza verso Washington e Islamabad è diffusa anche a Kabul, ai più alti livelli governativi e ministeriali. “Fino a quando nel paese ci saranno gli americani, non avremo mai pace, sono la prima e principale fonte del conflitto e della corruzione”, ci ha detto per esempio Zalmai Zabuli, senatore a capo della Commissione per i reclami della Meshrano Jirga, la Camera alta. Per i 35 milioni di afghani, gli errori, le bugie, le mistificazioni e i crimini descritti nei cosiddetti Afghanistan Papers sono fatti concreti, quotidiani, un cumulo di avvenimenti distillato nel tempo che si è fatto senso comune, vulgata. Degli americani non ci si può fidare. “I governi regionali, Russia, Iran, Cina tra gli altri, sono stufi di avere gli americani nella regione. Vogliono che si ritirino. E stanno convincendo i Talebani a fare l’accordo”, spiega Sultani. Che i Talebani siano sotto pressione da parte delle potenze regionali, che sono anche loro sponsor, lo conferma Sayed Ahmad Hashimi, docente universitario e uomo religioso che incontriamo all’università di Nangarhar, alle porte di Jalalabad. “Il vero problema, il nocciolo del conflitto, sa qual è? Che l’Afghanistan non è un paese pienamente sovrano”. Uomo di poche e convinte parole, Hashemi è sicuro che, senza intromissioni esterne, i Talebani e il governo afghano saprebbero trovare il modo di parlarsi.
Alcuni studenti dell’università di Nangarhar, alle porte di Jalalabad (foto: G. Battiston)
Talebani e Stato islamico
Vale lo stesso per Attuallah Khogyani, portavoce del governatore di Nangarhar. Lo incontriamo nel suo ufficio, in un edificio all’interno del complesso che ospita anche la sede del governatore. A pochi passi da qui, appena oltre i controlli di sicurezza, vicino alla rotonda che immette sulla strada centrale di Jalalabad, nel giugno del 2018 c’è stato un attentato che racconta un pezzo importante di questa guerra. E dei rischi futuri. Erano i tre giorni del cessate il fuoco voluto con coraggio dal presidente Ghani, al quale avevano aderito i Talebani. Nel paese si assisteva a scene mai viste prima: Talebani abbracciati a poliziotti, drappelli di afghani insieme a militanti senza armi.
Nell’ufficio del governatore di Nangarhar c’è una delegazione talebana, ricevuta con tutti gli onori. Fuori, avviene un’esplosione. L’attentato provoca almeno 36 morti ed è rivendicato dalla “provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico. Il gruppo jihadista che dalla fine del 2014 prova a guadagnare terreno, uomini e finanziamenti in Afghanistan, scegliendo proprio il distretto di Achin, nella provincia di Nangarhar, come principale base operativa. Finendo però con il subire la reazione militare di Talebani, forze governative e internazionali.
Quando lo intervistiamo, Khogyani, il portavoce del governatore, sbandiera i risultati dell’ultima “decisiva” offensiva militare contro lo Stato islamico, nel distretto di Achin. “Qui nel Nangarhar li abbiamo sconfitti totalmente come gruppo militare. Rimangono alcuni individui isolati, ma non ci impensieriscono”. Khogyani fa sua, poi, una riflessione molto diffusa: guai a scambiare Talebani e Daesh, come viene chiamato lo Stato islamico. “Sono entrambi nostri nemici, li combattiamo entrambi, ma Daesh è un gruppo straniero, imposto dall’esterno, violento, con un’ideologia radicale. I Talebani erano al governo una volta. Sono afghani come noi. Hanno finanziatori stranieri, ma la leadership è afghana. Sbagliano, ma possono unirsi al governo. Anche loro sono stanchi della guerra”.
Il dialogo intra-afghano
Occupanti per qualcuno, fonte di sopravvivenza finanziaria e politica per altri, gli stranieri prima o poi se ne andranno. Rimarranno gli afghani a dover fare i conti, in tasca e tra di loro. “Gli afghani sono stanchi della guerra, stufi della politica, dei Talebani, del governo, degli americani, di tutti”, commenta Mariam Safi, direttrice di Drops, The Organization for Policy Research and Development Studies, un think tank con sede a Kabul con una produzione accademica di livello. Se anche arrivasse la firma del trattato tra Talebani e americani, sostiene Safi, si tratterebbe di un atto diplomatico preliminare a un processo ben più importante. Politico e insieme sociale: il dialogo intra-afghano.
“C’è una collisione di valori, di modelli culturali e istituzionali. Il conflitto non è solo militare”, sintetizza Hamidullah Zazai, direttore di Mediothek Afghanistan, associazione che promuove l’indipendenza dei media e il dialogo regionale. “La mia vita e quella di molti altri cambierà con i Talebani di nuovo nei palazzi del potere”, assicura questo agiato quarantaquattrenne molto conosciuto nella società civile. Stabilire quanto e come cambierà la forma di governo, o il modo in cui le attività legislative e giuridiche condizioneranno la vita dei cittadini è materia tutta da decidere.
A deciderlo non saranno solo gli attori istituzionali, legittimi o meno che siano. “La società è molto cambiata dal tempo dell’Emirato, è maturata. I Talebani saranno costretti a tenerne conto”, nota Najiba Ayubi, che oltre a dirigere The Killid Radio è anche poetessa e scrittrice. “Ho vissuto tutta la vita in guerra, come fosse un’ombra sulle mie spalle. Ma ogni guerra finisce, e spesso finisce con un negoziato. Si tratta di chiedersi che prezzo siamo disposti a pagare, cosa accettare e cosa no”.
Le premesse dell’accordo saltato nel settembre 2019 e recuperato a fine novembre recitano che dopo due settimane dalla firma con gli americani i Talebani incontreranno ufficialmente i membri della delegazione politica di Kabul. Il primo di una lunga serie di incontri. Affinché abbiano successo, devono diventare inclusivi, sostengono in molti. “Bene che parlino tra loro, ma governo e Talebani devono costruire un consenso tra la popolazione, sui passi da compiere, sulle scelte più importanti. Non sarà facile, siamo in forte ritardo”, spiega Mariam Safi. “Oggi il governo non è nelle condizioni di firmare alcun accordo di pace. Non ha legittimità perché non ha consenso. Va costruito rafforzando il rapporto con i cittadini”, continua la direttrice di Drops, per la quale serve “un flusso sistematico di informazioni e opinioni che dal basso e dalle periferie arrivi in alto, su su fino al tavolo negoziale”. Un processo che innervi di scelte collettive il “come” del negoziato con i Talebani. “Oggi c’è consenso sul fatto che il paese abbia bisogno di pace, ma non sul come arrivarci”, aggiunge Orzala Ashraf Nemat. Ciò che manca, fa notare la direttrice di Areu, “è il processo di riconciliazione sociale: la pace non è una stretta di mano, ma un lungo processo di riavvicinamento tra attori in conflitto. Non basta la firma di un trattato”. Soprattutto se mancano gli incentivi economici.
Il centro trafficato della città di Jalalabad (foto: G. Battiston)
L’economia di guerra
Oltre al conflitto di valori, di modelli culturali e aspirazioni sociali di cui parla Hamidullah Zazai, in Afghanistan c’è un conflitto ben più prosaico e non meno rilevante attorno alle risorse generate dal conflitto. È l’economia politica di guerra. Le cui leggi valgono sia per i Talebani sia per il governo di Kabul, la cui sopravvivenza è ancora legata prevalentemente ai donatori internazionali. Il ministro delle Finanze alcune settimane fa ha fornito numeri chiari: dal 2010 al 2019 il sostegno dei donatori internazionali è sceso del 50%. In futuro andrà peggio. La storia degli ultimi decenni insegna infatti che a ogni ritiro delle truppe corrisponde anche una riduzione degli aiuti civili. La chiamano “international fatigue”, nel caso di guerre prolungate come quella afghana.
I Talebani “dicono di volere uno Stato islamico, ma hanno negato ripetutamente i principi islamici, uccidendo migliaia di persone innocenti. Credo che abbiano un interesse maggiore a continuare la guerra, piuttosto che a terminarla”, continua Orzala Nemat. Le difficoltà di trasformare una viziosa ma florida economia di guerra, fatta di commerci illegali e alleanze mutevoli, in una virtuosa economia di pace è una delle ragioni che la rendono poco ottimista. “Ci sarà pace soltanto quando gli attori del conflitto potranno guadagnare dalla stabilità, e non più dalla guerra, quando ci sarà un interesse economico a un Afghanistan stabile. Mi spiace dirlo, ma per ora è una prospettiva lontana”, ci dice prima di congedarci dal suo ufficio nel cuore di Kabul.
Il lungofiume di Kabul, adiacente al bazar principale della città (foto: G. Battiston)