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USA2020

In Afghanistan Biden eredita un processo già avviato e gli errori di Trump

Giuliano Battiston
16 novembre 2020

La politica americana in Afghanistan è tracciata. Da Trump a Biden, per gli Usa la guerra è chiusa, ma modi e tempi del disimpegno avranno forti ripercussioni sulle istituzioni di Kabul e sul negoziato intra-afghano. Inaugurato il 12 settembre 2020 a Doha, figlio dell’accordo bilaterale tra Talebani e Usa del 29 febbraio, il negoziato, ancora in stallo, rischia di deragliare o di subire nuovi scossoni durante l’interregno tra Trump e Biden. La transizione e il periodo di incertezza indeboliranno la già fragile cornice diplomatica che ha condotto al tavolo negoziale i Talebani e il ‘fronte repubblicano’. Gli attori contrari alla risoluzione del conflitto proveranno ad approfittarne, mentre i due fronti principali aspettano di vedere le mosse di Biden prima di assumere decisioni vincolanti.

Se il binario americano è tracciato, quello della pace afghana diventa dunque più incerto: l’interregno rivelerà i limiti dell’operato di Trump. Biden dovrà riequilibrare il rapporto tra i Talebani, forti della legittimità e delle concessioni fatte loro da Trump, e il governo afghano, marginalizzato e costretto ad accettare decisioni assunte da Washington. Ma gli strumenti per farlo sono spuntati: Trump si è giocato tutte le carte in mano agli americani, a eccezione della leva finanziaria. Biden avrà altre priorità e urgenze e il binario di Trump potrebbe dispiacergli meno di quanto sembri.

L’eredità di Trump  

In Afghanistan, Joe Biden ha margini di manovra ridotti. Il presidente uscente lascia in eredità un dossier chiuso e impostato, difficile da modificare, a meno di strappi clamorosi che non sembrano nell’interesse e nelle intenzioni di Biden. Il quale eredita un accordo bilaterale con i Talebani sul ritiro delle truppe in cambio dell’impegno dei Talebani nel controterrorismo, l’avvio del negoziato intra-afghano, un contingente ridotto, che, così recita l’accordo con i Talebani del 29 febbraio, andrà ritirato del tutto entro il 31 aprile 2021.

Forma, modi e tempi potrebbero cambiare, non la sostanza: per incassare questi risultati, pensando di capitalizzarli anche in chiave elettorale, Trump ha dissipato il capitale diplomatico e le leve di pressione sui Talebani. Il movimento guidato da Haibatullah Akhundzada ha ottenuto legittimità politica internazionale, il ritiro (anche se non completo), il rilascio di 5.000 prigionieri. E non ha mai dovuto riconoscere la legittimità del governo afghano, contro cui continua a combattere.

Accettando di negoziare con i Talebani in modo bilaterale – cosa che nessuna amministrazione precedente aveva fatto – Trump ha sì incassato la fine delle ostilità tra Usa e Talebani, calendarizzato e avviato il ritiro, ma ha indebolito il governo afghano. Facendo accettare al presidente Ashraf Ghani, al consigliere per la sicurezza nazionale Hamdullah Mohib e a una parte dell’establishment politico decisioni che gli afghani avrebbero voluto evitare o posticipare, nell’ottica di un negoziato prolungato con i Talebani. Vale per esempio per il rilascio dei 5.000 detenuti Talebani in cambio dei 1.000 prigionieri governativi, uno scambio previsto dall’accordo di Doha tra Usa e Talebani, di cui però Kabul non è firmatario.

Le reazioni alla nomina di Biden

Sia i Talebani sia il governo di Kabul attendono segnali dalla nuova amministrazione. I primi vogliono essere rassicurati che le cose procederanno senza sorprese, in particolare il ritiro dei soldati americani. Il secondo vorrebbe invece che Biden forzasse di più la mano sui Talebani, concedendo più ampi margini di manovra al fronte repubblicano, ora in difficoltà.

Il 10 novembre i Talebani hanno reso pubblica una dichiarazione: elezioni e transizione di potere sono faccende interne agli Stati Uniti. L’accordo di Doha rimane “un documento eccellente”. La futura amministrazione sappia che “attuarlo è lo strumento più efficace e ragionevole per mettere fine alla guerra”. Abbiamo interessi comuni e concordati, continuano i Talebani: ritiro delle truppe, non interferenza dei paesi stranieri, nessuna minaccia dal suolo afghano verso per gli Usa. “L’Emirato islamico cerca buone relazioni con tutti e continuerà a rispettare l’accordo”. Ma attenzione ai “venditori di guerra, coloro che intendono continuare la guerra per i propri interessi”. Così i Talebani, con una posizione accomodante, che rassicura e allo stesso tempo cerca rassicurazioni di continuità da Washington. In particolare sul ritiro.

Finora l’amministrazione Trump ha rispettato i patti con i Talebani: le truppe sono passate da 13.000 a febbraio a 8.600 a giugno, sono ora 4,500 circa ed entro fine gennaio verranno probabilmente ridotte a 2.500, come annunciato da Robert Charles O’ Brien, consigliere per la sicurezza nazionale Usa. L’accordo di Doha prevede il ritiro completo entro il 31 aprile 2021.

Le recenti nomine di Trump, tra cui il nuovo segretario alla Difesa, Christopher Miller, e il colonnello Douglas MacGregor, convinto sostenitore del ritiro immediato, segnalano la volontà di procedere in fretta. Confermata dalla notizia del viaggio di giovedì a Washington del generale Austin S. Miller, comandante delle truppe Usa e Nato in Afghanistan. Trump di recente ha detto di voler portare a casa tutti i soldati entro Natale, ma i tempi della logistica sono incompatibili con un ritiro completo perfino entro la fine di gennaio 2020: in Afghanistan ci sono 4.500 soldati Usa, 5.000 della Nato, 15.000 contractor e poi elicotteri, camion, armi, strumenti sensibili che il Dipartimento della Difesa Usa vuole riportare indietro, non abbandonare o distruggere. Serviranno mesi per il ritiro completo. Durante i quali Kabul spera di rafforzarsi.

Il presidente Ghani già l’8 novembre si è congratulato con Biden e con la vice-presidente, Kamala Harris, alludendo anche all’eventuale mantenimento di una forza di contro-terrorismo in Afghanistan, un’opzione che Biden coltiva da tempo. Altri esponenti politici, come il vice-presidente Sarwar Danesh, hanno invece invocato una revisione dell’accordo di Doha e maggiori pressioni sui Talebani affinché riducano la violenza. Sardesh ha sostenuto che il governo non ha sottoscritto l’accordo di Doha tra Usa e Talebani e “non ha responsabilità e obblighi giuridici”. Così anche il vicepresidente Amrullah Saleh, già a capo dei servizi segreti, scampato a più di un attentato e voce critica sul processo di pace: “non riconosciamo l’accordo tra Usa e Talebani. Ne abbiamo preso nota, ma non ne siamo signatari”.

A Doha, dove il 12 settembre hanno cominciato a negoziare alla presenza del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, i Talebani e il fronte repubblicano non si accordano sull’agenda, sulle procedure, sui criteri per dirimere le controversie, sulla necessità o meno di un mediatore terzo. Il passaggio di poteri tra Trump e Biden creerà ulteriori occasioni di frattura tra i due fronti, ora in posizione attendista, e all’interno di ciascun fronte. Ma affinché il negoziato non deragli prima di entrare nel vivo, è indispensabile che Talebani e Kabul continuino a parlarsi, a dispetto degli attori interni ed esterni che si oppongono al negoziato e che approfitteranno di questo periodo per guadagnare terreno. In attesa che Biden faccia capire le proprie intenzioni.

La posizione di Biden

I margini di manovra di Biden sono stretti, ma la cosa potrebbe dispiacergli meno di quanto  sembri. Con il suo stile imperioso e capriccioso, Trump ha soltanto avviato e accelerato quel disimpegno invocato dallo stesso Biden a partire dal 2008-2009. Come ricorda Kate Clark, Biden è partito da posizioni interventiste, muscolari, ma dal 2008 ha cambiato atteggiamento. Da allora considera la guerra afghana impossibile da vincere, il governo di Kabul corrotto e inefficiente. È tanto disilluso da aver perfino rinunciato alla retorica della difesa dei diritti delle donne. Da anni chiede una presenza leggera, ridotta, con compiti di contro-terrorismo. Ha criticato l’approccio di contro-insorgenza dei generali Stanley McChrystal e David Petraeus, così come l’aumento (surge) di 100,000 truppe tra il 2009 e il 2012. Un orientamento ribadito più di recente, la scorsa primavera, in un articolo per Foreign Affairs in cui scrive: “È tempo di chiudere le guerra infinite. Sostengo da tempo che dovremmo riportare la maggior parte delle nostre truppe a casa da Afghanistan e Medio Oriente. Concentriamoci sul controterrorismo”. A settembre, in un’intervista concessa a Stars and Stripes, Biden ha confermato di “sostenere il ritiro delle truppe. Ma il problema è che dovremo comunque preoccuparci del terrorismo” e dello Stato islamico. Da qui, l’idea di lasciare sul terreno una forza di controterrorismo. “non più di 1.500, 2.000” uomini. Una presenza esclusa dall’accordo di Doha e che i Talebani non sembrano disposti ad accettare.

Rivedere quell’accordo è difficile. Revocarlo, impossibile: sarebbe una replica di quanto fatto da Trump con l’accordo sul nucleare iraniano. Biden potrebbe rallentare il ritiro, ma invertire la tendenza è altrettanto improbabile. Vorrebbe dire riportare gli Stati Uniti dentro una guerra da cui si stanno tirando fuori, senza successo, con estrema fatica e costi enormi. Biden parte dalla consapevolezza di avere margini stretti. Come dichiarato nell’intervistata citata, sa che Trump ha “rafforzato i nostri avversari e sperperato la nostra leva” di pressione. Dunque, cosa farà?

È probabile che introduca qualche aggiustamento, nella continuità. Cambieranno i modi, innanzitutto. Il suo sarà un atteggiamento più razionale, prevedibile, coerente, una volta stabilita o confermata la rotta. Ascolterà di più il partner marginalizzato nei mesi che hanno portato all’accordo di Doha e poi al negoziato intra-afghano, il governo di Kabul, cercando di ricucire i rapporti con l’establishment della sicurezza nazionale, spesso ai ferri corti con l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, che potrebbe comunque venire riconfermato. E proverà a puntare i piedi con i Talebani, più di quanto non abbia fatto il predecessore. Probabilmente Biden non riuscirà a tenere il punto sulla presenza di una forza residua di controterrorismo sul suolo afghano, ma chiederà di più ai Talebani in due ambiti: la riduzione della violenza e i legami con al-Qaeda.

L’accordo di Doha condiziona il ritiro delle truppe all’impegno dei Talebani nella rottura di ogni legame con al-Qaeda. Di recente, in Afghanistan sono stati uccisi esponenti di spicco di al-Qaeda, tra cui Abu Muhsin al-Masri, e la nuova amministrazione pretenderà prove concrete di un allontanamento tra il movimento talebano e la galassia qaedista. Lo stesso vale per la riduzione della violenza, una condizione esclusa dall’accordo scritto, ma concordata a voce. L’ultimo rapporto di Unama certifica che i Talebani hanno attaccato più afghani, civili e militari, rispetto all’anno scorso, hanno ucciso più civili del 2019, mentre aumentano attacchi rivendicati e omicidi mirati. Biden potrebbe insistere per la riduzione della violenza e per quel cessate il fuoco permanente citato anche nell’accordo di Doha. Usando come leva il calendario del ritiro. Una condizione che può usare, ma solo con prudenza.

In chiave regionale, un eventuale rallentamento dei tempi del ritiro potrebbe consentirgli di esercitare maggiori pressioni sul Pakistan. Il 7 novembre il primo ministro pachistano Imran Khan ha dichiarato: “continueremo a lavorare con gli Stati Uniti per la pace in Afghanistan e nella regione”. Biden potrebbe far pesare a Islamabad i legami troppo stretti con Pechino, la corruzione istituzionale, il mancato rispetto dei diritti umani. La riapertura del dialogo con Tehran sul nucleare potrebbe invece favorire la risoluzione del rompicapo afghano e permetterebbe a Kabul di uscire dalla stretta tra l’alleato strategico e il vicino ingombrate, in conflitto tra loro.

Qualunque siano le decisioni di Biden, la guerra afghana è chiusa. Gli Stati Uniti hanno altre priorità rispetto al 2009, l’anno di insediamento della prima presidenza Obama, quando la guerra in Afghanistan era percepita come centrale. Oggi non lo è più e Trump, presidente sconfitto alle urne, può ritenersi soddisfatto. Come è stato osservato, se Biden seguirà il suo tracciato, Trump si intesterà il ritiro e un eventuale accordo di pace. Se invece il suo successore dovesse rallentare il ritiro, e il negoziato saltare, Trump potrà rivendicare comunque di aver portato a casa migliaia di soldati, scrollandosi di dosso l’onere del fallimento politico. Che per ora grava tutto sulle spalle dei civili afghani.

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AUTORI

Giuliano Battiston
Giornalista e ricercatore freelance

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