A due anni dall’insediamento nel settembre 2014, il governo di unità nazionale (National Unity Government, Nug) ha deluso le aspettative della popolazione afghana, ma sembra aver superato un’importante sfida politico-istituzionale, che avrebbe potuto decretarne la fine. Il governo si basa su un compromesso politico. Per porre fine alla lunga contesa sugli esiti del ballottaggio presidenziale del 14 giugno 2014, il segretario di Stato Usa John Kerry ha sollecitato un accordo che prevede un governo bicefalo: accanto alla carica del presidente – attribuita ad Ashraf Ghani, già alto funzionario della Banca mondiale e ministro delle Finanze, con un bacino elettorale radicato soprattutto nelle aree sud e sud-est del paese, a maggioranza pashtun – è stata introdotta una nuova figura istituzionale, quella del Chief of Executive Officer (Ceo), con poteri «simili a quelli di un primo ministro», attribuita allo sfidante Abdullah Abdullah, esponente di spicco dell’ex Alleanza del nord e del Jamiat-e-Islami, il partito a prevalenza tagika fondato negli anni Settanta da Burhanuddin Rabbani, radicato nelle zone centrali e settentrionali del paese.
L’inedito esperimento di ingegneria istituzionale non ha funzionato e ha finito con il paralizzare le attività dell’esecutivo, istituzionalizzando la rivalità che intendeva sanare. L’accordo non prevede infatti alcun meccanismo certo per la risoluzione delle controversie sulle competenze dei due principali attori governativi. Da qui, la creazione di meccanismi decisionali farraginosi, fonte di instabilità e incertezza istituzionale. E una serie di accuse reciproche, come dimostra il discorso dell’agosto scorso con il quale Abdullah Abdullah ha esplicitamente accusato il presidente Ghani di aver monopolizzato il potere e di «non essere adatto alla presidenza».
Non è un caso dunque che, ancora oggi, i principali punti dell’accordo sottoscritto il 21 settembre 2014 rimangano carta bianca. I più rilevanti sono due: entro due anni dalla firma, la convocazione di una grande assemblea, una Loya Jirga che modifichi la Costituzione e decida se introdurre o meno la carica del “primo ministro” (ora legittimata soltanto da un decreto presidenziale); la riforma elettorale.
Si tratta di questioni legate. Dal momento che l’85% dei delegati della Loya Jirga sono eletti in modo diretto o indiretto attraverso il voto relativo ai consigli distrettuali e della Wolesi Jirga (la Camera bassa), prima di poter convocare una Loya Jirga si devono indire le elezioni parlamentari e quelle per i consigli distrettuali. Condizione preliminare è però la riforma elettorale, su cui soltanto di recente Ghani e Abdullah sembrano aver trovato un’intesa, al ribasso. La questione politicamente più rilevante e delicata rimane comunque quella della Loya Jirga, a causa della quale nei mesi scorsi il Nug ha subito una forte pressione politica, rischiando di cadere. All’avvicinarsi della scadenza dei due anni dalla firma dell’accordo, diversi esponenti dell’opposizione hanno infatti contestato la mancata convocazione della Loya Jirga e, dunque, la stessa legittimità istituzionale del Nug.
Anche se politicamente indebolito, il governo è sopravvissuto all’offensiva per due ragioni: la debolezza delle opposizioni e il sostegno della comunità internazionale, che in assenza di alternative ha preferito accordare credito al Nug, come dimostrano i 15,2 miliardi di dollari stanziati al termine della conferenza dei donatori di Bruxelles di inizio ottobre. A dettare la linea, ancora una volta, è stato John Kerry, che il 9 aprile 2016 a Kabul ha esteso de facto il mandato del governo di unità nazionale. Accolta con sollievo da Ghani e Abdullah, la decisione è stata respinta dalle opposizioni come un’indebita intromissione negli affari interni afghani, che subordina la prima fonte del diritto, la Costituzione, a un semplice accordo politico.
Al di là del ruolo giocato dagli attori internazionali, l’impasse in cui si ritrova il Nug rimanda a una questione squisitamente interna, relativa all’architettura politico-istituzionale con cui si intende governare il paese: la grande questione irrisolta della governance dell’Afghanistan post-talebano. Affrontata già negli incontri preliminari alla conferenza di Bonn del 2001, è stata particolarmente dibattuta nel corso della Loya Jirga costituzionale del 2003, quando si sono contrapposti due grandi blocchi etnico-politici: da una parte il blocco “pashtun”, con l’idea di un sistema presidenziale fortemente centralizzato, modellato sulla Costituzione del 1964, poi adottata con alcune modifiche; dall’altra il blocco “tagiko”, propugnatore di un sistema di governo più rappresentativo e meno centralizzato, che includesse la carica del primo ministro, anche come contrappeso alla storica, contestata egemonia dei pashtun come reggenti dello stato-nazione.
Dietro all’antagonismo e alla reciproca diffidenza personale tra Ashraf Ghani e di Abdullah Abdullah, si gioca dunque una partita cruciale: quella tra società ed esercizio del potere.
Giuliano Battiston, Ricercatore indipendente, Afghana, ed esperto di Afghanistan