“Diminuire le vittime civili fino a zero”. È il passaggio più significativo del documento redatto alla fine della conferenza intra-afghana che si è tenuta per due giorni, il 7 e l’8 luglio a Doha, in Qatar. Promossa dai governi della Germania e del Qatar, la conferenza ha visto confrontarsi da una parte una delegazione di Talebani, guidata da Sher Mohammad Abbas Stanikzai, a capo dell’ufficio politico degli studenti coranici a Doha, dall’altra alcuni rappresentanti della società afghana e del governo (questi ultimi a titolo personale, non ufficiale).
Sebbene si trattasse del terzo incontro del genere, dopo i due tenuti a febbraio e a maggio a Mosca, è stata la prima occasione in cui i Talebani hanno accettato di discutere pubblicamente con i rappresentanti del governo, sempre ritenuto un interlocutore illegittimo. Non si tratta ancora di un negoziato vero e proprio, ma, secondo quanto dichiarato dal co-organizzatore Markus Potzel, rappresentante speciale di Berlino per l’Afghanistan e il Pakistan, del “primo passaggio per trovare una comprensione comune tra le parti belligeranti”.
Che si trovasse un terreno comune di intesa non era affatto scontato alla vigilia, soprattutto dopo che un incontro analogo era naufragato ad aprile, a causa delle diatribe sulla composizione della delegazione pro-governativa. A Doha, questa volta ci sono voluti due giorni di discussioni e ben 14 ore di confronto sul testo finale, la cui versione in inglese è stata resa pubblica nella serata di lunedì 8 luglio da Zalmay Khalilzad, l’inviato incaricato dal presidente USA Donald Trump di negoziare la pace in Afghanistan.
Il documento non è vincolante, ma contiene alcuni passaggi promettenti e alcune lacune significative. Segno che il dialogo intra-afghano comincia a essere autenticamente tale, ma che la strada da fare per trovare un’intesa è ancora lunga. I delegati si sono trovati d’accordo nello stabilire i punti salienti – anche se generici – di una road-map che conduca a una “pace sostenibile, dignitosa e prolungata”, che rispetti “l’integrità territoriale e islamica” del paese, “la giustizia sociale e politica [e la] sua indipendenza”. Si va dalla istituzionalizzazione di un sistema islamico (passaggio controverso ed equivoco, voluto dai Talebani che non accettano l’attuale Repubblica islamica) all’inizio di un processo di pace vero e proprio, dall’annuncio di riforme che modifichino le istituzioni (tra cui l’esercito) pur mantenendone le caratteristiche fondamentali alla richiesta della non interferenza da parte di Paesi stranieri e regionali.
Affinché si dia un negoziato intra-afghano efficace e inclusivo – così recita il testo – occorre che gli attori del conflitto evitino minacce, che usino un linguaggio appropriato e non alimentino il conflitto e lo spirito di vendetta. Al contrario, va creato un ambiente favorevole alla pace, “riducendo violenza e devastazione [e] minimizzando le vittime civili fino allo zero”. Non è il cessate-il-fuoco prolungato sul quale ha insistito a lungo la delegazione della società e del governo afghano, invocato anche dai membri della Loya jirga tenutasi all’inizio di maggio a Kabul, ma si tratta comunque di un passaggio importante. Perché i Talebani si impegnano non solo a ridurre la violenza, ma anche a “garantire la sicurezza delle istituzioni pubbliche, come scuole, madrase religiose, ospedali, mercati, aree residenziali, dighe e altri luoghi di lavoro”.
Se le promesse avanzate nel documento venissero rispettate, ne beneficerebbe la popolazione afghana, che è memore dello straordinario periodo di pace durante i tre giorni di tregua del giugno 2018, ma continua a soffrire le conseguenze della guerra, nonostante i “successi” rivendicati da Zalmay Khalilzad nell’ultimo round di negoziati con i Talebani. Iniziato il 29 giugno e interrotto per due giorni proprio per consentire l’incontro intra-afghano, ripreso martedì 9 e sospeso di nuovo per qualche giorno in attesa che i Talebani possano discuterne i risultati con la leadership in Pakistan, il settimo round del negoziato “è stato il più produttivo mai avuto finora”, ha dichiarato Khalilzad, a cui hanno fatto eco le parole di Suhail Shaheen, portavoce dell’ufficio politico dei Talebani a Doha, che si è detto molto soddisfatto.
In ballo c'è la firma dell'accordo di massima concordato già lo scorso gennaio tra Khalilzad e la delegazione talebana guidata da mullah Abdul Ghani Baradar, liberato dalle carceri pachistane nell'ottobre 2018, e che include 4 punti principali: il ritiro delle truppe straniere in cambio della garanzia dei Talebani a impedire che l’Afghanistan diventi base operativa dei jihadisti a vocazione globale; un cessate il fuoco e l’inizio del negoziato intra-afghano.
Nominato nel settembre 2018, Khalilzad non ha avuto molto tempo a disposizione, perché l’obiettivo dell’amministrazione Trump – secondo quanto dichiarato dal segretario di Stato Usa Mike Pompeo durante la visita di fine giugno a Kabul – è quello di trovare un accordo entro l’1 settembre 2019, prima delle elezioni presidenziali afghane del 28 settembre e ben prima di quelle statunitensi del novembre 2020, quando Trump cercherà un secondo mandato come il suo omologo afghano, Ashraf Ghani, recentemente rientrato nella partita negoziale dopo esserne stato escluso.
A dispetto delle voci di corridoio a Doha, Washington e Kabul, che danno come imminente la firma dell’accordo tra Talebani e Khalilzad, la partita negoziale e, soprattutto, il processo intra-afghano di pace rimangono complicati. Anche se la firma dovesse arrivare presto, rimarrebbero in sospeso tante questioni, alcune delle quali già escluse dal documento sottoscritto a Doha lunedì 8 luglio. Per esempio: che tipo di architettura politico-istituzionale accetteranno i Talebani? E quali garanzie possono dare sui diritti fin qui acquisiti dalla società afghana?
Non è un caso che subito dopo la pubblicazione del documento finale di Doha siano emerse delle incongruenze tra la versione in inglese del testo e quelle in dari e pashto, le due lingue maggioritarie in Afghanistan. Se nella prima si assicurano “i diritti delle donne in ambito politico, sociale, economico, educativo, culturale, all’interno della cornice dei valori islamici”, nelle altre due il riferimento, pur vago, ai diritti delle donne sarebbe scomparso, mentre nella versione in lingua pashto sarebbe stato incluso il riferimento al ritiro delle truppe straniere, assente nel testo inglese e dari. Un semplice problema di traduzione, ha chiosato l’inviato Khalilzad. Che evidenzia però i problemi che l’intera società afghana dovrà affrontare, una volta che le armi verranno messe a tacere.