Cominciato venerdì 31 luglio in occasione della festività islamica dell’Eid al-Adha, l’ultimo cessate il fuoco tra i Talebani e il governo di Kabul apre una finestra d’opportunità inedita sull’inizio del negoziato intra-afghano, ma mostra anche i limiti dell’accordo tra i Talebani e gli Stati Uniti firmato a Doha lo scorso febbraio e i tanti ostacoli lungo la strada verso la pace.
Annunciato nei giorni scorsi da Suhail Shaheen, portavoce dell’ufficio politico dei Talebani a Doha, Qatar, il cessate il fuoco di tre giorni è stato subito accolto dal presidente Ashraf Ghani, che a sua volta ha annunciato l’imminente liberazione di 500 detenuti talebani dalle carceri governative. Si tratta però di altri detenuti rispetto a quelli indicati in una lista di 5.000 detenuti, fornita dagli studenti coranici ai rappresentanti istituzionali afghani dopo l’accordo di Doha con gli americani.
Siglato il 29 febbraio 2020 da mullah Baradar, uomo della vecchia guardia a capo della delegazione talebana, e da Zalmay Khalilzad, inviato speciale del presidente Usa Donald Trump, l’accordo prevede 4 punti principali: il ritiro delle truppe straniere dal Paese e dalle basi militari; l’impegno dei Talebani a rompere con al-Qaeda e a impedire che il territorio venga usato da gruppi jihadisti contro la sicurezza degli Usa e degli alleati; l’inizio dei dialoghi intra-afghani e la discussione su un cessate il fuoco prolungato.
Per facilitare il negoziato interno, l’accordo prevede uno scambio di prigionieri tra Kabul e i Talebani. Avrebbe dovuto iniziare e concludersi entro il 10 marzo scorso, ma è stato più volte rimandato a causa delle diverse interpretazioni del testo dell’accordo. Meglio, di due testi. L’accordo tra Usa e Talebani – “Agreement for Bringing Peace to Afghanistan” – prevede il rilascio fino a 5.000 detenuti talebani dalle carceri governative e fino a 1.000 “governativi” dalle prigioni dei militanti. Ma la dichiarazione congiunta firmata lo stesso 29 febbraio 2020, ma Kabul, tra il governo Usa e quello afghano prevede soltanto un generico impegno di quest’ultimo a favorire il rilascio dei Talebani, senza spiegare quanti, come, quando.
Sulla diversità dei due testi si è molto discusso e polemizzato. La situazione si è sbloccata soltanto quando, l’11 marzo 2020, due giorni dopo la cerimonia di inaugurazione del suo secondo, contestato mandato presidenziale, il presidente Ghani ha firmato un decreto autorizzando il rilascio dei primi Talebani.
Giovedì 30 luglio i Talebani hanno dichiarato di aver completato il rilascio di 1.005 detenuti governativi, mentre il governo di Kabul ha liberato finora 4.600 Talebani circa. Ai quali vanno aggiunti i 500 di cui ha parlato il presidente Ghani nel discorso di celebrazione della festività dell’Eid, venerdì 31 luglio. Il nodo politico rimanda però a quei 400 detenuti che fanno parte dell’originaria lista talebana ma che per ora sono stati esclusi dallo scambio-prigionieri. Ghani sostiene infatti che si tratti di detenuti che hanno commesso gravi crimini, anche contro gli interessi stranieri in Afghanistan, rimandando la decisione sulla loro scarcerazione a una Loya Jirga, un’assemblea di notabili.
Politicamente la scelta di Ghani è scaltra, ma rischiosa. Sostenendo di non avere l’autorità per rilasciare questi 400 detenuti “speciali”, rimettendo la decisione finale nelle mani di una Loya Jirga, il presidente scarica su altri il peso di una rilevante responsabilità morale e politica, legata alle richieste di giustizia degli afghani, fin qui negate. Ma fa finta di dimenticare che lo scorso novembre si era già assunto la responsabilità di liberare tre esponenti della rete Haqqani, l’ala più oltranzista della galassia degli insorti, in cambio della liberazione dei due docenti dell’American University of Kabul sequestrati dai Talebani. Uno scambio funzionale alla ripresa del negoziato tra Washington e Talebani, interrotto bruscamente il 7 settembre 2019 dal presidente Trump che accusava gli studenti coranici di violenza ingiustificata contro i soldati americani. In quel frangente Ghani aveva avallato lo scambio voluto dagli Stati Uniti con esibita riluttanza – “un boccone amaro da ingoiare per la pace” –, ricevendo critiche dalla società civile.
La decisione più recente di rilasciare 500 detenuti ma non gli ultimi 400 della “lista talebana” è rischiosa perché potrebbe allontanare dal tavolo negoziale i Talebani, i quali hanno sempre sostenuto e ribadito – fino a poche ore fa – di considerare il rilascio di tutti i detenuti della lista come condizione preliminare al negoziato. Che i Talebani siano ora disposti a cedere sui rimanenti 400 detenuti è da vedere, anche se in un recente messaggio il leader supremo, mullah Haibatullah Akhundzada, ha adottato toni particolarmente ecumenici, e gli americani, con Khalilzad in prima fila, premono affinché il negoziato intra-afghano abbia finalmente inizio, 5 mesi in ritardo rispetto alla data prevista dall’accordo di Doha.
Un accordo che ha funzionato per gli aspetti relativi al rapporto tra americani e Talebani, molto meno invece per quelli che rimandano alle relazioni con il governo di Kabul, escluso da quel negoziato e ancora alla ricerca di un posto al tavolo negoziale. Sul fronte Usa-Talebani, il Pentagono recentemente ha rivendicato di aver rispettato gli impegni assunti a Doha: come previsto dal testo dell’accordo, entro 135 giorni dalla firma i soldati statunitensi sono passati da 13.000 a 8.500 circa e 5 basi militari sono state consegnate agli afghani. Il resto del ritiro, recita l’accordo, è condizionato al rispetto degli impegni assunti dai militanti islamisti. Che hanno smesso di attaccare le truppe straniere, ma ai quali viene contestato di non rispettare altri termini dell’accordo, o di non sembrare veramente disposti alla pace.
Sono due i punti più controversi: il primo è il rapporto con al-Qaeda, che secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite sarebbe ancora “stretto, basato su amicizia, una storia di battaglie condivise e simpatia ideologica”. Una tesi che lo stesso inviato speciale di Trump, Zalmay Khalilzad, non condivide, e che è stata rigettata al mittente dai Talebani, i quali ricordano (come fanno alcuni ricercatori) che simili rapporti esprimono le posizioni dei servizi di informazione degli Stati membri, non necessariamente imparziali. Rimane il fatto che la leadership talebana non ha mai dichiarato in modo esplicito di voler rompere il legame formale, per quanto problematico e spesso frainteso, con al-Qaeda.
L’altro punto è il livello della violenza. Secondo il generale Kenneth McKenzie, a capo dello U.S. Central Command (Centcom), i Talebani non avrebbero soddisfatto gli impegni. “Ci aspettavamo di vedere una riduzione della violenza. Mentre i Talebani hanno evitato scrupolosamente di attaccare le forze americane o della coalizione, la violenza contro gli afghani è la più alta da molto tempo a questa parte”.
Secondo il Consiglio di sicurezza nazionale afghano, nella settimana 14-21 giugno, per esempio, i Talebani avrebbero compiuto 422 attacchi in 32 delle 34 province, uccidendo 291 membri delle forze di sicurezza afghane e ferendone 550, facendo di quella settimana “la più mortale degli ultimi 19 anni” per i soldati afghani. Il presidente Ghani ha ricordato invece che tra il 29 febbraio – giorno della firma dell’accordo di Doha – e il 21 luglio sarebbero stati 3.560 i membri delle forze di sicurezza uccisi, 6.781 i feriti.
I Talebani sostengono al contrario di aver ridotto le operazioni contro le forze di sicurezza afghane del 40%, di aver evitato di colpire Kabul e altre città importanti, e hanno accusato a loro volta gli Stati Uniti di aver violato l’accordo di Doha con operazioni con droni in zone di non-combattimento nelle province di Helmand, Ghazni e Zabul.
Come nel caso delle percentuali di territorio controllate dagli insorti o dalle forze pro-governative, sempre diverse a seconda che ne parli l’uno o l’altro attore del conflitto, le oscillazioni anche qui dipendono dai criteri adottati nel registrare le operazioni militari. Ma rimane un fatto: i Talebani non hanno rinunciato alla violenza come strumento di condizionamento politico e strategico-diplomatico, ai danni non solo delle forze di sicurezza, ma anche della popolazione civile.
La valutazione del Pentagono, riportata nell’ultimo rapporto Sigar, appare più realistica :“i Talebani stanno calibrando l’uso della violenza per disturbare e danneggiare le forze di sicurezza afghane e il governo, ma rimangono su un livello percepito come compatibile con i vincoli dell’accordo, probabilmente per sollecitare il ritiro delle truppe americane e costruire condizioni favorevoli per l’Afghanistan post-ritiro”.
La diatriba sul livello di violenza “accettabile” da parte dei Talebani illumina dunque un aspetto cruciale: la riduzione della violenza verso le forze afghane non fa parte del testo dell’accordo di Doha, ma delle rassicurazioni verbali a margine del negoziato. La natura bilaterale, non trilaterale dell’accordo di Doha ha finito inevitabilmente per produrre delle controversie tra i Talebani, che quell’accordo hanno potuto negoziare per mesi a Doha con gli americani, e il governo di Kabul, escluso dalle negoziazioni ma destinatario delle decisioni che ne derivano. Lo stesso vale per la questione dello scambio dei prigionieri e dei due differenti testi che ne definivano modi e condizioni.
Eppure, alla fine della tregua iniziata venerdì 31 luglio i Talebani e i rappresentanti governativi potrebbero finalmente cominciare a negoziare. Lo faranno da posizioni diverse: i Talebani sono forti della legittimità politica riconosciutagli dagli americani, che li considerano ormai interlocutori diplomatici tout court, sullo stesso piano dell’amministrazione di Kabul, come dimostrano le dichiarazioni del segretario di Stato Usa Mike Pompeo e dell’inviato speciale Khalilzad, pronti a bacchettare Ghani e Abdullah per i continui dissidi e le inadempienze, ma cauti verso i Talebani. Mentre il fronte governativo continua a essere frammentato, nonostante l’accordo politico raggiunto lo scorso maggio, dopo mesi di estenuanti polemiche e accuse reciproche, tra il presidente Ghani e Abdullah Abdullah, suo sfidante alle elezioni e ora a capo della Commissione che deve condurre il negoziato con i Talebani, anche se è il presidente Ghani a dettare ancora l’agenda.
Ora sia i Talebani sia il governo di Kabul devono dimostrare di saper rinunciare a qualcosa, se vogliono che il cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri portino al negoziato vero e proprio. In parte lo hanno fatto, ma non basta: il presidente Ghani è tornato sui suoi passi cedendo sui tempi di rilascio dei detenuti della lista dei Talebani, anche se senza i 400 di “alto profilo” su cui deciderà la Loya Jirga, ma ha incassato un nuovo cessate il fuoco, parziale per ora; i Talebani hanno ceduto sul cessate il fuoco, che avrebbero voluto posticipare dopo l’inizio del negoziato, ma incassano il rilascio dei detenuti, anche se incompleto. Concessioni reciproche che potrebbero finalmente condurre al negoziato intra-afghano. Si tratterebbe in ogni caso soltanto dell’inizio di un lungo, delicatissimo processo diplomatico dagli esiti molto incerti.