I talebani avanzano convergendo su Kabul e le altre principali città – Kandahar, Mazar-i Sharif, Kunduz – di fatto cingendole d’assedio attraverso un’incontenibile ondata insurrezionale sempre meglio armata e motivata. Di fronte al progredire dei talebani, molte delle difese afghane cedono, certo non tutte, ma in numero sufficiente per mettere in crisi uno stato sempre più debole e prossimo al collasso. Per questa ragione a molte unità militari è stato dato l’ordine di convergere sulle capitali provinciali, per poterle meglio difendere.
Questa la situazione al 12 luglio: 204 i distretti controllati dai talebani (erano 73 il 1° maggio); 210 quelli contestati (erano 124); 70 i distretti controllati dal governo (erano 115). In due mesi il governo afghano ha perso il controllo effettivo del 30% del territorio, mentre i talebani hanno triplicano quello da loro occupato, ottenendo il controllo effettivo del 50% del paese; percentuale che sale all’85% considerando anche le aree contestate dove il governo afghano non è in grado di garantire la sicurezza ai cittadini.
Il caos regna sovrano nel paese e la guerra civile potrebbe riportare l’Afghanistan a una situazione molto simile a quella del 1989-1996, ma molto più violenta. Il generale Austin S. Miller, comandante delle residue forze militari straniere in Afghanistan, ha affermato di essere preoccupato per la rapida caduta in mano talebana dei distretti in tutto il paese, molti dei quali dall’elevato valore strategico. Secondo il generale Miller, inoltre, la presenza di milizie, o forze di sicurezza locali (Arbakai) schierate a supporto delle forze di sicurezza nazionali potrebbero portare il paese alla guerra civile; un’ipotesi che Miller dà per certa se le cose dovessero continuare così: «uno scenario che dovrebbe preoccupare tutto il mondo». Una preoccupazione condivisa anche dall'inviato speciale degli Stati Uniti, Zalmay Khalilzad: «Ha ragione [il generale Miller] sarebbe terribile. Se i talebani spingeranno per questo, ci sarà una lunga guerra».
Da Herat, sotto assedio, Ismail Khan annuncia l’inizio della “nuova” guerra civile
Il contingente italiano ha lasciato la base di Herat da meno di due settimane; oggi la città, capoluogo provinciale e più grande città dell’ovest del paese, è sotto assedio, le strade di accesso sono controllate dai talebani che, insieme a tutti i distretti confinanti e a tutte le basi costruite e a lungo presidiate dagli italiani – da Bala Murghab, a Bala Baluk a Shindand – hanno preso il controllo anche del posto di frontiera al confine con l’Iran, chiudendo così l’accesso al paese e l’eventuale via di fuga per molti dei civili (e militari) che stanno tentando di fuggire dalle violenze talebane. A garantire la sicurezza del perimetro urbano della città di Herat sono rimaste alcune unità delle forze di sicurezza nazionali a cui si sono uniti i combattenti fedeli al potente ex-comandante mujaheddin Ismail Khan che, senza sorprendere chi da tempo segue le vicende afghane, ha annunciato l’avvio della resistenza armata contro i talebani. È la chiamata alle armi, rilanciata anche da altri importanti ex-mujaheddin, che sancisce l’inevitabile avvio della guerra civile.
Chi è l’uomo che ha dato il via alla guerra di resistenza anti-talebana?
Mohammad Ismail Khan è uno dei più potenti ex-mujaheddin e warlord in vita, impegnato nella lotta anti-sovietica, prima, e contro i talebani poi. Tagico di Herat, Ismail Khan è un ex ufficiale dell’esercito afghano che nel 1979, all’inizio dell’occupazione dell’Afghanistan, diede inizio a una rivolta contro i “consiglieri” militari sovietici che lo portò a divenire il più importante comandante mujaheddin della zona di Herat e, nel 1992, governatore della provincia. Impegnato nella successiva guerra civile, combatté contro i talebani sino a quando non fu catturato nel 1997. Riuscì a fuggire divenendo, successivamente, uno degli elementi chiave della coalizione militare anti-talebana (Alleanza del Nord/Fronte Unito) che agevolò l’operazione Enduring Freedom per l’occupazione dell’Afghanistan da parte delle forze statunitensi nel 2001. Riassunta la funzione di governatore, rimase a Herat sino al 2004, momento in cui l’allora presidente Hamid Karzai lo chiamò a Kabul per ricoprire l’incarico di Ministro dell’acqua e dell’energia al fine di “distrarlo” da quello che era divenuto un vero e proprio feudo personale fatto di interessi economici e politici; una scelta politica “simbolica” volta a marginalizzare un uomo, divenuto troppo potente e influente, che era riuscito a raccogliere intorno a sé un grande consenso di massa. Ismail Khan è il “leone di Herat” ed “Emiro dell’ovest”, come viene chiamato ancora oggi dai suoi sostenitori.
Come già fece alla fine del 2012 quando la NATO annunciò il via alla “transizione irreversibile” e al disimpegno militare voluta da Obama, ora a fronte dell’effettivo ritiro straniero e in previsione del collasso dello stato afghano, Ismail Khan ha pubblicamente mobilitato tutte le forze disponibili a lui fedeli al fine di contrastare l’avanzata talebana: sono le stesse milizie che, nel corso degli ultimi venti anni, hanno aderito ai programmi di smobilitazione e disarmo (DDR, Disarmament, Demobilization, and Reintegration program) costati milioni di dollari agli Stati Uniti e alla Nato.
L’organizzazione militare fedele a Ismail Khan
Da almeno dieci anni, Ismail Khan ha riunito in un distretto di Herat – da lui fatto costruire e messo a disposizione delle famiglie dei “suoi” mujaheddin morti in guerra – migliaia di sostenitori (tra questi molti esponenti locali di spicco) incoraggiandoli a riorganizzarsi e ad avviare un’attività di coordinamento a livello distrettuale e provinciale basata su strutture di comando e controllo. L’attività di reclutamento, così come la costituzione di comandi e gruppi a livello locale, ha portato alla mobilitazione e alla costituzione del Mujaheddin Council, di fatto un comando militare di livello tattico da cui dipenderebbero trenta/quaranta unità, forti di alcune migliaia di combattenti.
Cresce il fronte armato anti-talebano
Ismail Khan non è l’unico a ritenere opportuna la costituzione di una nuova alleanza in funzione anti-talebana. Già nel 2012, Ahmad Zia Massoud, altro resistente della prima ora, ex-vicepresidente dell’Afghanistan e fratello del “Leone del Panjshir” Ahmad Shah (ucciso da al-Qa’ida il 9 settembre 2001), aveva dato disposizione ai propri uomini di predisporre “misure preventive”, una sorta di “piano B” basato sul riarmo delle milizie locali a lui fedeli. Oggi, a distanza di 9 anni, Massoud ha postato un messaggio su Facebook invitando «tutti i leader politici» del paese a «unirsi in prima linea a fianco del popolo e delle forze insurrezionali anti-talebane».
Anche Atta Mohammed Noor, importante warlord del nord, ha lanciato con un tweet la chiamata alla «mobilitazione nazionale» degli ex-mujaheddin per combattere i talebani e invitando tutte le fazioni del nord a «stare al fianco» delle forze statali; in un successivo post su Facebook, Atta Mohammed Noor ha poi chiesto ai leader di unirsi alla lotta senza creare «feudi di potere» separati.
Azioni, quelle dei warlord, che seguono l’appello dello stesso presidente Ashraf Ghani che, confermando lo stato di disperazione e la presa d’atto dell’impossibilità di un aiuto concreto da parte degli Stati Uniti, ha approvato l'improvvisa chiamata alle armi degli ex-mujaheddin, nella speranza di arginare l'assalto dei talebani e placare l’ondata di panico collettiva. In un incontro avvenuto lo scorso 21 giugno Ghani ha invitato i più influenti ex-mujaheddin a creare un fronte unito per sostenere le forze di sicurezza afghane a difesa dello Stato. Una decisione che ha portato il nuovo ministro della Difesa, Bismillah Khan Mohammadi, ad avviare la distribuzione di armi, equipaggiamenti e risorse finanziarie a favore delle milizie, come confermato dalla numerosa presenza di mujaheddin al fianco dell’esercito nazionale in molte province del nord e fedeli ai leader locali della minoranza tagika, uzbeka o di altri gruppi etnici che non amano Ghani.
Verso la fine della Repubblica islamica dell’Afghanistan
Fare affidamento sulle milizie è un azzardo molto pericoloso che potrebbe dare sollievo a Ghani nel breve termine, ma che alla fine porterà alla fine della sua amministrazione. La più grande preoccupazione è che queste milizie possano concorrere alla destabilizzazione locale e all’indebolimento della legittimità di governo, ma ancor più ad acutizzare le già profonde linee di demarcazione tribali, etniche e di fazione.
In tale contesto, è possibile prevedere una repentina frammentazione delle forze di sicurezza afghane con il passaggio dei suoi membri tra le fila delle milizie private, da una parte, e dei talebani, dall’altra, sulla base dell’appartenenza etnica: una tale ipotesi aprirebbe a una nuova fase di guerra civile afghana che verrebbe alimentata dall’amplificazione dei conflitti locali, coinvolti e proiettati in un più ampio e ancor più pericoloso conflitto regionale. Uno scenario molto probabile e molto vicino.