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Commentary

Afghanistan: la nuova strategia americana sarà il ritiro?

Claudio Bertolotti
03 Agosto 2018

Il comandante della missione NATO Resolute Support e delle Forze statunitensi in Afghanistan, il generale John Nicholson, ha affermato che l’attuale situazione in Afghanistan può essere caratterizzata da un approccio che si basa sul “parlare e combattere”. Nicholson ha inoltre aggiunto che “la violenza e il progresso possono coesistere” poiché entrambi i fronti in conflitto lavorano per la pace.

Un’affermazione che non convince e non rassicura, ma che descrive bene il drammatico scenario di un paese ormai prossimo ad entrare nel suo diciottesimo anno di guerra e che guarda alla soluzione negoziale con i talebani, qualunque essa sia.

Accantonata l’ipotesi di un processo negoziale esclusivamente a guida e gestione afghana, da parte del governo del presidente Ashraf Ghani e dal suo Chief Executive Officer Abdullah Abdullah, gli Stati Uniti si sono decisi ad aprire un canale negoziale diretto con i talebani, come avvalorato dall’incontro avvenuto a fine luglio in Qatar tra la delegazione di sei rappresentanti talebani guidati dal mawlawì Sher Mohammad Abbas Stanikzai, capo dell’ufficio politico del cosiddetto Emirato islamico dell’Afghanistan ospitato a Doha, e, pur senza la conferma ufficiale, Alice G. Wells dell’ufficio governativo del South and Central Asian Affairs.

Incontro analogo a quelli del 2015, e al quale ne seguiranno altri nelle intenzioni dei partecipanti, che è avvenuto in assenza di una delegazione di Kabul, pare su richiesta degli stessi talebani; uno sviluppo che limiterebbe di fatto il peso del governo afghano al tavolo negoziale, se non addirittura a escluderlo sebbene l’adesione da entrambe le parti al “cessate il fuoco” di tre giorni, al termine delle festività del Ramadan lo scorso maggio, possa essere letto come conferma di un doppio canale diplomatico che vedrebbe muovere, da una parte, Stati Uniti e talebani e, dall’altra, questi ultimi e governo afghano, per poi convergere verso un unico tavolo negoziale comprendente anche il Pakistan.

Resta il fatto che tale scelta è la conferma di un cambio significativo nella strategia statunitense verso il “problema” afghano, ora improntata al pragmatico realismo di chi comprende che è tempo di giungere a una conclusione. Un mutato approccio sul piano politico-diplomatico a cui seguirà a breve l’evoluzione sul piano militare e l’inizio di una nuova fase della guerra che sino ad ora ha seguito la linea tracciata dalle precedenti strategie, basate sull’aumento della pressione sui gruppi di opposizione armata, talebani e Stato islamico-Khorasan in primis, sul campo di battaglia, per costringerli a negoziare e, alla fine, a riconciliarsi con il governo di Kabul: è ciò che fece prima George W. Bush e poi il suo successore Barack Obama con un surge militare che portò a schierare sul fronte afghano oltre 140.000 soldati: senza però riuscire nell’intento.

La strategia messa in atto da Obama, incentrata sull’impiego di grandi unità convenzionali, come noto, ha fallito nel tentativo di sconfiggere l’insurrezione e tenere le posizioni nelle aree periferiche e rurali, e si è conclusa nel 2015 con il ritiro da quelle zone difficilmente difendibili delle forze statunitensi e della Nato i cui sforzi residui si sono concentrati nelle principali aree urbane lasciando agli afghani, affiancati da nuclei di addestratori, forze speciali e poche altre unità, la responsabilità della sicurezza dei più lontani distretti. Una presenza di lungo periodo, quella nelle aree rurali, che però non era riuscita a ottenere alcun tipo di vantaggio, né ad influenzare positivamente le popolazioni locali.

L’amministrazione del presidente Donald J. Trump ha tentato sino ad ora di riuscire nello stesso intento, ma con poco meno di 20.000 soldati, dei quali un terzo non combattenti inquadrati nella missione a guida NATO, e un cospicuo numero di contractor che, ad oggi, ammonta a 20.000 soggetti e che pare essere destinato ad aumentare.

Trump, che in un primo momento ha ordinato di intensificare gli attacchi aerei e le operazioni delle forze speciali contro obiettivi di alto valore – come comandanti e vertici dei talebani e dello Stato islamico – al fine di spingerli al tavolo negoziale, sembra ora propenso a cambiare passo.

Nella consapevolezza dei limiti delle forze di sicurezza afghane – incapaci di condurre operazioni autonome ad ampio raggio come di mantenere il possesso degli avamposti e a fronte di risultati nella sostanza fallimentari nel tentativo di contenere i gruppi insurrezionali – la nuova strategia americana in Afghanistan potrebbe aprire a un più consistente disimpegno delle proprie truppe, portandole all’interno delle principali aree urbane, in primis Kabul e Kandahar, e di quelle basi strategiche che gli Stati Uniti hanno in gestione esclusiva, sulla base dello Strategic Partnership Agreement e del Bilateral Security Agreement, fino a tutto il 2024 e prorogabile previo semplice accordo tra i ministeri della difesa di Washington e Kabul.

Al tempo stesso sarebbe ipotizzabile un parallelo e progressivo disimpegno delle stesse forze afghane, falcidiate da perdite in battaglia, mancati rinnovi delle ferme volontarie e diserzioni pari a un terzo delle circa 300.000 unità; disimpegno che vedrebbe un rischieramento delle stesse a difesa delle principali capitali provinciali Kandahar, Kunduz, Mazar-i-Sharif, Jalalabad e della stessa capitale Kabul, sempre più nel mirino dell’offensiva insurrezionale e di quella terrorista. L’obiettivo è di evitare il collasso dell’esercito e della polizia afghani e la cattura, o il passaggio ai talebani, di uomini, armi ed equipaggiamenti; ma va tenuto conto anche del fatto che ciò produrrà ulteriori defezioni all’interno delle forze di sicurezza, in particolare da parte di quei militari e poliziotti afghani le cui famiglie saranno lasciate nelle aree sotto controllo dei gruppi di opposizione armata.

Una scelta che se realizzata, da un lato lascerà le popolazioni rurali al proprio destino e, dall’altro, consegnerà il paese in mano all’insurrezione armata dando maggiore spazio anche allo Stato islamico-Khorasan che, pur limitato nei numeri e nel potenziale operativo, si sta imponendo come minaccia puntiforme in più aree del paese. Una decisione, insomma, orientata a proteggere le aree urbane, ma non più il resto del paese, comunque impossibile da salvaguardare, sebbene ciò possa aprire a uno scenario ipotetico in cui i talebani avrebbero libertà d’azione contro lo Stato islamico.

La razionale visione d’insieme ha messo in evidenza le difficoltà oggettive nel gestire una guerra che non può essere vinta e, al contempo, ha aperto ancora di più la porta all’auspicato compromesso proprio con i talebani i quali vedrebbero consolidato il proprio ruolo e il proprio potere, seppur a discapito del fragile Stato afghano il cui perimetro d’azione si riduce sempre più.

 

Claudio Bertolotti, Ph.D, è Analista strategico, docente di 'Analisi d'area', Subject Matter Expert per la NATO e ricercatore italiano al CEMRES di Tunisi per la ‘5+5 Defense Initiative’ per la sicurezza del Mediterraneo

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI

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medio oriente e nord africa Afghanistan USA
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AUTORI

Claudio Bertolotti
NATO, CEMRES, TUNIS, "5+5 DEFENSE INITIATIVE"

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