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Commentary
Afghanistan: la tenuta delle forze armate alla prova del voto
Claudio Bertolotti
26 settembre 2019

Le elezioni presidenziali del 28 settembre si inseriscono in un processo nazionale caratterizzato dall’incertezza politica e dalla violenza di una guerra quarantennale che vede oggi contrapporsi sui due fronti il debole governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti, da un lato, e, dall’altro, la galassia insurrezionale su cui si impone l’eterogeneo movimento talebano.

Il candidato dato per favorito, Ashraf Ghani, potrebbe veder riconfermato il proprio ruolo, questa volta non più limitato dal compromesso politico con Abdullah Abdullah, nominato primo ministro esecutivo su pressione dell’allora presidente statunitense Barack Obama. Una riconferma che porterebbe l’uomo forte di Kabul, con tutti i limiti di una leadership basata sulle ampie concessioni ai gruppi di potere che lo sostengono, a un consolidamento politico di cui beneficerebbe l’intera struttura statale.

Come e più dei precedenti appuntamenti elettorali, anche queste elezioni presidenziali si caratterizzano per gravi problemi organizzativi, denunce di frodi – il candidato Abdullah ha accusato il presidente Ghani di aver fatto chiudere “per sicurezza” i seggi nelle aree favorevoli alla coalizione pro-Abdullah –, riduzione del numero di elettori chiamati ad esprimere la loro preferenza – a causa delle ampie aree di territorio cadute sotto il controllo talebano che hanno ridotto i seggi elettorali al 31 percento del totale – e aumento degli attacchi violenti dei Talebani contro i seggi elettorali e le forze di polizia ed esercito chiamate a garantire la sicurezza del voto. Si prevede, ancora una volta, un aumento degli attacchi diretti e, dunque, di vittime civili e militari che contribuirà ad indebolire il già fragile sistema di sicurezza nazionale mettendolo a dura prova in termini di tenuta.

Il processo negoziale tra Stati Uniti e Talebani è in fase di stallo: i primi sono incerti sul ritiro parziale delle forze militari, i secondi hanno dimostrato tutta la loro insoddisfazione anche attraverso l’intensificazione degli attacchi. Un risultato prevedibile, che però ha donato una boccata d’ossigeno al governo afghano – guidato dalla vacillante diarchia Ghani-Abdullah – che, escluso da entrambi i contendenti al tavolo delle trattative, fatica a governare un paese per metà fuori dal proprio controllo. La più rilevante delle ragioni di questa incapacità di governare in tutto l’Afghanistan – al netto delle difficoltà politiche e delle competizioni centro-periferia e delle conflittualità tra gruppi di potere locali – è lo stato delle forze di sicurezza nazionali, esercito e polizia, che non sono oggi in grado, come non lo sono mai state in passato, di gestire l’attuale livello di conflittualità, né di contenere l’espansione territoriale e militare dei Talebani – oggi forti di circa 60.000 combattenti, al cui fianco vi sono altri 200.000 elementi di supporto – e degli altri gruppi insurrezionali afghani.

Relativamente al crescente ruolo dello Stato islamico Khorasan, – il franchise afghano del fenomeno nato con l’ISIS in Iraq e poi in Siria –, forte di alcune migliaia di jihadisti, il governo di Kabul potrebbe essere in grado di contrastarne l’espansione se le sue truppe non fossero impegnate in una logorante difesa dagli attacchi degli insorti. Esercito e polizia ammontano a 272.465 militari, a fronte del totale previsto di 352.000. Un numero che tende a ridursi con il trascorrere del tempo e che oggi è al livello più basso da quando è stata avviata la missione Resolute Support della Nato, nel gennaio 2015[1]: solamente nell’ultimo anno il totale si è ridotto di 41.000 unità.

A parità di impegno da parte della Nato e degli Stati Uniti – impegno che è risultato essere non coordinato tra i partner e con risultati eterogenei – il processo di costruzione delle forze afghane richiederà ancora molti anni prima di poter raggiungere risultati soddisfacenti. Ma le forze di sicurezza e difesa dell’Afghanistan, pur con enormi difficoltà, non collasseranno in tempi brevi, sebbene si siano create le condizioni per un progressivo indebolimento dello strumento militare che potrebbe anticipare scenari preoccupanti per la stessa sopravvivenza dello stato afghano.

Con buona probabilità assisteremo a una graduale frammentazione dell’intero complesso difesa-sicurezza. Un effetto che potrebbe imporsi a partire dalle unità periferiche, più colpite dalla violenta avanzata talebana e, al tempo stesso, più esposte al processo di erosione interna a cui contribuiscono l’elevato livello di corruzione, l’impiego prolungato in zone di guerra lontane dai luoghi di origine delle truppe e, da non sottovalutare, il crescente fenomeno di attacchi interni da parte dei soldati afghani contro i propri commilitoni o gli istruttori della Nato o statunitensi. E dalle periferie al centro: le aree urbanizzate, verso le quali le unità dell’esercito afghano, sempre più deboli e ridotte, tenderanno a convergere a mano a mano che la pressione talebana si farà più forte.

 

Le diserzioni: un indicatore della lenta dissoluzione

L’elevato e crescente tasso di diserzione, il mancato rinnovo della ferma e gli allontanamenti arbitrari – fenomeni che sempre più preoccupano i vertici militari afghani e delle missioni USA e NATO – anticipano la possibile dissoluzione delle forze di polizia, in primis, e dell’esercito. Un esito che passerebbe attraverso un progressivo indebolimento dell’intero complesso difesa-sicurezza.

Il ruolo dei Talebani in tale dinamica si impone su due piani. Da un lato vi è la forte pressione psicologica esercitata sulle famiglie dei soldati afghani e sulle comunità di appartenenza, minacciate dai Talebani di ritorsioni in caso di permanenza dei militari all’interno delle forze di sicurezza governative. Dall’altro lato, i Talebani hanno creato una situazione di panico tra le truppe afghane: la violenta offensiva lascia sul campo di battaglia un numero sempre più crescente di soldati che vengono rimpiazzati solamente in parte e da giovani reclute prive di un adeguato addestramento. È valutato che circa un terzo delle truppe afghane al fronte sia costituito da soldati giovani e inesperti, e dunque più vulnerabili.

 

Ingresso dei Talebani nelle forze armate: il rischio di un processo non equilibrato

Tutto dipende dal dialogo negoziale con i Talebani. Se e quando verrà raggiunto un accordo tra le parti, il reintegro degli ex-combattenti e delle loro famiglie potrebbe essere uno dei primi passi che seguirebbero l’accordo negoziale: una sfida fondamentale che potrebbe far confluire decine di migliaia di ex-combattenti all’interno delle forze di sicurezza nazionali ma che, se non ben indirizzata, potrebbe rivelarsi fallimentare e portare a una frammentazione, anche violenta, delle forze di Kabul. Un fallimento che potrebbe essere evitato attraverso un inserimento di singoli ex-combattenti all’interno di unità organiche già esistenti di esercito e polizia; al contrario, se si accettasse di dare vita a “unità” formate da ex-insorti – questa la preferenza su cui verosimilmente i Talebani insisteranno –  le chance di successo sarebbero estremamente ridotte.

In tale quadro, si inserisce un ulteriore elemento di preoccupazione: il rischio di polarizzazione che porterebbe gli ex membri delle forze di difesa e sicurezza nazionali, singoli e gruppi, a schierarsi con soggetti diversi o su fronti opposti, attorno alle figure più carismatiche o gruppi di potere su base etno-geografica. Da una parte i gruppi di potere riconducibili alla vecchia “Alleanza del Nord” rappresenterebbero un fattore di attrazione per quei militari incompatibili con una forma di governo che coinvolga i Talebani, in particolare i gruppi tagiki e hazara. Dall’altra parte coloro che potrebbero schierarsi, a causa della loro origine geografica ed etnica (pashtun, ma anche alcuni gruppi uzbeki) con gli stessi Talebani, più per ragioni di affinità culturale e interessi economici che per adesione all’ideologia dell’Emirato islamico dei Talebani.

 

Note

[1] Bertolotti C., Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga, ed. START InSight, 2019, e SIGAR Quarterly Report, luglio 2019.

 

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ISPI Research Fellow - Iran Desk

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AUTORI

Claudio Bertolotti
START InSight

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