Nei primi sei mesi del 2018, in Afghanistan si sono registrate due tendenze rilevanti, in contraddizione tra loro. La prima è un lieve aumento delle vittime civili, testimoniato dall’ultimo rapporto di Unama, la missione delle Nazioni Unite a Kabul. La seconda è l’apertura di una finestra di dialogo diplomatico che potrebbe ridurre progressivamente la conflittualità e condurre a un negoziato vero e proprio. Un obiettivo ancora lontano, ma più vicino di quanto non fosse appena sei mesi fa e, più in generale, nel corso di tutta la lunga guerra afghana.
Secondo l’ufficio dell’Onu a Kabul, nei primi sei mesi del 2018 in Afghanistan ogni giorno sono morti 9 civili (di cui 2 bambini), mentre 19 (di cui 5 bambini) sono rimasti feriti. In totale, 1.692 morti e 3.430 feriti. Un dato drammatico, anche se in sostanziale continuità con i quattro anni precedenti, ma particolarmente preoccupante perché contraddice le speranze sorte in seguito alla tregua di tre giorni tra il 15 e il 17 giugno. Si è trattato di un avvenimento senza precedenti, inatteso ed eccezionale. Tre giorni durante i quali le armi hanno taciuto e la popolazione ha potuto recuperare un po’ di fiducia in un futuro di pace, anche se provvisoriamente. Conclusa la tregua di 3 giorni, i Talebani hanno infatti ripreso le ostilità, mentre il governo di Kabul ha deciso di prolungarla per altri 10 giorni.
Il merito politico della tregua va attribuito in primo luogo al presidente Ashraf Ghani. All’inizio del mandato, inaugurato dopo molte polemiche nel settembre 2014, si diceva convinto che il conflitto fosse soprattutto una questione bilaterale tra l’Afghanistan e il Pakistan, e aveva investito significative risorse diplomatiche nel tentativo di migliorare i rapporti con Islamabad, alienandosi una parte degli esponenti del governo di unità nazionale, già diviso a causa della difficile coesistenza con il Chief Executive Officer, Abdullah Abdullah. Nel corso del tempo, Ashraf Ghani ha però riconosciuto il fallimento della strategia iniziale, dimostrando di essere molto più che un semplice tecnocrate. Così, dopo un paziente lavoro di tessitura dei rapporti regionali, e non senza qualche strappo rispetto alle posizioni attendiste all’interno del governo, il 28 febbraio 2018 ha annunciato a sorpresa un’iniziativa “coraggiosa” e “convinta”. Ha rivolto pubblicamente ai Talebani la più generosa proposta mai avanzata, offrendo loro il riconoscimento come partito politico, l’implicita garanzia dell’immunità, la possibilità di rivedere la Costituzione, l’inclusione nelle istituzioni, un ufficio politico a Kabul e, per la prima volta, l’ipotesi di un cessate il fuoco e l’apertura su “aspetti controversi della futura presenza internazionale”, una questione dirimente per i Talebani, per i quali il governo di Kabul è illegittimo, semplice braccio amministrativo delle forze di occupazione statunitensi e internazionali.
I Talebani non hanno risposto ufficialmente alla proposta del presidente Ghani e hanno preferito affidare le loro posizioni ai social network – usando una consueta retorica oltranzista, anche se meno bellicista del solito – e al loro sito di informazione, dove hanno pubblicato alcuni articoli nei quali, pur denigrando il governo di Kabul, lasciavano intendere di essere pronti a negoziare, ma solo con Washington. A dispetto del silenzio ufficiale, era dunque in corso una discussione interna sulla strategia da adottare e sulla fiducia da accordare a Ghani sui due punti più rilevanti della proposta: la tregua e il riferimento alle discussioni sulla presenza straniera in Afghanistan, un elemento che lasciava presagire margini di manovra futuri per un dialogo diretto tra i Talebani e i rappresentanti dell’amministrazione Trump. Allora, alla fine di febbraio, molti pensavano si trattasse soltanto di parole. Oggi quelle parole assumono un significato molto diverso, concreto. Con l’annuncio del 7 giugno di una tregua unilaterale di 8 giorni, da celebrare in occasione dell’Eid al-Fitr, la fine del Ramadan, il presidente Ghani ha messo nell’angolo i Talebani, che alla fine hanno proclamato a loro volta una tregua unilaterale di 3 giorni.
Inaspettatamente, la tregua è riuscita pressoché in tutto il Paese, anche se non è stata rispettata dalla “Provincia del Khorasan”, la sezione locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, un attore che cercherà di sfruttare a proprio vantaggio l’eventuale processo di pace, raccogliendo le adesioni dei militanti avversi. A dispetto degli attentati della provincia del Khorasan, la tregua ha rappresentato un innegabile successo. Un successo per il presidente afghano, che ha azzardato la mossa, rischiando molto pur se sostenuto dai militari statunitensi e dallo stesso generale Nicholson, a capo delle truppe Usa e Nato in Afghanistan. E un successo anche per i Talebani, soprattutto per quelle fazioni più pragmatiche e inclini al negoziato che sono riuscite a convincere il leader Haibatullah Akhundzada, all’inizio riluttante, approfittando del fatto che Islamabad non avesse obiezioni, perché pressata da Pechino e Riad.
I Talebani hanno incassato il dividendo politico più alto, per le ragioni spiegate da uno dei portavoce su Twitter: “abbiamo dimostrato di essere uniti, di controllare la traiettoria della guerra, di non essere pedine di altri, di poter assumere e rispettare decisioni in modo indipendente”. Decidendo di non prolungare la tregua, inoltre, non solo hanno evitato una decisione che avrebbe potuto minare l’unità (provvisoria) del movimento, ma hanno costretto i loro antagonisti, in particolare gli Stati Uniti, a compiere un ulteriore passo avanti, proprio nella direzione auspicata: “completa indipendenza del Paese, instaurazione di un governo islamico, negoziato con Washington e non con Kabul”.
Se nei giorni della tregua era stato il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, a dichiarare in modo esplicito, consensualmente con Ghani, che gli Stati Uniti erano pronti a discutere anche la questione della presenza delle truppe straniere, nei giorni scorsi alcuni funzionari afghani e statunitensi hanno fatto sapere al New York Times che il presidente Trump ha deciso di avviare colloqui diretti con i Talebani. Una novità significativa, se confermata, da leggere in continuità con le iniziative diplomatiche del 2018. Responsabile del rovesciamento dell’Emirato islamico d’Afghanistan nel 2001 e principale alleata dei governi di Kabul, finora Washington ha usato la retorica della “ownership afghana” sul processo di pace perlopiù come pretesto per abdicare alle proprie responsabilità diplomatiche.
Se decidesse di sedersi al tavolo negoziale con i Talebani, Washington da una parte riconoscerebbe che è un attore del conflitto a tutti gli effetti, cosa che ha sempre evitato di fare. Dall’altra attribuirebbe ai Talebani quella patente di piena legittimità politica che gli studenti coranici invocano da tempo. Un passaggio necessario ma non sufficiente, per mettere fine alla guerra. Tra le altre cose, occorrerà verificare se Washington ha davvero intenzione di negoziare, quale “anima” dei Talebani prevarrà nel caso in cui i negoziati venissero avviati. E, infine, a quali condizioni gli attori regionali saranno disposti a sostenerli. Per ora, la strada che conduce al negoziato è ancora lunga e difficile. Potrebbe esserlo un po’ meno se i Talebani e il governo di Ashraf Ghani riusciranno a concordare, come sembra, una seconda tregua per la festività religiosa di Eid al-Adha, intorno al 21 agosto.
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Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore, è l'autore di Arcipelago Jihad. Lo Stato Islamico e il ritorno di Al-Qaeda
Immagine: U.S. Air Force, Staff Sgt. Alexander W. Riedel
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