La cerimonia con cui il 12 settembre a Doha sono stati inaugurati i dialoghi intra-afghani segna l’inizio di un processo necessario ma accidentato e senza alcuna garanzia di successo. L’occasione è storica: i due principali attori del conflitto – governo e Talebani – si sono seduti allo stesso tavolo negoziale, per la prima volta in modo diretto e formale e senza mediatori, come avvenuto invece nelle conferenze di pace del più recente passato, nel 1988 a Ginevra e nel 2001 a Bonn. Ma gli ostacoli verso un’equilibrata spartizione del potere e una soluzione politica al conflitto sono ancora tanti. Ancora maggiori le incognite sulle capacità dei due attori di soddisfare le richieste di giustizia e dignità della popolazione.
Preludio ai colloqui veri e propri tra la delegazione talebana e quella che rappresenta il fronte istituzionale – la Repubblica islamica nata nel 2001 con il rovesciamento militare dell’Emirato islamico –, la cerimonia di Doha è frutto anzitutto della volontà politica dell’amministrazione Trump di chiudere il dossier afghano e capitalizzarlo in chiave elettorale.
Donald Trump è stato l’unico tra i presidenti statunitensi a soddisfare una vecchia richiesta dei Talebani: negoziare in modo bilaterale con gli Usa il ritiro delle truppe e poi, soltanto poi, con gli altri attori afghani, con il governo di Kabul derubricato ad attore tra gli altri.
Oltre al ritiro delle truppe straniere e all’impegno degli studenti coranici a rompere i legami con il jihadismo transnazionale, l’accordo tra Usa e Talebani sottoscritto nel febbraio 2020 a Doha prevedeva l’inizio dei colloqui intra-afghani entro il 10 marzo, rimandati a causa di un lungo contenzioso sul rilascio di 5.000 prigionieri talebani e della disputa post-elettorale nel fronte governativo, conclusasi almeno formalmente nel maggio scorsocon la nomina di Abdullah Abdullah, sfidante del presidente Ashraf Ghani, a capo del neonato Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, il pletorico organo di indirizzo del team negoziale di Doha.
Proprio Abdullah ha presenziato alla cerimonia di apertura dei negoziati intra-afghani, dichiarando che l’obiettivo è “mettere fine a 40 anni di spargimento di sangue e ottenere una pace duratura in tutto il paese”, a partire dalla consapevolezza che sul fronte militare “non può esserci vincitore”. Toni simili da parte di mullah Abdul Ghani Baradar, uomo della vecchia guardia talebana, già vicino al fondatore mullah Omar, a lungo detenuto nelle prigioni pachistane e oggi numero due del movimento, che si è augurato la possibilità per tutti gli afghani – «senza discriminazione» – di una «vita tranquilla, in pace, prospera» e di un «Afghanistan indipendente, sovrano, unito, libero».
Al di là delle dichiarazioni di principio, delle invocazioni di pazienza e flessibilità, la lista degli ostacoli verso un accordo politico è lunga. A partire dalle idee diverse dei due fronti su quali debbano essere le priorità da discutere e da includere nell’agenda che dal 12 settembre i due “gruppi di contatto” stanno precisando, insieme ai meccanismi e alle procedure del negoziato.
L’agenda rifletterà la diversa forza negoziale dei due attori, che partono da posizioni differenti. I Talebani partono una posizione di forza, mentre il fronte istituzionale – che include rappresentanti del governo, dell’opposizione, della società civile e soltanto 3 donne su 19 – è debole, diviso al proprio interno, riflesso di quell’antagonismo che ha paralizzato per anni le istituzioni in particolare attorno al duello tra Abdullah Abdullah e il presidente Ghani. Che il fronte di Kabul sia debole e diviso lo dimostrano, oltre alle recenti diatribe sulle nomine dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale e della delegazione negoziale di Doha, le ultime settimane, durante le quali il governo ha ceduto, in modo progressivo ma completo, a tutte le richieste dei Talebani sul rilascio dei prigionieri.
Finora i Talebani hanno ottenuto ciò che volevano, sia dagli Stati Uniti sia dal governo afghano. Il loro obiettivo primario – la fine dell’occupazione – coincideva con quello dell’amministrazione Trump. L’altro obiettivo, delegittimare il governo di Kabul, è conseguito dall’accordo bilaterale Usa-Talebani. Probabilmente i Talebani ritengono di potere passare all’incasso, sfruttando la legittimità politica ottenuta a Doha lo scorso febbraio e, sul fronte militare, il controllo territoriale su una parte del Paese così come la violenza che usano o minacciano di usare. Ma il negoziato non sarà a senso unico. Il fronte istituzionale non sarà destinato soltanto a subire le decisioni dei delegati talebani. La società afghana – per quanto poco rappresentata nel team negoziale – sta trovando i propri canali per far sentire la propria voce e si oppone al monopolio del potere dei Talebani, cosa che d’altronde questi ultimi negano di volere già da molti anni.
Priorità del fronte istituzionale, e della società tutta, è un cessate il fuoco umanitario, così come chiesto dallo stesso Abdullah Abdullah e da molti dei rappresentanti della comunità internazionale intervenuti il 12 settembre a Doha. “Silenziare le armi” è l’obiettivo primario, ha ribadito Nader Nadery, parte del gruppo di contatto del fronte istituzionale, volto storico della società civile con importanti incarichi di governo. Ma è difficile che i Talebani cedano troppo in fretta.
La loro posizione rimane invariata. Hanno accettato le tregue temporanee, sempre in occasione di festività religiose, ma hanno sempre resistito e respinto gli appelli a una tregua prolungata, anche quando venivano dal segretario generale dell’Onu. Il nuovo portavoce Mohammad Naeem Wardak lo ha spiegato di nuovo pochi giorni fa: “Non accetteremo la tregua prima che vengano discusse le vere cause della guerra”. Una formula che nasconde il timore che una tregua prolungata possa favorire le forze centrifughe nel movimento e dissipare quella che per i Talebani è la leva diplomatica più efficace: la violenza.
Proprio per evitare i movimenti centrifughi, il leader supremo Haibatullah Akhundzada ha deciso nuove nomine nel fronte negoziale, alla vigilia della cerimonia di Doha, affidando la guida del team a un suo vecchio sodale, il maulawi Abdul Hakim, una delle figure religiose di maggiore autorevolezza, a capo del dipartimento-giustizia del governo ombra talebano.
Probabile dunque che il cessate-il-fuoco avvenga in modo graduale, che si parta dalla riduzione della violenza in certe aree del paese, e soltanto dopo si passi a una vera tregua temporanea, per finire con quella tregua permanente che anche per il segretario di Stato Usa è obiettivo ultimo del negoziato intra-afghano.
Gli Usa, ha dichiarato il segretario di Stato USA Mike Pompeo, si augurano un Afghanistan democratico e inclusivo, ma “non intendono imporre il proprio sistema ad altri”. E proprio sulla forma di governo si giocherà una delle partite più complicate del negoziato. Il fronte istituzionale si erge a difesa della Repubblica islamica nata nel 2001, la cui Costituzione recita che nessuna legge può contraddire i principi islamici, anche se si regge su una combinazione tra diverse forme di diritto. I Talebani continuano invece a definirsi come Emirato islamico d’Afghanistan, fondato sulla sharia, e ribadiscono di voler un governo basato su un «vero sistema islamico», formula vuota e generica da riempire con contenuti istituzionali concreti, mai chiariti.
Il presidente Ghani, che non partecipa direttamente al negoziato ma che ha fatto in modo di controllarne e condizionarne gli esiti, invoca prudenza e ripete – come già nel corso della campagna elettorale e dello stallo post-elettorale – che solo lui può tutelare l’attuale ordine costituzionale. A decidere quale sarà l’architettura politico-istituzionale del paese, saranno i due team negoziali. Ma non sarà un processo di pace gestito soltanto dagli afghani, come recita la retorica della diplomazia, perché continuano ininterrotti i condizionamenti e le strattonate da parte di una pletora di attori regionali e internazionali, a partire dal Pakistan – che già rivendica credito politico per aver portato i Talebani al tavolo negoziale – e dagli Stati Uniti, che mantengono la leva degli aiuti finanziari per condizionare l’esito negoziale.
Al di là degli inevitabili condizionamenti esterni, è la prima volta che gli afghani appartenenti a fronti contrapposti e belligeranti si trovano a poter dialogare e negoziare in modo diretto, dentro una cornice formale riconosciuta a livello internazionale. È un’opportunità storica e un’enorme sfida. Per il fronte talebano e quello governativo, entrambi scarsamente legittimi agli occhi della popolazione, la vera sfida non è tanto trovare un accordo politico, ma trovarne uno che sia duraturo perché basato sulle richieste della società afghana.