La diffusione del coronavirus rischia di compromettere il già incerto processo di pace in Afghanistan. Il primo a ipotizzarlo è stato Barnett Rubin, direttore associato del Center on International Cooperation di New York e, dall’aprile 2009 all’ottobre 2013, consulente del rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Afghanistan e il Pakistan (prima Richard Holbrooke, poi Marc Grossman).
Autore di libri fondamentali su storia e cultura politica dell’Afghanistan, dobbiamo a Barnett Rubin l’apertura del primo canale diplomatico e del primo incontro tra i rappresentanti del governo statunitense e quelli talebani, alla fine del novembre 2010, appena fuori Monaco. Erano gli anni del primo mandato del presidente Barack Obama. Anni in cui la segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton, parlava del reintegro dei militanti talebani, invocava “una comprensione più accurata del nemico” - evitando l’equazione semplicistica al-Qaeda/Talebani – e prometteva un “surge diplomatico”, contestuale al surge militare.
Invocazioni e promesse disattese. Ci sono voluti altri 10 anni per arrivare a un accordo tra gli Stati Uniti e i Talebani, l’“Agreement for Bringing Peace to Afghanistan”. Firmato il 29 febbraio 2020 a Doha dall’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, e da mullah Abdul Ghani Baradar, capo della delegazione politica dei Talebani in Qatar, l’accordo prevede il ritiro delle truppe straniere – già iniziato – in cambio dell’impegno degli studenti coranici a rinunciare a ogni legame con i gruppi jihadisti transnazionali e a combatterli.
Prevede inoltre che i Talebani siedano al tavolo negoziale con gli esponenti del governo di Kabul, fin qui considerato illegittimo, per trovare un accordo sulla spartizione del potere, l’architettura politico-istituzionale, i diritti, il reintegro dei combattenti. L’inizio del dialogo era previsto per il 10 marzo, avrebbe dovuto partire dalla discussione su un cessate il fuoco prolungato ed essere anticipato e favorito dal rilascio di prigionieri. Ma l’incontro intra-afghano ancora non c’è stato. E la pandemia del Covid-19 rischia di allungare i tempi e rendere più difficile la soluzione delle contese, come spiega Barnett Rubin.
La prima, la più rilevante nel momento in cui scriviamo, riguarda il rilascio dei detenuti. E dipende anche dalla discordanza di due testi. Il testo dell’accordo tra Usa e Talebani - “Agreement for Bringing Peace to Afghanistan” - prevede il rilascio fino a 5.000 detenuti talebani dalle carceri governative e fino a 1.000 “governativi” dalle prigioni dei militanti. Ma la dichiarazione congiunta firmata il 29 febbraio 2020, a Kabul, tra il governo Usa e quello afghano prevede soltanto il generico impegno di quest’ultimo a favorire il rilascio dei Talebani, senza spiegare quanti, come, quando. Già prima della firma dell’accordo tra Usa e Talebani a Doha, il presidente Ashraf Ghani e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Amdullah Mohib, avevano contestato la parte del testo relativa al rilascio dei prigionieri come una violazione della sovranità nazionale. Spetta a Kabul – questa la loro posizione – decidere quali Talebani liberare, non a Washington.
Dopo la firma, Ghani ha tenuto il punto per giorni, ma l’11 marzo 2020, due giorni dopo la cerimonia di inaugurazione del suo secondo mandato presidenziale, contestato dal rivale Abdullah Abdullah, ha firmato un decreto che autorizza il rilascio di 1.500 Talebani contestualmente all’avvio del negoziato. Il decreto prevede il successivo e graduale rilascio di altri detenuti, sempre che i Talebani riducano gli attacchi alle forze afghane e che il dialogo negoziale proceda per il verso giusto. I Talebani obiettano però che la loro lista dei detenuti da liberare è pronta, non va discussa; che vogliono liberi tutti e subito e che il governo gioca sporco.
La contesa sul rilascio dei detenuti è andata avanti a lungo. Troppo. Così mercoledì 18 marzo l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, ha fatto sapere che “gli Stati Uniti auspicano di veder cominciare al più presto il rilascio dei detenuti, in linea con l’accordo tra Stati Uniti e Talebani”. Khalilzad non ha soltanto sollecitato le parti a trovare una soluzione, ma ha annunciato che parteciperà al dialogo tecnico.
Dopo aver girato senza soste per più di un anno tra le capitali regionali alla ricerca del consenso diplomatico sull’accordo con i Talebani, questa volta dovrà mediare in modo diverso. “Nonostante sia preferibile incontrarsi faccia a faccia, il Coronavirus e le relative restrizioni sui viaggi richiedono un impegno impegno virtuale, per ora”, ha spiegato su Twitter. È la prima delle conseguenze pratiche della pandemia: la pace si fa con i negoziati, i negoziati si fanno discutendo, de visu. Possono esserci veri negoziati e vere discussioni senza incontrarsi de visu? Un’incognita. Come sono incognite la durata, la diffusione e le conseguenze della pandemia.
La pandemia sembrerebbe dunque ostacolare il processo di pace. Ma paradossalmente potrebbe anche favorire una soluzione, almeno nel caso dei detenuti. “Il Coronavirus rende urgente il rilascio dei prigionieri. Il tempo è essenziale”, ha continuato Khalilzad, il quale spera che le preoccupazioni sanitarie per le condizioni dei detenuti possano anticipare i tempi lunghi della diplomazia. Le carceri afghane sono infatti ad alto rischio di contagio, come ha sottolineato anche l’Afghanistan Independent Human Rights Commission, che ha invocato urgenti misure di prevenzione e contenimento: il Covid-19 è già in Afghanistan.
È stato Abdul Qayum Rahimi, governatore della provincia orientale di Herat, al confine con l’Iran, ha lanciare l’allarme in modo chiaro: “Se non cominciamo ad agire, temo che verrà il giorno in cui non potremo neanche raccogliere i morti”, ha dichiarato pochi giorni fa al New York Times. Per ora i casi confermati – anche se non letali - sono 24, ma il numero potrebbe salire presto o essere già più alto. Sono pochi infatti i test effettuati finora nel Paese e 6 su 34 le province in cui si registrano casi sospetti.
Il governo ha già adottato misure di contenimento – campagne di comunicazione, chiusura di scuole e università, incontri pubblici vietati – ma il sistema sanitario è incapace di reggere un’eventuale epidemia. Qualcuno teme che sia inevitabile, a causa dei traffici transfrontalieri quotidiani tra l’Afghanistan e i due più importanti Paesi confinanti, l’Iran e il Pakistan, che ospitano almeno 3 milioni di rifugiati e migranti afghani.
L’Iran rimane il terzo Paese al mondo dopo Cina e Italia per numero di contagi, con più di 16.000 casi registrati e quasi 1,000 morti, mentre il Pakistan, oltre al lungo e poroso confine con l’Iran e a un sistema sanitario vulnerabile, come ricorda Rubin ha visto aumentare in modo significativo negli ultimi anni la presenza di lavoratori cinesi, grazie al China-Pakistan Economic Corridor.
Secondo il ministro afghano per i Rifugiati, il coronavirus avrebbe già ucciso almeno 10 afghani, rientrati recentemente dall’Iran, contagiandone altri. E secondo alcune stime sarebbero circa 15.000 gli afghani che oggi giorno rientrano dall’Iran in Afghanistan. Decine di migliaia quelli che hanno fatto rientro nelle settimane scorse, anche spinti dalle politiche del governo iraniano, che sembra escludere gli afghani dai trattamenti sanitari.
Un quadro preoccupante, dunque, che ha spinto anche i Talebani a organizzare campagne di informazione e in alcuni casi a fornire assistenza agli operatori sanitari del governo, oltre che a monitorare gli spostamenti dei residenti nelle aree controllate. Nei giorni scorsi Suhail Shaheen, portavoce della delegazione talebana a Doha, ha assicurato via Twitter che la commissione Sanità dei Talebani è pronta a cooperare con le organizzazioni sanitarie internazionali. E le ha invitate a occuparsi anche dei detenuti nelle carceri governative.
È qui che l’effetto della pandemia potrebbe avere effetti paradossali: l’Iran ha annunciato la liberazione momentanea di 85.000 detenuti per evitare il contagio. Anche in Afghanistan le preoccupazioni sanitarie potrebbero risolvere un’impasse che né il governo di Kabul né i Talebani sono riusciti finora a risolvere. Favorendo il rilascio dei detenuti e, dunque, anche l’inizio del vero e proprio dialogo intra-afghano.
Come sottolineato da Barnett Rubin, anche il dialogo intra-afghano rischia di pagare le conseguenze della pandemia. Il negoziato deve essere ospitato da un Paese terzo, seguito da rappresentanti della comunità internazionale che agiscano da garanti, mediato da un terzo attore considerato neutrale, e deve includere gli attori regionali. Condizioni che la pandemia impedisce di soddisfare. La stessa ipotesi dei Talebani di una sorta di tour diplomatico fatto di tappe negoziali tra Paesi diversi, dal Qatar alla Norvegia, dall’Indonesia alla Germania, appare da archiviare, almeno per il momento. Senza considerare la natura policentrica, anche geograficamente, dello stesso movimento talebano, le cui cupole e i cui uffici di coordinamento sono distribuiti dall’Iran al Pakistan, dall’Afghanistan ai Paesi del Golfo.
Anche se temporaneo, l’isolamento forzato causato dal virus impedisce dunque di far procedere il processo di pace, che già fatica a imboccare il binario prescritto dall’accordo tra Talebani e Stati Uniti. Anche in questo caso, però, non si possono escludere effetti paradossali, come ha suggerito via Twitter Laurel Miller, direttrice del programma sull’Asia dell’International Crisis Group e già rappresentante speciale per l’Afghanistan e il Pakistan per il dipartimento di Stato Usa.
Secondo Laurel Miller, nel caso che venissero risolti gli ostacoli più immediati al processo di pace – la disputa sui detenuti e sull’esito delle presidenziali afghane -, ci sarebbe una possibilità di “trarre vantaggi dai limiti ai viaggi imposti dal Covid-19”.
Una volta che ai negoziatori venga concesso il via libera medico per raggiungere la località che ospita il negoziato, “dovrebbero restarci per un periodo prolungato, senza poter facilmente andare e venire”. Limitare il numero dei partecipanti ai veri decisori e allo staff essenziale potrebbe inoltre produrre “discussioni più serie” rispetto alle forme negoziali tradizionali, che includono un alto numero di partecipanti, una pletora di facilitatori, località a rotazione, etc. I negoziatori sarebbero come “sequestrati”. E ciò potrebbe ridurre, anziché allungare i tempi diplomatici.
Gli esiti del Covid-19 sono dunque difficili da prevedere. L’ipotesi più diffusa è che la pandemia rallenti un processo già lento, ma non si possono escludere effetti contrari. Quel che appare certo, però, è un altro punto, che Barnett Rubin non considera e che potrebbe indebolire ulteriormente la posizione del governo afghano al tavolo negoziale e, più in generale, la tenuta delle istituzioni nazionali: la sempre maggiore riluttanza dei Paesi donatori a sostenere le finanze afghane, soprattutto dopo le straordinarie misure economiche adottate per far fronte al Codiv-19 in ambito domestico.
L’Afghanistan dipende ancora in larga parte dal sostegno finanziario dei donatori esterni. Il piano di aiuti internazionali sottoscritto nel 2016 si concluderà tra pochi mesi. I maggiori attori continuano a dichiararsi pronti a sostenere le istituzioni afghane anche nei prossimi anni, tanto che già circolano notizie sulla prossima conferenza, da tenersi probabilmente a Ginevra, nella sede delle Nazioni Unite. Ma la realtà, e la drammatica attualità pandemica, sembrano suggerire una tendenza opposta. Dopo aver varato misure eccezionali di sostegno all’economia interna, quanti saranno i Paesi disposti a sborsare cifre significative per l’Afghanistan? Più che dalle conseguenze del Covid-19 sul piano della mobilità geografica, il processo di pace in Afghanistan potrebbe essere compromesso da questioni di portafogli.