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Sospeso l'accordo di pace
Afghanistan: tutti gli errori di Trump
Giuliano Battiston
10 settembre 2019

Il 7 settembre il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha sospeso via Twitter i negoziati tra i Talebani e il suo inviato, Zalmay Khalilzad, rivelando che una delegazione degli studenti coranici era attesa a Camp David per il giorno successivo, così come il presidente afghano, Ashraf Ghani, che avrebbe incontrato separatamente. Secondo Trump, l’incontro di Camp David sarebbe saltato a causa della postura militarista dei Talebani, incompatibile con il processo di pace in corso, e in particolare a causa dell’attentato di giovedì 5 settembre a Kabul che ha causato la morte, tra gli altri, del sergente Elis Angel Barreto Ortiz, la cui salma è stata accolta sabato nel Delaware dal segretario di Stato Mike Pompeo. 

Le vere ragioni della decisione di Trump, che ha sorpreso gli osservatori e perfino gli uomini della sua amministrazione, non sembrano però coincidere con quelle addotte dal presidente. Nominato nel settembre 2018 come inviato per la riconciliazione in Afghanistan, Zalmay Khalilzad – nato a Mazar-e-Sharif in Afghanistan e naturalizzato cittadino americano – per mesi ha negoziato con i Talebani sulla base di un assunto implicito ma condiviso: guerra e dialogo procedono di pari passo. Così è stato per entrambi gli attori, che hanno aumentato la pressione militare sul nemico, per negoziare da una posizione di forza. Che sia temporaneo, come pare lecito ipotizzare, o definitivo, il dietrofront di Trump va ricondotto dunque ad altre ragioni. 

Le più importanti sono quattro: il protagonismo narcisistico di Trump; le resistenze interne all’amministrazione Usa e all’establishment di Washington; le obiezioni di Kabul e, più fondamentale delle altre, lo squilibrio strutturale dell’accordo raggiunto con i Talebani, che ha consentito loro di mantenere posizioni inflessibili nel negoziato, finendo invece per indebolire eccessivamente il governo di Kabul, tanto da mettere a repentaglio la stabilità istituzionale futura del Paese.

Prima di analizzare le ragioni della scelta di Trump, qualche nota sulla posta in gioco.

 

L’accordo con i Talebani

“Le grandi nazioni non combattono guerre senza fine”. Nel discorso del febbraio 2019 sullo Stato dell’Unione, Trump aveva difeso la politica di disimpegno militare dalla Siria e dall’Afghanistan, ricordando i costi umani e finanziari della guerra e ribadendo la promessa, già fatta in campagna elettorale, di riportare presto a casa i soldati statunitensi. Aveva inoltre dichiarato di aver “accelerato le negoziazioni per raggiungere un accordo politico” con i Talebani. Il mese prima, l’inviato Khalilzad aveva infatti già ottenuto il consenso preliminare dei Talebani sull’impianto generale dell’accordo di pace, articolato in 4 punti: ritiro delle truppe straniere, garanzia da parte talebana che l’Afghanistan non tornasse crocevia dei jihadisti a vocazione globale, un cessate il fuoco prolungato o permanente e il dialogo intra-afghano. Un impianto che Khalilzad per lungo tempo ha presentato come “un pacchetto tutto incluso”: prendere o lasciare.

Dalla fine dell’agosto 2019, poi, si sono fatte insistenti le voci che la firma fosse imminente. “Siamo vicini all’accordo finale. Speriamo di poter dare presto buone notizie alla nostra nazione islamica, alla ricerca dell’indipendenza”. Così, via Twitter, Suhail Shaheen, portavoce della delegazione talebana a Doha. Ai primi di settembre, Zalmay Khalilzad ha annunciato che l’accordo con i Talebani, dopo nove giri di consultazioni a Doha, in Qatar, e numerosi viaggi nelle capitali asiatiche alla ricerca di una copertura regionale, era chiuso, almeno “in linea di principio”.

Il 2 settembre, l’inviato americano ha sottoposto il testo all’attenzione del presidente afghano Ashraf Ghani, a Kabul, mentre nel resto del Paese i Talebani intensificavano la battaglia, con assalti programmati a città come Kunduz, Farah, Pul-e-Khumri e attentati a Kabul. La sera stessa, l’inviato di Trump ha rivelato alla tv afghana Tolo alcuni contenuti specifici dell’intesa, ancora segreta: ritiro entro 135 giorni dalla firma di 5,400 dei circa 14.000 soldati Usa presenti in Afghanistan, chiusura di 5 basi militari, riduzione della violenza in 2 delle 34 province afghane, Kabul e Parwan. Sui tempi del ritiro del resto delle truppe, nulla di certo – forse in 16 mesi, così da soddisfare le esigenze elettorali di Trump, che nel novembre 2020 ambisce a un secondo mandato –, così come sulla eventuale chiusura delle altre basi.

In cambio, Khalilzad avrebbe ottenuto la presa di distanza esplicita dei Talebani da al-Qaeda e la disponibilità a incontrare in futuro gli altri attori politici afghani, inclusi i rappresentanti del governo di Kabul. Meno di una settimana dopo, è arrivato il dietrofront di Donald Trump. Perché?

 

Le ragioni del dietrofront

Partiamo dalla prima ragione, che ha a che fare con il protagonismo narcisistico ed esibito di Donald Trump, con la sua tendenza a rivendicare la paternità esclusiva di processi politico-diplomatici che sono, al contrario, l’esito di sforzi collettivi, di lunga durata. Secondo alcune ricostruzioni, dopo aver saputo da Khalilzad che l’accordo era chiuso “in linea di principio”, Trump avrebbe forzato la mano, per assicurarsi visibilità e quel riconoscimento da statista e mediatore a cui ambisce con convinta approssimazione. Così, avrebbe suggerito di invitare a Camp David sia la delegazione talebana, sia il presidente Ghani, in modo da garantirsi la paternità anche simbolica dell’accordo di pace. Senza tener conto né delle esigenze del governo del Qatar, che per molti mesi ha ospitato i negoziati, spendendosi affinché procedessero verso un esito favorevole, e che quindi avrebbe voluto annunciare lo storico accordo, né tanto meno delle obiezioni interne ed esterne, inclusa quella della Rabbari shura, la cupola della leadership talebana, che avrebbe dato il via libera alla delegazione per recarsi negli Stati Uniti, ma soltanto dopo la firma, non prima, così da evitare un “suicidio politico”. Le obiezioni sono cresciute nel tempo, grazie all’errore compiuto da Khalilzad di rivelare l’intesa, e parte dei contenuti,  prima della firma effettiva. Una decisione che, ha spiegato Laurel Miller dell’International Crisis Group e già del dipartimento di Stato Usa, ha consentito agli scettici, a Kabul quanto a Washington (e, aggiungiamo noi, a Doha e Quetta), di alzare la voce.

 

Resistenze interne: Washington

La scelta di invitare a Camp David, nel Maryland, alla vigilia dell’anniversario dell’11 settembre, una delegazione talebana di alto profilo – incluso quel mullah Abdul Ghani Baradar prima catturato a Karachi in un’operazione congiunta dei servizi segreti pachistani e statunitensi, per anni in carcere e poi liberato proprio per favorire il processo di pace – ha suscitato le inevitabili obiezioni dei Repubblicani conservatori. Che hanno trovato una sponda autorevole all’interno della stessa amministrazione Trump, con il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, sostenuto dal Pentagono, contrario a ogni ipotesi di compromesso e convinto dell’inaffidabilità dei Talebani, e con il segretario di Stato, Mike Pompeo, deciso invece a chiudere l’intesa, anche se riluttante a concedere ai Talebani l’etichetta di Emirato islamico d’Afghanistan, che avrebbe conferito loro un’ulteriore patente di legittimità politica, oltre a quella già implicita nel sedersi al tavolo negoziale con loro. Il dibattito in seno all’amministrazione americana sarebbe stato così teso da aver portato, poi, al licenziamento di John Bolton.

Per ragioni diverse, hanno sollevato obiezioni anche nove tra ex ambasciatori e inviati speciali degli Usa in Afghanistan. In una dichiarazione pubblica, hanno sostenuto con forza la legittimità della soluzione negoziata al conflitto, chiedendo però “che il ritiro completo delle truppe avvenga solo dopo una vera pace”, non prima, e che il governo afghano venga sostenuto, non tagliato fuori dai negoziati. Gli ambasciatori hanno rigettato inoltre una delle ipotesi ventilate nelle scorse settimane – un governo a interim dopo la firma dell’accordo – e si sono detti favorevoli allo svolgimento delle presidenziali afghane fissate per il 28 settembre, a lungo minacciate dall’ipotesi della firma dell’accordo, che avrebbe probabilmente convinto perfino Ghani, alla ricerca di un secondo mandato, a posticiparle o annullarle.

 

Il fronte esterno: Kabul

Quando Khalilzad gli ha sottoposto il testo dell’accordo raggiunto con i Talebani, il presidente Ghani – che ha coraggiosamente scommesso sul processo di pace, per esserne poi escluso a causa dell’intransigenza dei Talebani e dall’incapacità di Khalilzad a fargli cambiare idea – ha chiesto tempo. Voleva capire fino a che punto Khalilzad avesse tradito l’impegno iniziale: offrire ai Talebani un “pacchetto completo”, che condizionasse la soluzione al conflitto tra la guerriglia in turbante e gli americani all’avvio di un confronto esplicito tra i Talebani e il governo di Kabul.

Di fronte alla riluttanza dei Talebani a sedersi al tavolo negoziale con Kabul, l’amministrazione Usa ha infatti avviato un dialogo bilaterale con gli studenti coranici, prima assicurando che l’accordo avrebbe beneficiato anche il presidente Ghani e le istituzioni che rappresenta, poi, però, derubricando il dialogo intra-afghano, e dunque i punti 3 e 4 dell’impianto originario dell’accordo, a elementi secondari che gli afghani avrebbero potuto discutere tra loro, in un secondo momento.

Così, dopo mesi in cui si è invocata retoricamente la centralità degli afghani nel processo di pace – un processo che doveva essere “condotto dagli afghani, per gli afghani” – il governo si è ritrovato con le spalle al muro, politicamente indebolito, costretto o quasi ad accettare i termini di un accordo opaco, che non garantiva né la sopravvivenza del sistema politico-istituzionale afghano, né quel cessate il fuoco prolungato o permanente su cui Ghani insiste da due anni. Il “pacchetto completo” si era trasformato in due accordi distinti, quasi svincolati l’uno dall’altro: il primo tra Talebani e Usa, il secondo, ipotetico, tra Talebani e forze politiche e sociali afghane. Si tratta della quarta ragione che sembra aver convinto, o costretto Trump al dietrofront: il deficit strutturale dell’accordo.

 

Un accordo squilibrato

L’accordo con i Talebani non ha funzionato perché era squilibrato. Dovrebbe porre fine a un conflitto che contempla tre attori principali, ma è un accordo bilaterale. Quando si è trattato di siglare l’intesa, il suo deficit strutturale è apparso evidente, perfino a chi, come Trump, ha fretta di chiudere il dossier Afghanistan. Trump ha dunque cercato di mettere il cappello su un accordo condotto malamente, che concedeva troppo ai Talebani, il sufficiente a Washington e poco o nulla al governo di Kabul.

Per quanto sappiamo dei suoi contenuti, l’accordo concluso a Doha da Khalilzad non era altro che un successo per i Talebani. Sarebbero stati loro a gridare vittoria, a orientare la narrazione sull’accordo di pace. Così Trump ha cercato di cambiare le carte in tavola, riappropriandosi della narrazione e mostrando di avere lui l’ultima parola, con l’invito a Camp David. Quando ha visto che le cose non sarebbero andate come voleva lui, anche a causa della riluttanza dei Talebani ad assecondarne la narrazione, ha preferito far saltare il banco. Almeno per ora.

 

Stop o fine del negoziato?

Prevedere quel che succederà ora è impossibile. Le posizioni del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, dei portavoce Talebani, così come dei principali attori regionali del conflitto, da Mosca a Pechino, da Teheran a Islamabad, sembrano suggerire che il dialogo potrebbe riprendere in futuro, anche se sarà difficile ricucire lo strappo di Trump in tempi brevi.

Trump potrebbe approfittare di questa interruzione per ricompattare almeno parzialmente il fronte interno, nella speranza che il pendolo militare oscilli finalmente dalla parte degli Stati Uniti. Ma le forze in campo rimangono le stesse. Lo stallo militare è destinato a rimanere tale. Gli Stati Uniti non possono sconfiggere i Talebani, e tanto meno il contrario. A meno che il presidente Trump non voglia perseguire la strada del ritiro unilaterale, come sembra suggerire John Bolton, un accordo politico con i Talebani è l’unica soluzione alla guerra afghana.

La condizione affinché il negoziato conduca, se non alla pace, a una relativa stabilità, è che non venga piegato alle esigenze elettorali degli Stati Uniti, e che la retorica di Washington sulla “ownership afghana” del processo di pace non sia più un pretesto per abdicare alle proprie responsabilità, ma lo strumento per tener conto anche degli interessi della società afghana e delle istituzioni che, per quanto maldestramente, la rappresentano.

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,
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AUTORI

Giuliano Battiston
Giornalista e ricercatore freelance

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