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Commentary

Al-Sisi e i copti: dopo l’attentato è la fine di un “idillio”?

Alessia Melcangi
16 Dicembre 2016

L’11 dicembre 2016 è domenica, i cristiani pregano in chiesa e i mussulmani celebrano l'anniversario della nascita del profeta Maometto. Quel giorno una bomba viene fatta esplodere al Cairo, nella chiesa di San Pietro e Paolo, a pochi passi dalla cattedrale copta edificata nel 1965. L’ordigno provoca ventiquattro morti e almeno cinquanta feriti; il giorno dopo, ai funerali di stato, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi invita musulmani e cristiani all’unità nella lotta contro il terrorismo, piaga che colpisce indistintamente il popolo egiziano. È in quell’occasione che il presidente rende noto un rapporto stilato dal ministero degli Interni secondo il quale il colpevole dell’attacco sarebbe Mahmud Shafik Mohamed Mustafa, 22 anni, membro di un’associazione che opera in Qatar affiliata sia ai Fratelli musulmani sia al gruppo islamico Wilayat Sinai (già noto come Ansar Bayt al-Maqdis), attivo nel nord del Sinai. Nel giro di poche ore però la veloce identificazione dell’attentatore, fornita come prova dell’efficienza degli organi di sicurezza, viene messa in dubbio da una serie di notizie: prima la ferma condanna dell’attacco da parte della Fratellanza musulmana, poi la successiva presunta rivendicazione dell’attentato da parte dei terroristi di Daesh, e infine le inedite testimonianze rivelate da un avvocato egiziano che evidenzierebbero l’incoerenza della versione governativa.

In un Egitto piegato dalla crisi economica, l’appello alla sicurezza rivendicato dal presidente al-Sisi fin dal golpe del 2013 come punto primario della sua agenda politica non convince gli osservatori e al contrario mette in evidenza proprio nella sicurezza un nervo scoperto dell’attuale presidenza. L’attentato alla cattedrale copta rappresenta il terzo episodio di violenza avvenuto nella stessa settimana, dopo una bomba esplosa a Giza (sei poliziotti uccisi) e una a Kafr al-Shaikh, a nord del Cairo, che ha provocato una vittima civile. A dispetto della promessa di un Egitto più sicuro, dal 2013 a oggi gli attacchi contro le forze di sicurezza non si sono attenuati mentre le difficili operazioni militari nel nord del Sinai contro i gruppi islamici rendono ancor meno credibili le promesse fatte dal governo di giungere presto alla normalizzazione della regione. Davanti alla minaccia terroristica, la strage di domenica potrebbe fornire al presidente la possibilità di rafforzare la pressione e il controllo sulla società attraverso misure sempre più restrittive: a poche ore dal discorso ufficiale, ad esempio, è stata rilanciata la proposta di modificare il codice di procedura penale e l’articolo n. 204 della Costituzione per permettere che i civili accusati di atti di terrorismo siano direttamente giudicati dai tribunali militari. L’attentato dell’11 dicembre scorso fa emergere però una differenza sostanziale e allarmante: dal lontano Sinai settentrionale la violenza arriva nel cuore della capitale, in uno dei quartieri più popolosi del Cairo; obiettivo degli attacchi non sono più poliziotti o militari, ma civili. Le vittime sono i cristiani copti, un target sensibile già bersaglio di intimidazioni e di atti di violenza. Sottolinea Minority Rights Group International[1] che nei primi due anni successivi alla caduta di Mubarak, fino al gennaio del 2013, quasi cento copti sono rimasti vittima di scontri settari – più che in tutto il decennio precedente. Tra gli episodi di violenza basti ricordare l’attentato del primo gennaio del 2011 alla chiesa dei Santi ad Alessandria, ventuno morti.O ancora la repressione operata ai danni dei copti il 9 ottobre del 2011, all’indomani della rivoluzione, dalle forze armate militari durante una manifestazione e passata alla storia come il massacro di Maspero: ventotto manifestanti schiacciati dai mezzi blindati e sedici morti in seguito a ferite da arma da fuoco. Tale fu la brutalità di questo evento da rimanere ancora impresso nella memoria collettiva della comunità.

I copti rappresentano tra il sette e il dieci per cento dei 94 milioni di egiziani e sono storicamente oggetto di discriminazioni, sia a livello sociale che economico e politico: essi vengono esclusi dalle alte cariche dell’esercito, della polizia, dei servizi segreti, della magistratura e dai posti di governatore, tutti motivi di frustrazione per i membri della comunità che aspirano, invece, ad un trattamento giuridico e politico egalitario. E sebbene sembri profilarsi negli ultimi tempi un decisivo cambiamento grazie alla nuova legge dell’agosto del 2016 che regola la costruzione delle chiese, fino a oggi l’edificazione di nuovi luoghi di culto o la ristrutturazione di quelli già esistenti è stata il più delle volte ostacolata dalle autorità pubbliche.

Quando nel 2013 al-Sisi salì al potere destituendo l’allora presidente Mohamed Morsi, rappresentante del partito Libertà e Giustizia espressione politica della Fratellanza musulmana, il patriarca Tawadros II si mostrò al suo fianco a sostegno dell’intervento militare e del nuovo processo politico. La comunità copta pagò il prezzo di questa apparizione pubblica: in una fase di pericolosa polarizzazione sociale, dura arrivò la condanna della Fratellanza musulmana contro la comunità cristiana per il suo appoggio al regime. Come riportato da Human Rights Watch[2], nell’agosto successivo diverse chiese vennero date alle fiamme e violenti scontri tra cristiani e musulmani si verificarono soprattutto nelle zone rurali dell’Alto Egitto, nei governatorati di al-Minya, Sohag e Asyut.

Questo partenariato politico tra stato e chiesa, di antica tradizione, è il simbolo di una collaborazione ormai salda tra il patriarca e il presidente. Un’alleanza in grado di marginalizzare, all’interno della comunità, qualsiasi leadership laica o movimento di dissidenza che tenti di presentare i copti come egiziani a pieno titolo e che chieda al patriarca di operare secondo il suo ruolo spirituale. I giovani attivisti copti sono ora stretti nella morsa da un lato della chiesa e dall’altra dello stato, uniti entrambi in un’insana alleanza basata sui temi dell’unità nazionale e della protezione delle minoranze, obiettivi ormai falliti. Dall’altra parte molti copti rimangono allineati alle posizioni assunte dal patriarca in supporto al regime, assaliti dalla paura di avviarsi verso un destino comune ai cristiani di Siria e Iraq.

Oggi il rischio concreto è che i copti diventino le vittime della guerra dichiarata dal regime ai gruppi islamici: la condanna dei Fratelli musulmani contro i cristiani per il loro appoggio al regime è una condanna politica più che religiosa ma rischia di travolgere i copti nel generale clima di impunità e radicalizzazione crescente in Egitto. La recente strage contribuisce a incrinare il rapporto tra i fedeli e il regime, nonostante il supporto espresso dalla chiesa a quest’ultimo: l’evidente incapacità di al-Sisi di proteggere i cristiani e di agire con fermezza nel punire gli scontri settari stanno progressivamente alienando il consenso della comunità. Durante i funerali di stato del 13 dicembre 2016, la moltitudine di copti che ha accompagnato le bare delle vittime ha fatto sentire forte la propria voce, interrompendo più di una volta la solennità del momento: le grida che si sono levate nel dolore generale chiedevano senza mezzi termini la caduta del regime di al-Sisi.

 

Alessia Melcangi, Dottore di ricerca in Pensiero Politico e Istituzioni nelle Società Mediterranee - Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Catania; Centro per gli Studi sul Mondo Islamico Contemporaneo e l’Africa - CoSMICA

alessiamelcangi83@gmail.com/amelcangi@unict.it

 




[1] Minority Rights Group International, “Copts”, World Directory of Minorities and Indigenous Populations, November 2013. http://minorityrights.org/minorities/copts/ [ultimo accesso 14 dicembre 2016].

[2] Human Rights Watch, World Report 2014: Events of 2014, “Egypt”, https://www.hrw.org/world-report/2014/country-chapters/egypt [ultimo accesso 13 dicembre 2016].

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Alessia Melcangi
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