Il risultato delle elezioni presidenziali dello scorso maggio, le seconde dalla rivolta del gennaio/febbraio 2011 che aveva portato alla deposizione di Hosni Mubarak dopo quasi trent’anni di ‘regno’, non era mai stato in dubbio, come dimostrato dal trionfo del generale ‘Abd al-Fattah al-Sisi, proclamato nuovo presidente d’Egitto con il 96% dei voti espressi.
D’altro canto, le elezioni servivano solo a dare una sanzione legale alla situazione ‘di fatto’ che vedeva al-Sisi come effettivo arbiter della politica egiziana fino dal suo annunzio del 3 luglio 2013 con cui deponeva il presidente eletto appena un anno prima Muhammad Mursi, espressione dei Fratelli Musulmani (FM).
Nonostante la cosiddetta ‘Sisi-mania’ popolare, la versione unica offerta dai media egiziani di un Paese in ripresa e di un ra’is amato da tutti e ben visto all’estero, molti egiziani continuano a vivere in una situazione socio-economica difficile e in un contesto politico di crescente autoritarismo e intolleranza verso ogni forma di dissenso.
Non c’è alcun dubbio, infatti, che la fine del 2013 e il 2014 abbiano visto un drastico incremento della repressione e di pratiche autoritarie –arresti arbitrari, minacce agli attivisti della società civile militarizzazione del territorio - che sono ben superiori, secondo i dati delle più accreditate organizzazioni internazionali, a quelle dell’ultimo periodo mubarakiano. In breve, il ‘nuovo regime’ al-Sisi, con l’appoggio di nuovi e vecchi sicofanti e nel silenzio sempre più consenziente della comunità regionale ed internazionale, ha con estrema efficacia schiacciato non solo gran parte del dissenso (a cominciare dai FM), ma anche imposto regole draconiane che sembrano avere decretato, con l’appoggio decrescente ma ancora significativo di buona parte della popolazione, il naufragio delle speranze di un vero cambiamento suscitate dalla Rivoluzione del 2011.
Nonostante la tentazione di vedere nel nuovo leader una mera e semplice restaurazione del regime mubarkiano, occorre sottolineare che il regime di al-Sisi è differente da quello pre-2011 per molteplici ragioni, che qui si possono solo accennare. Per cominciare, essendo un regime contro-rivoluzionario, è anch’esso prodotto della Rivoluzione, come reazione volta ad impedire cambiamenti significativi del sistema, che però, a tale scopo, non può che implementare cambiamenti, talvolta radicali, anch’esso. Il caso più evidente è il ruolo dell’esercito, che, ‘facendo parte del sistema di potere mubarakiano, aveva visto i propri privilegi via via ridursi a partire dalla fine degli anni ‘80, nella sfera politica ma soprattutto in quella economica, a favore del nuovo capitalismo finanziario ‘globalizzato’ composto da uomini d’affari globalizzati, formatisi in Occidente e raccolti intorno a Gamal Mubarak, il delfino dell’ex presidente, negli anni Duemila. Nonostante questa classe neoliberista stia tentando il ritorno nelle sfere più vicine al potere, è chiaro che è in corso una riconfigurazione del sistema di potere, dove, per ora, le seconde leve dell’esercito mantengono una posizione di vantaggio sul gruppo già legato a Gamal Mubarak. Tuttavia, esiste più di un dubbio nella capacità dei quadri militari di gestire la totalità dello spazio politico-economico soprattutto visto il quadro regionale e la scarsissima esperienza e gli ancora ridotti contatti dei generali con i nuovi patroni del Golfo, veri e propri sponsor (con in testa Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti) del ‘colpo di stato popolare’ del 3 luglio 2013.
Oltre queste inevitabili spaccature intestine, se dall’esterno il regime di al-Sisi può sembrare saldamente in controllo della situazione, più di un elemento, invece, sembrano indicare una realtà alquanto diversa. Innanzitutto, l’avere puntato principalmente sulla ‘sicurezza’, come mandato di legittimità popolare, ha dei rischi enormi non solo perché la guerra al ‘terrorismo’, come dimostrano le esperienze Usa in Iraq e Afghanistan, è uno slogan ad effetto ma anche un’arma a doppio taglio nel medio e lungo periodo. La situazione di semi-anarchia nel Nord Sinai, l’assoluta permeabilità del confine egitto-libico e lo stato di persistente insicurezza Sud ‘dimenticato’ del paese, richiederanno non pochi anni per essere ‘securitizzate’. Ma anche la militarizzazione delle grandi città, costellate di posti di blocco, di improvvise chiusure di strade e piazze, e affollate da militari, istilla nel cittadino comune più di un dubbio sul reale controllo del territorio da parte del regime.
Difatti, il ricorso costante alla repressione violenta del dissenso, l’implementazione di norme sempre più rigide per limitare la partecipazione politica, più che essere la cifra di un regime forte e in salute, tradiscono l’intrinseca debolezza di al-Sisi, e potranno forse permettere una nuova ascesa dell’attività politica dal basso in senso democratico e riformista, se non rivoluzionario. E, a ben vedere, questo attivismo, nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche, nelle campagne e nei quartieri periferici ‘nascosti’ agli occhi degli ‘esperti’ nazionali ed internazionali, non si è mai arrestato. Pertanto, mentre il nuovo potere si sta riorganizzando in senso autoritario, anche nuove e vecchie forme di resistenza potrebbero trovare nuova linfa, se sapranno operare nelle incrinature e nelle aree di debolezza del regime di al-Sisi.
Infine, anche il contesto internazionale e regionale, finora abbastanza favorevole al nuovo governo, potrebbe offrire delle importanti sfide non solo dalla continuazione delle crisi ‘alle porte’ dell’Egitto (Siria, Gaza) o in Medio Oriente (Siria e ‘Stato Islamico’), ma anche a causa della crescente crisi dell’egemonia statunitense nella regione mediterranea e mediorientale.