Si tengono domenica 14 novembre le elezioni di medio termine in Argentina, appuntamento che porterà al rinnovo di metà della Camera dei Deputati e di un terzo del Senato. Si tratta tradizionalmente di una scadenza molto importante, poiché accade spesso che in occasione di questa tornata elettorale la coalizione al Governo si ritrovi indebolita, in una sorta di “anticipazione” delle elezioni Presidenziali che si tengono due anni dopo. E anche questo caso sembra non fare eccezione, dal momento che la coalizione peronista attualmente al potere – guidata dal Presidente Alberto Fernández – è data in svantaggio nei sondaggi rispetto ai rivali di centrodestra di Juntos por el Cambio dell’ex Presidente Mauricio Macri (che ha anche “vinto” le elezioni primarie di settembre con il 40% dei consensi rispetto al 31% dei partiti di governo).
Del resto, l’esecutivo non si è dimostrato in grado di trovare una soluzione agli ormai cronici problemi dell’Argentina: inflazione a doppia cifra, debito pubblico sempre meno sostenibile, carenza di investimenti esteri ed eccessiva dipendenza dell’economia dal settore primario. La pandemia non ha di certo aiutato, ma il governo peronista ha cercato di affrontare gli stessi problemi con ricette che avevano già dimostrato di non poter funzionare. Tuttavia, se in passato l’Argentina era sempre riuscita a “calciare la lattina un po’ più in là” sfruttando l’alternanza dei cicli economici internazionali, oggi le cose potrebbero essere più complicate, se la rotta non dovesse essere invertita. Come mai stavolta è diverso?
L’economia in un circolo vizioso
Le elezioni per rinnovare metà del Parlamento giungono in un momento non facile per l’economia argentina. Non basta infatti l’innalzamento delle previsioni di crescita del Pil, in larga parte dovuto al rincaro delle materie prime, dal 6,4% di luglio al 7,5% di ottobre nel World Economic Outlook del FMI a delineare un quadro positivo per l’economia del Paese sudamericano. La stessa proiezione di crescita per il 2022 è solo del 2,5%, un valore che segnala come la ripresa per Buenos Aires si limiti sostanzialmente a un rimbalzo post-pandemico. Complice il crollo del Pil del 10% nel 2020, l’OCSE non si aspetta un ritorno dell’Argentina ai livelli pre-crisi fino al 2025/2026, ultima per distacco tra i membri del G20 a recuperare dalla crisi pandemica.
L’economia argentina, del resto, è afflitta cronicamente da un alto tasso di volatilità che ha visto – dal 2009 a questa parte – l’alternarsi di periodi di crescita e di recessione, al punto che il livello attuale del Pil è praticamente lo stesso di un decennio fa. Il sistema economico è ancora eccessivamente dipendente dall’esportazione di commodities agricole (che costituiscono il 67% dell’intero export di beni), settore in cui l’Argentina ha un vantaggio competitivo ma che è costantemente in balia degli ondivaghi prezzi internazionali. Inoltre, gli investimenti esteri languono e sono in costante diminuzione da alcuni anni : -38% nel 2020 rispetto all’anno precedente, quando però i flussi di IDE si erano già ridotti di circa il 40%. Inoltre l’inflazione rimane una preoccupazione costante per le autorità finanziarie di Buenos Aires, avendo raggiunto in settembre un aumento cumulato del 53% su base annua. E sembra che nemmeno il decreto che fissa i prezzi di oltre 1.400 prodotti fino a gennaio potrà arrestare una dinamica che – questa volta – è in atto a livello globale.
La svalutazione della moneta nazionale è l’altra faccia della medaglia di questa situazione: al di fuori dei circuiti ufficiali il peso argentino viene già scambiato a quasi due volte il tasso ufficiale di 99 pesos per un dollaro USA. Tuttavia, mentre il peso si trova in caduta libera sul mercato nero, il Governo sta cercando – in maniera artificiosa – di mantenere stabile il tasso di cambio ufficiale. La reticenza del governo ad accettare una svalutazione ufficiale si può in parte spiegare con l’appuntamento elettorale del 14 novembre e la volontà di evitare un ulteriore scossone a un’economia già sofferente. In un Paese dove, secondo gli ultimi rilevamenti della Banca Mondiale, oltre il 40% della popolazione vive in condizioni di povertà – e più del 10% degli argentini si trova oggi in condizione di povertà assoluta – un ulteriore indebolimento del potere d’acquisto dei cittadini sarebbe deleterio anche alle urne.
L’ombra del default e i difficili negoziati con il FMI
La situazione argentina è ulteriormente aggravata dalla problematica del debito pubblico e dal contenzioso con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) sul pagamento degli interessi dell’ultimo programma di salvataggio. Nel 2018, l’Argentina dell’allora presidente Mauricio Macri ottenne dal FMI un prestito di emergenza equivalente a 57 miliardi di dollari, il più alto mai erogato dall’istituzione finanziaria internazionale e ben superiore alla quota argentina nel Fondo. Le rigide condizioni che accompagnavano il finanziamento non sono però state rispettate neppure prima della pandemia (nel 2019 il deficit pubblico, seppur in diminuzione, si è attestato al 4% del Pil, contro il pareggio di bilancio richiesto dal Fondo) e la crisi causata dal Covid-19 ha reso impossibile ogni rientro secondo i parametri negoziati in precedenza. Inoltre, secondo il governo peronista di Buenos Aires la necessità di stimolare la ripresa economica ha assunto netta priorità sul rispetto degli impegni presi in precedenza verso i creditori istituzionali, al punto da dichiarare di non poter ripagare neppure una tranche di 2 miliardi di dollari sui 19 totali dovuti nel 2022.
Se la situazione di bilancio argentina risulta oggettivamente difficile, molti puntano il dito anche contro la mancanza di progetti credibili da parte del governo per ridurre il deficit e contenere le pressioni inflazionistiche, oltre alla mancanza di riforme strutturali per superare un modello economico ancora troppo dipendente dall’export di materie prime. La richiesta argentina di ridurre gli interessi richiesti dal FMI nel caso di prestiti particolarmente onerosi rispetto alle quote possedute e superiori ai tre anni per durata, (sostenuta anche dalla Task Force International Finance del T20), mostra chiaramente le difficoltà delle economie emergenti nel superare la crisi pandemica senza venir meno ai propri impegni finanziari. Tuttavia, se in linea di principio questa proposta sembra ragionevole, la rigidità mostrata dal governo peronista nelle discussioni con il Fondo, unita alle difficoltà di onorare i pagamenti, getta un’ombra sul futuro del Paese. Anche a causa di questa diatriba non vi sono statistiche aggiornate sulla posizione debitoria di Buenos Aires: tuttavia il debito pubblico nel 2019 si attestava al 90% del Pil e, complice la crisi pandemica, avrebbe raggiunto ormai il 100%. Un simile livello di debito, unito alla reticenza argentina a pagare le tranches dovute nel 2022, contribuiscono a indebolire la già limitata credibilità di Buenos Aires presso gli investitori internazionali.
Se davvero si arrivasse a un default anche verso il FMI, prestatore di ultima istanza, le prospettive per l’economia argentina nel breve e medio periodo peggiorerebbero ulteriormente, facendo incappare il Paese in una crisi di credibilità internazionale pari a quella che aveva portato al tracollo finanziario nel 2001. Senza investimenti esteri sarà infatti assai difficile impostare un percorso di crescita sostenuto che vada a superare le criticità strutturali, né sarà possibile affrontare adeguatamente sfide epocali come quella della transizione ecologica. A tal proposito, la strategia argentina di neutralità climatica non solo viene considerata ampiamente insufficiente, ma necessita anche di ingenti risorse che diventerebbero irreperibili in caso di un default.
Prospettive poco incoraggianti
Per evitare un simile scenario, proseguono le negoziazioni tra Casa Rosada e FMI, anche se non ci si attende una soluzione prima del prossimo anno. L’appuntamento elettorale di domenica riveste quindi una grande importanza anche in quest’ottica: secondo diversi analisti, il Frente de Todos – la coalizione peronista che governa l’Argentina - sarebbe infatti diviso al suo interno sulla linea da tenere nei negoziati con il Fondo Monetario Internazionale. Una corrente più moderata, facente riferimento al Presidente Alberto Fernández e al ministro delle Finanze Martìn Guzmán appare più incline a cercare un nuovo programma di aiuti in cambio di un impegno maggiore sul fronte delle risorse. Ad essi si contrappone invece l’ala oltranzista della coalizione, guidata dalla vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner, una delle voci più critiche verso il FMI: nulla di nuovo, ripensando all’aspro scontro che la ex Presidenta ingaggiò con l’istituzione di Washington nel 2014.
Una sconfitta del fronte peronista alle urne, che appare assai probabile dopo le elezioni primarie di settembre, potrebbe portare a una resa dei conti interna al partito, rendendo le negoziazioni con il FMI ancora più difficili. “Non ho intenzione di inginocchiarmi di fronte ai nostri creditori: un peronista non fa queste cose” ha dichiarato Fernández nei giorni scorsi. Tuttavia, se non si troverà in tempi relativamente rapidi una soluzione ai cronici problemi dell’Argentina, potrebbe essere l’intero sistema economico a finire in ginocchio: anche perché il rialzo dei tassi d’interesse atteso nel 2022 da parte della Federal Reserve potrebbe causare una fuga di capitali dai mercati emergenti penalizzando ulteriormente il clima per gli investimenti esteri.