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Commentary

Algeria: nessuna primavera (per ora) e un Islam frazionato

Gianni Del Panta
02 maggio 2017

I più significativi cambiamenti politici prodotti dalle cosiddette Primavere arabe si sono concentrati in Nord Africa. Tre paesi – Tunisia, Egitto, e Libia – hanno infatti visto la destituzione di dittatori di lungo corso, mentre la mentre la monarchia marocchina è stata costretta a concedere, per fiaccare le proteste, una significativa revisione costituzionale. In un tale contesto, la stabilità del regime autoritario in Algeria è emersa come sorprendente. Questo non significa, ovviamente, che il paese non sia stato attraversato da movimenti di contestazione. Anzi, l’ex colonia francese è risultata il secondo paese, subito dopo la Tunisia, ad essere investito da proteste molto partecipate. Nonostante questo, il regime di Bouteflika non è mai sembrato vicino a correre seri rischi. La ragione risiede nella limitatezza in termini sociali e politici della coalizione anti-governativa.

Mentre negli altri paesi della regione – si pensi soprattutto al caso tunisino ed egiziano – la pressoché totalità delle forze sociali e politiche è scesa in strada contro i regimi autoritari, forzandone in ultima analisi la dipartita, in Algeria la protesta è rimasta prevalentemente confinata a giovani disoccupati o con un’occupazione precaria nel crescente settore informale. I due principali elementi mancati nella solamente abbozzata sollevazione algerina sono così stati l’assenza di un forte movimento operaio e la non cooperazione tra le diverse anime politiche dell’opposizione. Il primo aspetto è stato il frutto, a sua volta, di due specificità del sistema produttivo algerino. Ovvero, il possente processo di de-industrializzazione che ha preso piede a partire dalla fine degli anni Ottanta, con il conseguente declino sia in termini numerici sia di rilevanza politica delle tute blu; e la presenza di un ristretto numero di lavoratori che essendo impiegati nel settore energetico – cruciale per le sorti del paese – gode di condizioni salariali relativamente migliori ed è incline, perciò, ad atteggiamenti corporativi.

Non meno significativa è stata poi la reciproca sfiducia che da decenni caratterizza le fila dell’opposizione, dove liberali, nazionalisti, marxisti e islamisti si combattono fra di loro con una ferocia che raramente riservano al possibile comune nemico, ovvero il regime. Le radici di questa acredine sono sia il portato del tragico decennio – gli anni Novanta – insanguinato da una crudele guerra civile, così come l’effetto di frizioni molto più recenti. Partendo dal primo elemento si deve evidenziare come l’insurrezione islamista seguita al colpo di stato militare che, nel gennaio del 1992, mirava a prevenire una maggioranza assoluta in parlamento per il Front Islamique du Salut (FIS), abbia polarizzato l’intera società algerina, chiamata a scegliere tra gli islamisti e i militari. Le forze liberali e di sinistra hanno spesso, di fronte alla violenza della guerriglia che non risparmiava insegnanti, giornalisti e intellettuali, scelto un appoggio tattico al regime, alimentando così una frattura nell’opposizione tra secolaristi e gruppi religiosi. La reciproca sfiducia è stata poi riprodotta ad arte dal regime che, attraverso la concessione di parziali favori e riconoscimenti a quelle forze che sono state disponibili a prendere parte a elezioni certamente non libere, ha introdotto nuovi motivi di rivalità e sospetto nei ranghi dell’opposizione.

Se quelli delineati fin qui sono i principali elementi che ci permettono di comprendere come mai il regime algerino abbia superato indenne la tempesta delle Primavere arabe, gli ultimi anni hanno – almeno da un punto di vista sociale – segnato un rilevante cambio di passo, con l’aumento degli scioperi (concentrati soprattutto nel settore scolastico e sanitario) e l’emersione di nuovi movimenti di protesta. Sul fronte politico però, al netto di un certo ritrovato spirito di collaborazione, molte fratture permangono e si riproducono.

In questo scenario uno degli elementi di maggiore singolarità è certamente la persistente debolezza dell’Islam politico. A differenza di quanto avvenuto nel post-2011 negli altri paesi nordafricani le forze islamiste in Algeria hanno mostrato una perdurante incapacità di attrarre consensi, raccogliendo, ad esempio, meno del 12% nelle parlamentari del 2012. I principali fattori che aiutano a comprendere questo fenomeno sono almeno tre.

In prima battuta vi è certamente la presenza di un contesto autoritario caratterizzato da forti restrizioni alle libertà politiche e da elezioni parzialmente falsate che non possono essere prese come dato oggettivo della reale forza delle opposizioni.

In secondo luogo, la frammentazione dell’Islam politico in numerosi partiti è certamente da considerarsi. Mentre in Tunisia ed Egitto esiste una strettissima associazione tra l’Islam politico e, rispettivamente, Ennahda e la "Fratellanza musulmana", in Algeria la pluralità di espressioni politiche del campo islamista è ormai un dato consolidato. Inizialmente, durante il cosiddetto esperimento democratico (1988-1992), era stato il regime stesso – con la finalità di indebolire il FIS – a incoraggiare la nascita e lo sviluppo di altre forze, in particolare Hamas e il Mouvement de la Renaissance Islamique (MRI). Successivamente, la frammentazione dell’Islam politico si è auto-riprodotta sia per rivalità personali sia per divergenze rispetto al rapporto nei confronti del regime, spaccando il fronte islamista in forze governative e di opposizione.

Il terzo ed ultimo elemento è invece rappresentato dalla terribile eredità della guerra civile. Le tragiche conseguenze innescate dalla quasi presa del potere da parte del FIS hanno reso l’appeal del messaggio islamista poco attraente, riducendolo ad una via già sperimentata e dagli esiti nefasti. Per questo l’Islam politico in Algeria langue in termini sia elettoralisti sia egemonici, garantendo una maggiore presa sulla società alle forze secolariste, ma rendendole anche prive di un valido alleato nella lotta comune contro il regime autoritario guidato dall’alleanza tra i militari e una borghesia improduttiva.

 

Gianni Del Panta, dottorando Università degli Studi di Siena

 

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Nord Africa Algeria Bouteflika Primavera Araba Islam
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Gianni Del Panta
Dottorando, Università degli Studi di Siena

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