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G20-GLOBALIZZAZIONE

Alla ricerca di filiere "intelligenti"

Alessandro Terzulli
|
Cinzia Guerrieri
11 novembre 2022

Il quadro macroeconomico internazionale è mutato rapidamente a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina a fine febbraio, sfociata in un conflitto la cui evoluzione è ancora incerta. L’incremento dei costi di produzione e le persistenti pressioni inflazionistiche, il deterioramento del clima di fiducia e l’elevata incertezza, l’inasprimento delle condizioni finanziarie e i minori stimoli fiscali hanno determinato inevitabilmente un peggioramento delle prospettive di crescita dell’attività economica mondiale, riviste unanimemente al ribasso, pur mantenendosi in territorio positivo. In particolare, la crescita in volume del commercio internazionale di beni è stimata attestarsi attorno al 4,4% nel 2022, ma inferiore al 2% nel 2023 (in calo di 0,4 e 2,9 punti percentuali, rispettivamente, nel confronto con lo scenario base di inizio anno di Oxford Economics), per poi stabilizzarsi in media a +3,6% nel successivo triennio in linea con la tendenza “new normal” osservata nel decennio successivo alla Crisi Finanziaria Globale.

 

Globalizzazione in crisi? Forse no…

A differenza di quanto sostenuto da alcuni osservatori che paventano l’inizio della deglobalizzazione – prima con lo shock Covid-19, ora con lo shock guerra – il grado di apertura agli scambi commerciali internazionali non ha registrato, sinora, un’inversione di tendenza (Figura 1). Se è vero che il processo di globalizzazione ha subìto un progressivo rallentamento dal 2011 in poi, in parte di natura fisiologica (dopo la forte espansione delle Catene Globali del Valore negli anni precedenti, fenomeno che ha favorito un aumento del livello di integrazione dei mercati e trainato l’espansione del commercio mondiale, soprattutto di quelli intermedi, sostenuto soprattutto della frammentazione dei processi produttivi a livello internazionale, il cosiddetto Great Unbundling) e in parte ascrivibile alle politiche commerciali più restrittive, è altresì vero che la crisi pandemica non ha innescato un marcato arretramento come temuto inizialmente.

 

Figura 1 Grado di apertura commerciale (% Pil mondiale)

Nota: Il grado di apertura commerciale è misurato come il rapporto tra le importazioni e il Pil mondiale.

Fonte: Elaborazioni su dati Oxford Economics

 

Parimenti, con l’invasione russa dell’Ucraina e le conseguenze sull’approvvigionamento di alcuni importanti materie prime e input produttivi, il dibattito sul futuro della globalizzazione si è nuovamente acceso, riportando al centro della discussione potenziali strategie di riposizionamento della produzione. In riferimento alla possibilità di ripristinare alcune o intere fasi produttive dislocate all’estero al proprio interno (reshoring), questo orientamento strategico garantirebbe una minore (ma non nulla) vulnerabilità a shock esterni (rimarrebbe, ad esempio, l’esposizione a shock sul mercato delle materie prime soprattutto per i Paesi importatori netti, come l’Italia), ma dall’altro aumenterebbe l’esposizione delle aziende alle interruzioni nelle catene di fornitura nazionali. In aggiunta, si ridurrebbero i vantaggi connessi alle importazioni, come ad esempio la possibilità di accedere a un’ampia varietà di beni intermedi e di sfruttare il trasferimento tecnologico.

Di altra natura sarebbero invece valutazioni governative di reshoring, che identificano settori di particolare rilevanza strategica che indurrebbero a organizzare filiere produttive locali poco competitive in grado però di garantire una specifica fornitura anche in caso di crisi. Tali misure, lungi dall’essere indirizzate all’“autosufficienza”, dovrebbero, come auspicato da più parti, essere temporanee, proporzionate e specificamente rivolte allo scopo di difendere interessi superiori nazionali in un momento di emergenza. Analogamente, una maggiore regionalizzazione degli scambi attraverso la diffusione di processi di nearshoring avrebbe il vantaggio inter alia di ridurre i costi di trasporto e i tempi di consegna, ma non ridurrebbe i rischi derivanti dalle tensioni geopolitiche in aree limitrofe, come dimostra l’esposizione dei Paesi europei al conflitto tra Russia e Ucraina.

 

Friendshoring: davvero verso filiere “amiche”?

Il dibattito si è ulteriormente evoluto con il concetto di friendshoring proposto lo scorso aprile dal Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen. Questa soluzione avrebbe come obiettivo quello di garantire la sicurezza economica attraverso una nuova architettura del commercio che proceda con accordi plurilaterali con gli alleati degli Stati Uniti, in base a relazioni ben definite e alla condivisione dello stesso sistema di valori. Sebbene possa essere una proposta condivisibile riguardo ai beni (e servizi) direttamente legati alla sicurezza nazionale, vi sono diverse motivazioni a sfavore di questa strategia:

1. la definizione di critical good può essere labile e, se estesa a una più ampia categoria di beni a fini protezionistici, può generare effetti potenzialmente dirompenti sul commercio internazionale, limitando gli interscambi tra Paesi con valori e istituzioni simili (e plausibilmente lo stesso livello di benessere) e riducendo quindi i benefici della specializzazione produttiva di Paesi con diversi livelli di sviluppo;

2. i rapporti di “amicizia” tra Stati possono variare nel tempo col sorgere di nuove tensioni geo-politiche, come dimostra l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sancita dal referendum Brexit del 2016 e la guerra commerciale tra Stati Uniti e UE nel 2018-19;

3. non da ultimo, non bisognerebbe sottovalutare le conseguenze sociali derivanti dall’esclusione dei Paesi più poveri dal commercio internazionale con le economie più avanzate.

 

Verso una nuova geografia “intelligente” delle GVCs

Alla luce di queste considerazioni, la risposta alle sfide poste da un quadro dei rischi macroeconomici globali sempre più complesso e incerto dovrebbe essere orientata, non tanto verso strategie di “deglobalizzazione”, quanto piuttosto a un aggiustamento delle GVCs nella direzione di una maggiore robustezza e resilienza a shock nel medio termine, al fine di ridurne l’esposizione e la vulnerabilità a potenziali rischi, geopolitici e non, e al contempo continuare a beneficiare dei vantaggi comparati acquisiti in termini di efficienza tecnica e specializzazione produttiva, divisione del lavoro e disponibilità di risorse, sfruttando le opportunità derivanti dall’innovazione tecnologica. Questo obiettivo potrebbe essere conseguito attraverso una combinazione di strategie imprenditoriali basate, ad esempio, sull’incremento delle scorte di magazzino, passando dall’approccio just in time a quello just in case, sulla diversificazione delle fonti di approvvigionamento e su una maggiore flessibilità e sostituibilità degli input produttivi.

I costi di una strategia orientata a una maggiore sicurezza, e conseguentemente una minore efficienza operativa, sarebbero superati – entro certi limiti – dai costi potenziali e probabili di disruption delle GVCs. Questo non vale solo per le importazioni, ma anche per i mercati di sbocco dell’export. In generale, i Paesi dovrebbero evitare un’eccesiva dipendenza da qualsiasi partner, a prescindere dalla sua stabilità, anche a causa del crescente rischio di interruzioni imputabili a eventi diversi da quelli qui considerati (ovvero pandemia e tensioni geo-politiche), come ad esempio i fenomeni ambientali estremi divenuti sempre più diffusi, frequenti e impattanti a causa del cambiamento climatico.

 

Questo commentary è la sintesi rielaborata dell’articolo di Terzulli A. e C. Guerrieri, “Scambi mondiali tra speranze di continuità e rischi di implosione” in Progetto Macrotrends 2022-2023, Harvard Business Review Italia (novembre 2022).

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Tags

Geoeconomia globalizzazione supply chains
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AUTORI

Alessandro Terzulli
CHIEF ECONOMIST SACE
Cinzia Guerrieri
UFFICIO STUDI SACE

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